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Interlocuzione all’Ordine: testo completo

La sofferenza umana non può diventare un residuo muto della politica
Guerrasi, 2019

Con il presente documento intendiamo proporre una serie di riflessioni su alcuni aspetti della professione psicologica che sarebbero già dovuti essere oggetto di un confronto approfondito. Infatti, sarebbe stato auspicabile riflettere prima sulle conseguenze psicosociali delle normative che riguardano gli psicologi in quanto sanitari.

L’assorbimento dell’area psicologica all’interno delle professioni sanitarie (L. 3/18) non dovrebbe farci dimenticare che il mentale necessita di una visione propria e specifica, non subordinata a una pratica unicamente sanitaria che risente molto dell’epistemologia medica.

Il documento, nello specifico, pone al centro la riflessione su come le comunità occidentali contemporanee accolgano l’umano e la sofferenza umana. La domanda è fondamentale, in quanto dalla risposta discendono pratiche di lavoro anche molto diverse tra di loro, e differenti modalità di interpretazione del nostro specifico mandato sociale.

Gli psicologi oggi sono al servizio di un adattamento umano all’ambiente culturale (anche se nessuno può mai essere definitivamente e perfettamente adattato) o al contrario incentivano specifici percorsi di soggettivizzazione, individuali e gruppali? In quanto psicologi professionisti, siamo consapevoli di essere figli di questo tempo, anche noi assoggettati a vincoli di potere (di cui dovremmo essere il più possibile consapevoli) che ci abitano e che agiamo? Quali sono le attuali strutture organizzative in grado di generare automaticamente mentalità e forme di comportamento all’interno di una società?

La definizione di “sanitario” sembra essere stata l’unica motivazione che ci ha visti coinvolti all’interno di un obbligo vaccinale discutibile per diversi motivi, da quelli legali a quelli legati alle conseguenze di breve e lungo termine connesse alla somministrazione del farmaco.

Il D.L. n. 172 del novembre 2021[1] stabilisce che siano gli Ordini professionali a verificare la posizione vaccinale del collega e, in caso di inadempimento senza “giusta causa”, a stabilirne la sospensione.

Segnaliamo che una prima questione si pone già in relazione al termine “vaccino”,  termine che useremo in questo documento riferendoci ai farmaci cosiddetti anti-COVID approvati con procedura “fast track” condizionata (secondo criteri ancora oggi molto controversi: la letalità del Sars Cov 2 e l’assenza di cure per la malattia COVID). Lo useremo per convenzione, sapendo che l’uso potrebbe essere improprio, e implica molti interrogativi che non hanno ancora avuto una risposta esaustiva[2].

La vaccinazione diviene requisito all’esercizio della professione, e persino i nuovi iscritti devono presentare, tra i documenti necessari, il certificato che attesti il completamento del ciclo vaccinale primario ed anche di tutte le dosi di richiamo previste per legge[3]; in tal modo lo svolgimento della professione risulta de facto subordinato a un trattamento sanitario obbligatorio.

La posizione degli Ordini regionali e del CNOP fin dall’inizio non ha previsto alcun dibattito interno e non ha dato “ascolto” a quella parte di colleghi che sulla legittimità (sanitaria, legale, politica) dell’obbligo vaccinale nutre e continua a nutrire dubbi.

Le questioni, lo comprendiamo, non sono di poco conto e ci chiedono di tornare ad interrogare i paradigmi che guidano le nostre pratiche professionali.

È purtroppo un dato di fatto che né gli Ordini professionali né il CNOP abbiano coinvolto gli iscritti, e che non abbiano adempiuto alle funzioni di tutela nei confronti di coloro che hanno scelto di non vaccinarsi o di non proseguire con l’inoculazione delle ulteriori dosi di richiamo.

Riteniamo, quindi, non più procrastinabile rappresentare ufficialmente a codesto Ordine il malessere professionale, sociale e culturale connesso all’applicazione delle Leggi, nel modo in cui sta avvenendo. Segnaliamo il grave rischio di rottura del rapporto di fiducia con tutte le istituzioni, sempre più percepite e trasformate in istituti di mero controllo sociale[4] (si veda a tal proposito il paragrafo: “Frattura del patto sociale”).

Le istituzioni, e gli Ordini tra queste, rischiano di qualificarsi come funzionari di “processi senza soggetto”, che si muovono dentro una logica eteronoma e che non si risolvono mai dentro forme di soggettivizzazione reali. Tali processi, lo ricordiamo, attraversano gli individui restituendo loro una sensazione di impotenza, annichilimento e schiacciamento, in quanto li espropriano della volontà e del potere, inteso come possibilità di “avere presa” sul mondo (descriveremo meglio alcuni aspetti all’interno del paragrafo “Tutela dei pazienti”).

Diversi Autori hanno evidenziato come la sensazione di essere sottomessi a una volontà anonima, impersonale e trasparente abbia come conseguenza non certamente innocua il dissolvimento della volontà individuale e del legame sociale.

Ciò che rimane fuori è proprio il senso “plurale” della convivenza.

In più occasioni sia Elias (1990), sul piano sociologico, che Kaës (2013) in una prospettiva psicoanalitica, hanno evidenziato il profondo livello di malessere che crea una società (in questo caso una comunità professionale) caratterizzata da “processi senza soggetto”, processi che gravano particolarmente sull’attività di simbolizzazione e sul “pensiero che lavora per donare un senso alla complessità”.

Riteniamo che le conoscenze scientifiche debbano essere prese sempre in considerazione, ma crediamo anche che esse non possano ridursi ad aspetti procedurali tecnico-amministrativi, perché ciò non rende conto della specificità umana che, lo ripetiamo, è “plurima”[5].

Se la riflessione sulla pluralità umana poteva forse essere sospesa all’inizio della emergenza sanitaria da COVID-19, oggi alla luce non solo della fine dello stato di emergenza ma anche di evidenze scientifiche più solide, non possiamo continuare a procrastinare un confronto sul tema.

Diviene prioritario, in un momento storico come questo, segnalare la progressiva “distruzione” di spazi che possano garantire quelle differenze di cui “gli esseri umani sono interpreti e testimoni diretti. Fuori dalla logica di controllo, che vuole invece regolare o distruggere il diverso e la differenza” (Fina, Mariotti, 2019, p. 119).

Riteniamo utile che gli psicologi, che dovrebbero riconoscere il valore della diversità come qualcosa di fondativo della condizione umana, possano tornare a confrontarsi sui temi del documento al fine di valorizzare, come ci aspettiamo, la caratteristica “plurale” delle comunità umane.

La possibilità di accedere ad una polis e sentirsi impegnati nel processo di “trasformazione” del mondo è un’ottima alternativa alla rassegnazione di “essere adatti e adattati”, con tanto di certificato di “adattamento abilitante e abilitato”.

L’obiettivo più specifico del presente documento è quello di condividere delle letture di carattere psicologico e psicosociale sulle conseguenze di quanto sta avvenendo in Italia rispetto alla gestione sanitaria, ma ancor più sui danni a breve, medio e lungo termine che ha prodotto l’obbligo vaccinale, sia sulla salute individuale che collettiva.

Il documento, suddiviso in punti, rappresenta il frutto di un confronto costante con colleghi di tutta Italia, che hanno deciso di raccontare il malessere sorto all’interno della professione, per pensarlo e rileggerlo alla luce di una riflessione di più ampio respiro.

In aggiunta ai colleghi psicologi, riteniamo che uno degli interlocutori privilegiati sia l’Ordine professionale, in quanto Organo pubblico di tutela della professione, che assume l’importante funzione di innalzarne il valore sociale.

Il CNOP è composto dai Presidenti degli Ordini Regionali, e dunque avrebbe potuto agire sia a livello locale sia nazionale. Nel primo caso non ha avviato alcuna azione di tutela, ad esempio creando tavoli di lavoro su tali spinose questioni; nel secondo caso non ha avviato con i Legislatori un processo di consulenza per salvaguardare i diritti dei propri colleghi, nonché dei fruitori delle prestazioni professionali.

L’Ordine in via elettiva cura l’osservanza delle leggi dello Stato; ma se queste rischiano di essere discriminatorie nei confronti dei propri iscritti, o contraddittorie rispetto ad altre normative, ha la possibilità, se non il dovere di rappresentarlo.

A tal proposito non possiamo fare a meno di citare l’ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa del 17 marzo 2022, emessa a pochi giorni dall’invio, da parte dell’Ordine, dei provvedimenti di sospensione nei confronti dei colleghi. L’ordinanza per altro è l’ultima di una lunga serie di provvedimenti ad opera dei TAR[6] e della Giustizia Ordinaria, che segnalano i pericoli di incostituzionalità, e l’ingiustificata sproporzione tra la misura disciplinare adottata e la motivazione della stessa[7].

Nello specifico, i giudici del CGA sono molto chiari nel dichiarare rilevante e non manifestamente infondata la questione della legittimità costituzionale, articolo 4, comma 1 e 2 D.L. 44/21.

Le motivazioni dell’ordinanza sono talmente chiare da fugare ogni dubbio, sia nei termini della legittimità dell’obbligo sia nei termini della misura disciplinare adottata[8]. L’ordinanza tiene molto in considerazione la letteratura scientifica (ad esempio quella sugli eventi avversi) e non sottovaluta le gravi lacune procedurali avvenute nel corso della campagna vaccinale (inadeguatezza della farmacovigilanza, mancato coinvolgimento dei medici di famiglia nel triage prevaccinale, la mancanza, nella fase di triage, di approfonditi accertamenti e perfino dei test di positività)[9].

Per i giudici, lo stato attuale dello sviluppo dei vaccini anti-COVID, così come le evidenze scientifiche in merito, non soddisfano la condizione posta dalla Corte Costituzionale di legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale. Un vaccino, si legge nell’ordinanza, può essere reso obbligatorio solo se si prevede che esso non incida negativamente e in maniera irreversibile sullo stato di salute di chi è obbligato. L’evento avverso “morte”, anche nella misura di un solo caso dimostrabile, esclude la Costituzionalità di un obbligo: le ricadute etiche sono enormi perché si sottintende non solo che vi possa essere una quota di cittadini sacrificabili, ma anche che possa essere fissata una percentuale di cittadini sacrificabili.

Infine, rispetto alla questione su quanto spazio discrezionale poteva avere un Ordine professionale, ricordiamo ad esempio che in occasione del Decreto Legge del 1 aprile 2021, n. 44, convertito con modifiche nella Legge 28 maggio 2021, n. 76,  il Consiglio Nazionale degli Assistenti Sociali aveva richiesto al Ministero della Salute un parere interpretativo dell’obbligo vaccinale, dal quale si è potuto chiarire che gli Assistenti Sociali, pur essendo compresi nell’area delle professioni sanitarie, per il loro specifico lavoro, non erano da ritenersi soggetti all’obbligo vaccinale.

Per questi motivi abbiamo preparato per l’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia una proposta di discussione sui seguenti punti:

  1. Ambiguità come marker culturale della moderna società occidentale
  2. Requisito professionale e abuso della professione
  3. Scienza e responsabilità
  4. Frattura del patto sociale
  5. Dinamica del capro espiatorio
  6. Tutela dei colleghi
  7. Tutela dei diritti dei pazienti

Qui puoi scaricare il documento completo in formato pdf.

Ambiguità come marker culturale della moderna società occidentale

Il D.L. 44/21 è una delle tante leggi eccezionali emesse durante gli ultimi due anni. Un atto governativo che, insieme ai successivi, sancisce un’ambiguità[10] che non può passare inosservata: la compresenza di un obbligo e di un consenso informato.

La COVID-19, così come l’epidemia da SARS-CoV-2, non ha creato nulla di nuovo; ha solo fatto emergere processi, significati e dimensioni culturali che sono sempre stati presenti, seppure sullo sfondo. Anche le nostre riflessioni non hanno niente di nuovo, in quanto riteniamo che la vicenda pandemica e la vicenda vaccinale siano solo dei marker che hanno palesato le premesse culturali di cui, nel nostro lavoro di psicologi, è bene essere consapevoli.

Un elemento che ha colpito tutti è stato la presenza di leggi, condotte e linguaggi[11] che manifestavano un’evidente ambiguità di fondo.

Si è parlato di libera scelta mentre venivano introdotte misure che obbligavano in maniera surrettizia. Si è parlato di libertà mentre si accettava qualsiasi misura di controllo sociale. Si è parlato di comportamenti inclusivi mentre si decretava l’uscita dei cosiddetti no vax dalla socialità comune[12].

Il green pass è uno strumento di libertà e sicurezza; il vaccino è sperimentale, ma è sicuro, fidatevi della scienza: i test di efficacia e di sicurezza sono svolti dalle aziende farmaceutiche produttrici; immunizzati sono coloro che sono inoculati con un farmaco che non sterilizza. Queste sono alcune frasi esemplificative in cui sono compresenti, senza creare alcun problema, referenti simbolici anche molto diversi, che richiamano alla memoria espressioni ambigue come “la nostra non è una guerra ma una missione di pace”.

Frasi del genere evidenziano un atteggiamento in cui si mette in atto (o si afferma) una posizione e contemporaneamente la posizione diametralmente opposta. A volte la persona, o il gruppo, è perfettamente consapevole della duplicità delle posizioni, ma il senso di contraddizione interna, e la sofferenza che ne deriva, non vengono rilevati né denunciati.

Da Argentieri (2008) questi atteggiamenti vengono definiti “ambigui”: gli atteggiamenti, i comportamenti, così come i linguaggi ambigui hanno la funzione di evitare e disattivare il valore e la portata intersoggettiva delle differenze; sfuggono all’angoscia della contraddizione, alla fatica dell’ambivalenza e allo sforzo di doversi porre dei problemi e decidere, infine, da che parte stare.

Eludere stati d’animo penosi è il fine dell’ambiguità. È questo il motivo per cui l’ambiguità, restando nel mondo dell’indifferenziato, nega pericolosamente il registro mentale della differenza. L’assenza e lo smantellamento di istituti e dispositivi atti a mediare e garantire il senso della differenza, lascia gli esseri umani sempre più in balia di quella che Girard (1982) definisce “violenza mimetica”.

Inoltre, la violazione dei fondamenti logici della comunicazione, come il principio aristotelico di non contraddizione, consegna il discorso a una ambiguità ulteriore, fonte di un disorientamento che invalida ogni possibilità di coerenza e consequenzialità logica. Il discorso è invalidato nelle sue possibilità di razionale acquisizione di significato: dove A è uguale e contemporaneamente diverso da A stesso, là è il luogo dell’irrazionale (del sogno o della follia), in cui tutto può essere affermato e contraddetto senza limitazione, in cui la conoscenza razionale è compromessa. Gli effetti di tale operazione sulla comunicazione di massa sono la confusione, uno sforzo interpretativo senza fine, l’adesione passiva, o ancora la difesa irrazionale (o contro l’irrazionale, potremmo dire a questo punto).

Secondo Amati Sas (2020) sono ambigui tutti gli atteggiamenti che rendono vago il valore delle cose. Così si diventa accomodanti, senza però riuscire mai a prendere posizione[13]; si rimane indefinitamente sospesi, fluttuanti (proprio al fine di evitare di fare una scelta).

Secondo l’Autrice, il fine principale dell’ambiguità, anche in termini evolutivi, rimanda ad una funzione di adattamento importante dell’essere umano: l’ambiguità è quella malleabilità, flessibilità, fluidità che permette di adattarci a qualsiasi condizione, consentendoci di negare al contempo la violenza specifica della contemporaneità. L’ambiguità in questo senso sembra essere proprio un marker culturale della società moderna occidentale: se non possiamo sognare il mondo che vorremmo abitare, non ci resta che adattarci ad esso, e rendere meno angosciante la violenza, la corruzione e la sensazione di essere perennemente sull’orlo di un precipizio.

È il “sì… (certo è ingiusto) però… (la scienza dice che)” che fa fuori la partecipazione sociale. Per partecipare ad una comunità, socialmente e attivamente in termini “politici”, è necessario prendere posizione. Proprio per questo motivo Argentieri (2019) definisce gli atteggiamenti ambigui “piccoli crimini della coscienza”, e segnala che questa modalità di relazione con gli altri e con se stessi è sempre più diffusa: dal campo dei rapporti amorosi, al campo della politica fino alla bioetica.

Non è un caso che l’ambiguità sia un atteggiamento così diffuso, perché permette di tenere insieme due caratteristiche della contemporaneità inconciliabili e “impensabili insieme”. Ideali sociali[14] alti e assoluti (quali “il bene comune”) sono assolutamente inconciliabili con la violazione dei diritti umani e costituzionali, ad esempio.

L’ambiguità è quindi un modo per non soccombere ad un Ideale dell’Io troppo elevato, impossibile da sostenere: così è facile poter dichiarare un alto valore morale, senza che il comportamento “immorale” messo in atto possa creare alcun senso di smarrimento. In un mondo in cui i sistemi di sfruttamento, di corruzione e di violenza convivono costantemente con l’interesse proclamato al più alto “bene comune”, è facile che l’ambiguità permetta di trovare un compromesso tra una natura umana “non risolta mai definitivamente” e gli idealietici, che invece ci vorrebbero sempre risolti e dalla parte del giusto, garantendoci così, al contempo, un senso di superiorità morale.

L’ambiguità come modo per sfuggire alla necessità di pensare l’impensabile è anche un modo per iniziare a “sostenere lo sguardo sulla realtà” (Arendt, 1951) ed uscire dalla posizione in cui si conosce e al contempo si ignora. Una posizione dalla quale chiediamo che l’Ordine degli Psicologi si tiri fuori.

In tanti hanno inviato diffide, lettere o hanno cercato contatti personali con i referenti istituzionali, segnalando all’Ordine la situazione spiacevole e drammatica verso la quale si stava andando: le lesioni alla dignità personale, i potenziali pericoli per pazienti e utenti, la sensazione di essere lasciati davanti ad una violenza programmatica, le possibili violazioni costituzionali[15]. Ma l’Ordine ha scelto di ignorare e di non prendere in considerazione l’altro lato della medaglia del “bene-comune”, del “fidatevi-della-scienza”, del “vaccino-salva-la-vita”.

Per certi versi l’ambiguità sta al polo opposto della responsabilità. Per Arendt (1951) prendere posizione è uno sforzo necessario per iniziare a reggere il peso che il pensare la realtà comporta, significa “portare il fardello che il nostro secolo ci ha messo sulle spalle” (Boella, 2020).

Prendere posizione rispetto alle gravi lesioni e alla discriminazione di cui sono oggetto i colleghi iscritti all’Ordine, è per noi un modo per tirarci fuori dall’ambiguità.

Noi non ci abituiamo alla violenza della nostra contemporaneità. Fuori da una posizione vittimistica, ci dichiariamo portatori di uno “sguardo altro” sulla realtà (Bell Hooks, 2018).

Non possiamo che essere d’accordo con Mariotti quando individua nella relazione la matrice fondante dell’etica: solo quando l’altro non è più solo qualcosa di esterno a me, ma una persona libera in mezzo a persone libere, solo quando vi è riconoscimento intersoggettivo della human condition, si può transitare dalla morale divieto (da cui discendono tutte le leggi che “vietano” e “sanzionano pensieri”) “alla morale della risorsa”, “dalla prescrizione esterna ed astratta” “alla situazione impegnata” (Fina, Mariotti,  2019, p. 37).

Requisito professionale e abuso della professione

Non possiamo fare a meno di notare quanto sia difficile aprire un confronto tra professionisti rispetto alla questione vaccinale.

Ogni volta che si prova ad esprimere perplessità o punti di vista “non allineati” (come adesso si usa definirli) sembra calare imbarazzo; sembra di entrare in un ambito “sacro” di cui non si può parlare, e il solo pronunciare la parola tabù diventa “eresia”.

Espressioni quali “lo dice la scienza”, “fidatevi della scienza”, “bisogna credere nella scienza” implicano un atto di fede che è proprio delle religioni: la scienza ha preso il posto della religione come istanza sociale e parlare “spudoratamente” del “sacro” crea imbarazzo. Sembra essersi sviluppato un rapporto con la scienza identico a quello che il fedele del medioevo aveva con la Chiesa. La scienza si dota di un suo Clero e di un tribunale dell’Inquisizione. Le persone vi aderiscono in massa, dando per certo che ciò che essa promulga sia il Vero. Nessuno deve osare contraddirla. Chi non aderisce è un eretico e va escluso dalla collettività, a prescindere dagli argomenti che propone.

È ingenuo pensare che il sacro, nel nostro caso, sia rappresentato dal codice deontologico sempre più interpretato in chiave medico-scientifica? L’imbarazzo può rimandare ad una “grave” violazione deontologica?

Fino al mese di novembre 2021, per iscriversi all’Ordine degli Psicologi Italiani[16] era necessaria una laurea, un periodo di tirocinio e un esame di stato abilitante. La ratio di questi tre requisiti per l’esercizio della professione è talmente evidente da non necessitare spiegazione.

Mentre però si discute di creare lauree abilitanti per rendere più agevole l’ingresso nel mondo del lavoro da parte dei giovani colleghi, come requisito all’esercizio della professione viene imposto per legge, e da non esperti del settore, il possesso della certificazione attestante l’ottemperamento dell’obbligo vaccinale, a prescindere dal settore o dal luogo di lavoro.

In questo modo, la mancata vaccinazione, così come la mancata inoculazione della dose aggiuntiva, equipara il professionista in possesso di tutti i requisiti previsti dalla legge a qualsiasi altro abusivo della professione.

Sarebbe opportuno chiedersi come sia potuto accadere che il nostro mondo professionale abbia accettato con così estrema facilità e senza richiesta di consulto, l’introduzione di criteri arbitrari per stabilire i requisiti di accesso alla professione, con tanto di azione retroattiva (non riguarda solo i nuovi iscritti ma anche chi pratica da anni).

La comunità professionale e purtroppo anche gli Ordini hanno accettato l’introduzione di un criterio arbitrario che rende improvvisamente illegittima e irregolare una posizione legittima.

Il testo “Position Statement sul comportamento antiscientifico e/o contrario all’obbligo vaccinale” dei professionisti sanitari e sociosanitari rispetto alla pandemia da SARS-CoV-2” è stato stilato e sottoscritto da tutti gli ordini delle professioni sanitarie e socio-sanitarie, incluso quello a cui chiediamo audizione.

L’obiettivo dichiarato è mettere al servizio della salute pubblica tutti i professionisti iscritti.

A latere di questo discorso, ricordiamo solo che imporre un paradigma ha sempre dei costi sociali e culturali, e ci chiediamo se sia mai stata attivata all’interno del nostro Ordine una discussione in tal senso.

Inoltre, la salute a cui il testo allude è intesa come assunzione di un vaccino che per altro non esclude, lo ricordiamo di nuovo, né il contagio, né la malattia, né il decesso.

Si è voluta “imporre” la vaccinazione per evitare i focolai, che avrebbero provocato l’interruzione della continuità dei Servizi Pubblici, e tuttavia ciò è comunque accaduto. Non si comprende però perché venga coinvolto anche un libero professionista che lavora all’interno del proprio studio privato, e che tratterebbe la COVID-19 con la stessa diligenza e responsabilità di qualsiasi altra malattia o evento imprevisto.

Non è chiaro poi se gli Ordini, nel richiedere un intervento di “sensibilizzazione” quando non di “persuasione”, stiano invitando implicitamente i professionisti ad esercitare pressioni sui convincimenti di quelle persone che per epistemologia, sensibilità, idee diverse sulla salute pubblica non vogliono acconsentire alla vaccinazione.

Ciò sarebbe in chiaro contrasto con il divieto, stabilito dal Codice, di usare la propria influenza professionale per orientare le scelte del paziente: “nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori” (art. 4).

Si può derogare a questo principio in forza della presunta verità scientifica? Sottolineiamo “presunta” poiché la scienza procede per errori, per rettifiche, per contraddizioni, per confronti, e non per verità univocamente statuite.

Ogni professionista ha l’obbligo di informarsi e formarsi (artt. 5 e 7) e di valutare i dati in possesso dalla comunità scientifica, così come di valutarne l’aderenza alle regole del metodo scientifico, alla precisione del linguaggio e ai metodi di rilevamento e validazione dei dati.

Il collega che non ignora i dati scientifici “incongruenti” ma che si informa sulle ricadute psicologiche di certe pratiche e che valuta l’impatto sulla salute globale delle persone sta semplicemente rispettando il codice deontologico; allo stesso modo del collega che decide di informarsi sulle conseguenze dirette e indirette di certe biotecnologie (in questo caso l’inoculazione di un farmaco nuovo e sperimentale) o che decida di integrare la propria formazione con letture di carattere etico, filosofico, sociologico e antropologico. Un collega deontologicamente orientato dovrebbe, secondo noi, lavorare a garanzia dell’indipendenza delle conoscenze scientifiche.

Inoltre, in che modo viene garantito il principio di neutralità e di rispetto dei convincimenti delle persone che a noi si rivolgono? Non rischiamo di ricalcare vecchie terapie di “conversione” al sapere costituito?

Il testo di cui lo stesso Ordine è firmatario, condanna qualsiasi posizione in contrasto con quella dichiarata e giustifica una serie di scelte arbitrarie tutt’altro che innocenti, ma che si vestono di giustificazioni tecnocratiche (Mignosi, 2020).

L’implicito nella sospensione è l’illecito deontologico da parte di un  professionista che non rispetta le regole di decoro professionale?

Inoltre, vi è un chiaro conflitto tra questo comunicato che condanna i comportamenti “in netto contrasto con la tutela della salute pubblica e collettiva” e l’imposizione di una vaccinazione che non esclude la presenza di eventi avversi anche gravi, in taluni casi anche la morte[17].

Come può un professionista lavorare in scienza e coscienza, se deve tacere a se stesso e agli altri i dubbi, le contraddizioni, le semplici considerazioni?!

Il rischio implicito di questi poteri-saperi (anche in relazione ai criteri di valutazione bibliografici) è stato ben descritto da Profita e Ruvolo (2020): “si tratta in ultima analisi non di lasciare spazio al pensiero, scientifico e non, una libertà d’investigazione e di ampliamento dei saperi, ma di stabilirne i parametri al fine di controllare la validità e la trasmissibilità di un sapere pre-definito” (p. 10).

Perché, se di questo si tratta, riteniamo che debba essere condiviso e discusso all’interno della comunità professionale più allargata.

Se gli psicologi, solo recentemente, sono diventati operatori sanitari, ci chiediamo quale prezzo stiamo pagando per tutto questo.

Scienza e responsabilità

Telmo Pievani, biologo eticista, è un vero scienziato, e nonostante sia assolutamente aperto alle innovazioni tecniche in campo scientifico (ad esempio la bioingegneria e le sue potenzialità nel miglioramento della qualità della vita umana), ritiene fondamentale mantenere  sempre aperta la questione etica nella ricerca scientifica.

L’etica rimanda alla necessità di guardare alle conseguenze di ciò che facciamo, e per questo riteniamo centrale il tenere sempre aperta la questione etica nella ricerca scientifica.

Non entreremo qui nel merito della mancanza di rigore scientifico di molti dei presupposti su cui si fonda l’intera gestione dell’epidemia[18], o del vaccino a tecnologia ad mRNA, sulla cui sicurezza ed efficacia il mondo scientifico sta tuttora vivacemente dibattendo. Qui ci interessano maggiormente gli aspetti psico-sociali sottesi a certe pratiche.

Già Fukuyama (1992) aveva analizzato attentamente i rischi di controllo sociale insiti in una visione politica che delega alla scienza i criteri per stabilire il confine tra bene e male, giusto e ingiusto, bene collettivo ed egoismo individuale.

La marginalizzazione sociale determinata da certe politiche sanitarie ne è testimonianza.

La scienza, come ci hanno spiegato Morin (2001; 2007) o Ceruti (2018), non è per niente neutra, piuttosto ci dovremmo sempre interrogare se e come delegare al modello scientifico (matematico, statistico) la realizzazione della società desiderabile.

Bollas (2018) sostiene che la credibilità intoccabile della scienza possa essere una reazione agli avvenimenti catastrofici del secolo scorso, che hanno portato ad una progressiva perdita di fiducia nelle capacità umane di risolvere i problemi. Le conseguenze non sono irrilevanti: “avendo rinunciato a considerare noi stessi mediatori credibili della nostra esistenza”, l’essere umano è andato alla ricerca di mediatori esterni (professionisti, tecnici, App) “consentendo al nostro cervello di avvizzire nella narcosi della rinuncia al Sé” (p. 33).

Delegare alla scienza le scelte rilevanti sul piano delle vicende personali, nella convinzione della sua presunta neutralità, significa non comprendere fino in fondo il rischio che siano gli algoritmi a governarci.

Del resto, proprio la gestione di questa emergenza sanitaria è avvenuta per mezzo di molti algoritmi. Gli stessi concetti di salute e rischio, sono mutuati dall’ambito statistico-matematico: il rischio, ad esempio, non riguarda mai la singola persona ma una popolazione, è la probabilità che al suo interno accada un determinato fenomeno[19]. Nulla viene detto sulla persona, su come un fenomeno impatti nella vita di quella persona (che è esito di una storia, di convinzioni, di interpretazioni personali sulla qualità di vita e sulla salute).

“Identificarsi con questo tipo di astrazione statistica significa cimentarsi, sosteneva Illich (1976; 1977), in una “radicale algoritmizzazione di sé”: detto in altri termini un costrutto statistico rischia di sostituirsi all’esperienza sensibile, sradicando il soggetto dalla percezione e valutazione, e virtualizzando la realtà fino all’inverosimile (Cayley, 2020).

A partire da considerazioni molto simili, Bollas (2018) si chiede se queste forme di pensiero operazionalizzato, orizzontale, rivolto all’esterno e al controllo dell’esterno, non siano la prova di un soggetticidio incombente.

“Essere, entrare in relazione ed esistere ‘in prima persona’ oggi risulta forse troppo problematico. La critica postmodernista secondo cui il soggetto era un’illusione ha probabilmente rappresentato la prima oggettivizzazione filosofica del suicidio soggettivo. Ora sembra che l’allontanamento dalla generazione del significato abbia distrutto i Sé in modo diverso: li ha lasciati privi di agentività, semplici oggetti in un mondo di oggetti” (ibidem, p. 129).

Non è un caso, per esempio, che per Arendt (1958) la crisi della modernità sia intrinsecamente legata alla crisi dell’azione come strumento di pratica politica.

“Ogni automatismo, dunque, nella lettura del fatto (o del clima) espone al rischio di genericità poiché non tiene conto, appunto, dello specifico mondo interno del soggetto, della sua storia, e in ultima analisi, della ri-traduzione che ogni soggetto opera di quello stesso fatto sociale: è in tal senso che, nella lettura del fatto sociale, lo psichismo non può costituire un fatto secondario, marginale o addirittura inutile” (Mariotti, Fina, 2021; p. 16).

I modelli matematici statistici escludono dall’orizzonte di senso il significato personale, il potere e la competenza personale, a favore della burocrazia e di una amministrazione impersonale.

Spingendo tout court verso una visione operazionalizzabile dell’umano, le scienze rischiano di schiacciare nell’unità (Arendt, 1958) la pluralità della condizione umana: il riconoscimento di un unico bene vale per una società abitata da individui che funzionano secondo i medesimi meccanismi, i medesimi sentimenti, i medesimi comportamenti[20].

Le pratiche sanitarie sono sempre più intrappolate dentro i costrutti matematici di rischio e di salute, contribuendo così alla delegittimazione del “potenziale umano”.

Oggi le persone non possono più prendere consapevolmente una decisione senza avere prima consultato un tecnico, o accedere ad uno spazio “di diritto” senza un’autorizzazione (certificazioni, autocertificazioni, recentemente anche digitali).

Sempre di più, la società “regolata da algoritmi” rende la vita governata da qualcosa di impersonale laddove, al contrario, il controllo si fa personale con una penetrazione sempre più radicale nei bisogni e nei desideri.

La matematica Cathy O’Neil (2018) spiega che gli algoritmi sono un potenziale strumento di controllo dell’umano e chiarisce, con tanti esempi contemporanei, come l’algoritmo alla base di qualsiasi modello scientifico (economico, medico, educativo) sia sempre espressione di un’idea politica tradotta in operazione matematica. È proprio per tale motivo che, dal suo punto di vista, i modelli matematici  rimangono “innocui” fintanto che non vengono formalizzati e proposti come modelli di comportamento adattabili a miliardi di persone.

Quando gli algoritmi vengono “imposti” entrando in una sfera personale (definendo algoritmicamente cosa per una persona sia “bene”), non solo rischiano di diventare modelli di controllo, ma soprattutto rischiano di qualificarsi come generatori di violenza: chi non si adatta a questi modelli viene visto come irrilevante, privo di valore e comunque sacrificabile. Le esclusioni diventano, così, tollerabili proprio attraverso l’irrilevanza che lascia i soggetti “senza possibilità di appello”.

Per Guerrasi (2019), ad esempio, l’irrilevanza è l’unico modo che la nostra società possiede per tollerare la violenza insita nei modelli matematici.

La scienza medica, il cui ruolo indiscusso nella gestione dell’epidemia è intrinseco nella delega a tecnici, rischia di creare sempre più un solco rispetto alle persone reali, alla vita e al senso comunitario delle cose.

Per Kaës (2013) la società post moderna può essere considerata un “agglomerato di individui” che vivono all’interno di una cultura anonima, impersonale, e inseriti in una storia (personale e collettiva) priva di una vera e propria finalità.

L’essere umano, privato di un orizzonte di senso più ampio, vive il dramma di non potersi “fare soggetto”: relegato in una posizione di anonimia egli rimanere drammaticamente incastrato dentro “processi senza soggetto”.

Come professionisti che si occupano dell’umano, della creazione di salute pubblica dovremmo sempre chiederci cosa si celi dietro la semplice affermazione di “somministrare una cura”: quanto sosteniamo percorsi di soggettivazione? Quanto restituiamo alle persone la loro capacità di donare senso a sé e alla propria storia? Quanto, al contrario, avalliamo pratiche alienanti, culturalmente ascrivibili a quei “processi senza soggetto”?

La matematica dovrebbe essere usata con molta consapevolezza e mai dovrebbe diventare modello globale e sociale, proprio perché rischia di tagliare fuori una fetta della popolazione qualificandola, appunto, come irrilevante.

La post-modernità ha reso i professionisti degli erogatori di servizi che con la salute hanno ben poco a che vedere: mentre invece se uno psicologo o uno psicoterapeuta vengono sospesi, non si interrompe un Servizio[21] ma una cura.

Viene sospesa una relazione definendola illegittima, quando non indecorosa (da cui discende la sospensione) e illegale (da cui discende il reato di abuso della professione).

Il dolore e la rabbia che molti pazienti hanno mostrato davanti alla comunicazione della sospensione del proprio professionista attiene a tutto questo, alla violenza che crea una cesura e che con la loro salute ha ben poco a che fare.

Questi aspetti dovrebbero essere al centro del nostro confronto professionale, anche solo per contribuire ad uscire dal “silenzio etico” di questa epoca (Fina, Mariotti, 2019).

Frattura del patto sociale

La decisione di sottoporre a limitazione la libertà di un cittadino è un atto istituzionale essenziale e ineluttabile all’interno delle società contemporanee.

In virtù di ruoli e/o compiti specifici ciascuno di noi dovrà stabilire con le istituzioni che lo definiscono, ciò che può essere considerato un vero e proprio contratto da cui scaturiscono divieti/obblighi e opportunità.

Già la semplice “cittadinanza” è una categoria di ruolo che si articola in una congerie di aspettative (divieti o obblighi) o diritti (opportunità). Quanto più è specifico il ruolo, tanto più lo è anche il suo corredo.

Alcuni di questi elementi spesso non sono prescritti esplicitamente, ma vengono comunque molto sentiti e praticati per tradizione informale; essi sono capaci di incoraggiare o scoraggiare specifici comportamenti e generare conseguenze sociali che possono impedire o promuovere una corretta assunzione di ruolo.

In psicosociologia i divieti rientrano nell’ambito del cosiddetto “patto denegativo”, mentre i vantaggi in quello del “contratto narcisistico” (Kaës, 1991).

In altri termini, il patto/contratto che lega cittadino e istituzione stabilisce a cosa egli debba rinunciare e quale vantaggio egli ne possa trarre. Affinché un ruolo possa prevedere vincoli anche severi, è fondamentale che restituisca, in cambio, privilegi e possibilità precipue. Un insegnante, per esempio, dovrà astenersi da intrattenere relazioni fisiche con i propri allievi, ma avrà il potere di giudicarne e sanzionarne la condotta.

Applicando tali criteri interpretativi, possiamo desumere che l’introduzione dell’obbligo vaccinale quale patto denegativo (giacché vieta a diverse categorie di cittadini di accedere a comuni diritti), a qualsiasi livello, a qualsiasi scopo e per qualsivoglia intervallo di tempo, debba onorare il contratto narcisistico con i cittadini sottoposti all’obbligo stesso. Ciò sembra tuttavia non accadere. Il consenso informato che l’obbligato è chiamato a sottoscrivere al momento della vaccinazione è infatti una liberatoria da qualsiasi onere a carico dell’istituzione che ha imposto l’obbligo (anche dai rischi che egli corre per la propria salute, a cagione della vaccinazione medesima). L’istituzione cioè non rassicura l’obbligato, non lo rinfranca in alcun modo: non può essere infatti considerato un vantaggio narcisistico o di alcun tipo, l’accesso ai servizi e i diritti che egli possedeva prima che gli venissero sottratti; e tantomeno il diritto di essere risarcito qualora qualcosa dovesse andare storto dopo la somministrazione.

In ambito psicoanalitico già Elliot Jaques (1955) ha affermato che in ogni organizzazione sociale (e quindi anche in ogni istituzione, quale sua dimensione valoriale, affettiva ed inconscia) si realizzano i meccanismi di difesa per proteggere dalle angosce psicotiche che essa stessa produce nelle persone che le abitano. Il paradosso è solo apparente e, a ben vedere, tale principio è congruente con il costrutto di patto/contratto concepito da Kaës. L’assoggettamento dell’individuo alle istituzioni lo espone ad un sentimento di impotenza e pericolo che solo opportuni (talora primitivi) meccanismi di difesa collettivi possono contenere.

Secondo questa rappresentazione, l’intero architrave di ruoli, organigrammi, mansioni, retribuzioni, diritti e doveri, esplicita una struttura visibile e intelligibile che argina la paura di essere schiacciati dal potere dell’organizzazione/istituzione.

Dunque, a nostro avviso, la domanda da porsi è la seguente: in che modo la politica sanitaria di questi ultimi due anni ha saputo contenere le angosce e rassicurare i cittadini?

Le organizzazioni politiche e sanitarie di tutta Europa e in particolare italiane, hanno stabilito di comunicare il rischio del contagio in termini esplicitamente o implicitamente terrorizzanti, sostenendo chiaramente la responsabilità dei non vaccinati. Nonni e cari con disabilità di ogni tipo sono stati individuati come vittime di designati colpevoli.

Al di là delle molteplici argomentazioni che potrebbero mettere in discussione questa rappresentazione, essa è psicologicamente pericolosa, giacché suddivide in buoni e cattivi gli abitanti della comunità (che smette così di essere tale), inasprendo i vissuti irrazionali e provocando paura tanto nei primi, minacciati dai cattivi untori, quanto nei secondi, a cui rimane soltanto la scelta tra accettare di essere esclusi dalla comunità o sottoporsi alla vaccinazione senza nessun paracadute offerto dallo Stato.

Uno Stato che addita capri espiatori e che incoraggia la delazione contribuisce a diffondere il panico (angoscia psicotica), ma non istituisce strutture atte alla protezione dei suoi cittadini da esso, salvo primordiali arnesi difensivi improntati al controllo paranoico, alla scissione e alla proiezione. Non si assume così la responsabilità degli eventuali danni da vaccino. Inoltre rinuncia al compito primario di difesa della comunità, sottraendosi all’onere di riconoscere pubblicamente la parzialità di scelte che, qualora fossero state  vagliate, riconosciute e sostenute come tali – ovvero parziali – avrebbe permesso allo Stato stesso di mantenersi autorevole.

Dinamica del capro espiatorio

Sono stati denominati “no-vax” tutti coloro che, a vario titolo e in ragione di percorsi personali anche radicalmente diversi, hanno preso una posizione di dubbio o di rifiuto nei confronti della campagna vaccinale, ma anche delle politiche sanitarie relative all’epidemia. Paradossalmente sono finiti nella categoria anche coloro che hanno iniziato il protocollo vaccinale previsto, ma non lo hanno terminato per i motivi più vari, anche per esempio per aver riportato danni in seguito al vaccino.

I cosiddetti no-vax sono stati esposti alle dinamiche di marginalizzazione e di criminalizzazione del diverso, quando non di una vera e propria psichiatrizzazione del dissenso[22].

Girard (1982), antropologo francese scomparso recentemente, ha scritto tanto sul capro espiatorio: durante le crisi collettive (come potrebbe essere una pandemia o una pestilenza) il capro espiatorio permette al gruppo sociale di “liberarsi” della violenza, canalizzandola su un bersaglio legittimo e non pericoloso. Il capro espiatorio di fatto è innocuo, perché il suo assassinio non sarà vendicato[23].

Ma di quale violenza parla Girard? Le gravi crisi sociali sfaldano e minano la solidità del legame di comunità, svincolando quella violenza fino a quel momento regolata e contenuta grazie ai “garanti metasociali”. Attorno al “capro espiatorio” si creano, così, nuovi miti e nuove credenze, il cui fine è quello di cementificare, anche solo provvisoriamente, il patto sociale messo in crisi.

Non vi è dubbio che la recente epidemia abbia scatenato angosce profonde, abbia smantellato gli “organizzatori psichici” di lunga durata e messo in crisi istituzioni secolari, esponendo ad una violenza profonda i gruppi e le comunità.

E la violenza attivata da ansie, angosce e paure si placa soltanto attraverso un sacrificio. Il capro espiatorio riesce perfettamente in questo compito, in quanto è al contempo reietto (colpevole) e salvatore (libera la comunità dalla violenza). Ma sappiamo anche che l’istituzione di un capro espiatorio non rimette a posto le capacità di simbolizzazione della sofferenza, della mortalità, della precarietà e della ferita narcisistica.

L’impreparazione delle nostre istituzioni rispetto alla gestione dell’epidemia è sotto gli occhi di tutti, testimoniata spesso anche da una decretazione al limite dell’ossessivo. Una gestione paternalistica che scarica sugli individui singoli (ora i runner, ora i cosiddetti “negazionisti[24]”) la responsabilità della situazione. Il capro espiatorio, ultimamente identificato nel no-vax, è colui che, se escluso dalla comunità, permette alla comunità di riprendere una vita “normale”.

Non possiamo fare a meno di pensare a tutte quelle leggi che hanno restituito libertà ai vaccinati grazie alla limitazione della libertà dei non vaccinati, il cui destino è stato assolutamente irrilevante ed insignificante agli occhi dei più. La maggioranza silenziosa, liberata dal pesante fardello, non ha sottoposto la narrazione ad analisi critica, colludendo con la sua logica irrazionale.

In questo senso, il rischio più grande è che il legame sociale si regga grazie alla “menzogna del capro espiatorio”.

Il capro espiatorio attiva un sentimento di vendetta che dilaga velocemente per “contagio mimetico[25], un’emozione collettiva talmente forte da diffondersi a macchia d’olio all’interno della comunità, e interessando anche i membri meno coinvolti. La folla contagiata è pronta a seguire la prima indicazione di un colpevole additato da un leader per concentrare contro questo bersaglio tutto l’odio di cui è carica.

Uno dei miti attorno al quale ruota la dinamica del capro espiatorio è stato proprio quello del vaccino, la cui autorizzazione è avvenuta più per fede che per rigorosità scientifica.

Molti di noi ritengono che il vaccino sia stato un espediente tecnico non relazionale che ha permesso alle persone di placare specifiche angosce.

Robi Friedman in un recente convegno (2020) che si è svolto proprio alla fine del primo lockdown, ha teorizzato la presenza di una specifica matrice di gruppo definita da lui corona matrix,caratterizza da paure omicide e di contagio e  da un profondo senso di colpa. Il vaccino sembra avere mitigato la colpa relativa all’essere fonte di contagio o di essere contagiato (oltre alla paura della propria morte), poiché si ritiene che il contagio avvenga per qualche comportamento immorale o irresponsabile.

Non è un caso probabilmente che, nonostante il farmaco sia stato brevettato come vaccino per la COVID-19, esso sia stato diffuso, anche nei testi di legge, come vaccino contro il SARS-CoV-2, ovvero come prevenzione del contagio, pacificando il senso di colpa. Così il vaccino diviene la nuova religione che assolve e deresponsabilizza tutti.

Lo statuto di colpevole è un a priori e la certificazione di essersi vaccinato, le certificazioni di esenzione o di differimento rispondono alla stessa medesima logica: servono a dichiararsi innocenti, o a salvarsi dalla condanna.

Hopper (2021), all’interno di una visione più analitica, ritiene che quanto accaduto durante il periodo epidemico possa essere riletto facendo riferimento alla teoria degli assunti di base (Bion, 1961). Egli, infatti, ritiene che quando i gruppi vengono attraversati da traumi sociali, questi suscitano ed attivano delle paure psicotiche di annichilimento. In maniera più specifica, quando un gruppo è così fortemente colpito da minacce di annichilimento, mette in atto una serie di strategie che vanno dall’agglomerato alla massificazione, e che testimoniano l’attivazione del quarto assunto da lui stesso definito dell’incoesione:le istituzioni perdono la loro identità strutturale, vi è una regressione alla semplificazione, il pensiero e i sentimenti si esprimono attraverso stereotipi di massa (con evidente avversione nei confronti di tutto ciò che di individuale può essere espresso) e l’ideale del gruppo è un ideale di uguaglianza, inteso come ideale di essere “tutti la stessa cosa”. Gli stereotipi di massa esprimono anche una violenta dimensione comparativa e valutativa tipica del pensiero binario.

Il gruppo in assunto di base incoesione, ci permette di rispondere anche alla domanda su come mai in questi mesi non si sia riusciti, all’interno della nostra comunità professionale, ad avviare un confronto che possa andare oltre alla logica bipolare sì-vax/no-vax.

In questi mesi abbiamo assistito ad una semplificazione del dibattito, una proliferazione di stereotipi e di luoghi comuni al limite del ridicolo[26], la cui funzione è duplice: da un lato esercitare sui membri una pressione ad aderire e conformarsi in maniera ritualizzata ai valori e alle norme dell’organizzazione, dall’altra escludere e marginalizzare chi non si conforma.

L’establishment, che ha il potere di manipolare le norme di giudizio, tende a istituire dispositivi atti a escludere le persone che non si conformano. All’interno di questa prospettiva, sia il totalitarismo che il processo del capro espiatorio sono esiti dell’assunto di base dell’incoesione.

Nel processo del capro espiatorio, secondo Hopper (2021), le persone non conformi possono subire due destini: o vengono considerati  “subspecie”[27], “esseri non umani”, o al contrario vengono visti alla stregua di fratelli minori irresponsabili e immaturi[28]. Ricordiamo a tal proposito l’articolo “Il pasto gratis dei no vax” che esprime perfettamente questa dinamica quando descrive i no vax come persone che hanno deciso di mangiare il piatto gratis alle spalle di chi fa il proprio dovere civico e che disperdono l’impegno collettivo.

Come professionisti siamo tenuti a mantenerci dentro processi di conoscenza scientificamente orientati, che includono anche le scienze sociali, antropologiche e filosofiche.

Ci aspettiamo quindi che l’Ordine prenda posizione all’interno del dibattito scientifico, dando voce a riflessioni che non possono essere taciute, proprio per il bene della scienza e della collettività.

La dinamica del capro espiatorio è infatti molto pericolosa perché depotenzia le capacità simboliche individuali e collettive, e quindi può portare ad esiti nefasti, sia per la società nel suo complesso, sia per le persone che la compongono.

La Psicologia possiede specifiche e potenti categorie di lettura dei fenomeni sociali, e non può esimersi dal dibattito, per procedere oltre la semplificazione dell’assunto incoesione.

Tutela dei colleghi

Una delle questioni principali riguarda la ratio che ha stabilito che i sanitari siano stati i primi ad essere soggetti ad obbligo e al contempo siano, ancor oggi, gli unici per cui l’obbligo vaccinale comporti la sospensione immediata dal lavoro con privazione conseguente della propria fonte di sostentamento economico (a volte unica).

Sarebbe stato auspicabile motivare alcune scelte cosiddette sanitarie a partire da un’analisi di indicatori di rischio (se vogliamo rimanere nell’ambito del tecnicismo) che evidenziano come i sanitari siano una categoria più a rischio delle altre.

Volendo, quindi, anche far propria la discutibile differenziazione tra operatore pubblico e privato, esistono degli indicatori che rendono lo studio privato di uno psicologo o di uno psicoterapeuta più a rischio di un qualsiasi altro studio professionale? Per altro, va segnalato che la sospensione di un libero professionista, al contrario di un dipendente pubblico, comporta delle conseguenze professionali ancora più gravi, nella misura in cui solo il libero professionista, al momento del reintegro, si troverà costretto a riavviare la propria professione da capo[29].

Nonostante si continui ad affermare che la gestione delle emergenze sia improntata a logiche meramente tecnico-scientifiche, non si comprende quali siano i dati scientifici che ne supportano la ratio, soprattutto alla fine di una emergenza che è durata due anni.

Abbiamo già discusso come, “al fine di tutelare la salute pubblica”[30], la vaccinazione sia divenuta requisito professionale per l’esercizio della professione.

Se è vero che non blocca l’infezione nei Servizi pubblici (cosa evidente nella cronaca e nell’esperienza diretta di ognuno), non si capisce perché la vaccinazione sia “requisito” abilitante per chi opera nello studio privato, dove le misure di sicurezza e i dispositivi di protezione sono sempre stati garantiti secondo disposizioni di legge.

Ci chiediamo quindi, insieme a tanti cittadini che osservano sgomenti la violenza di certi provvedimenti, la motivazione per la quale l’Ordine non sia intervenuto sulla questione “requisito”, tanto da consentire di rendere illegittime, abusive e irregolari perfino le posizioni e le relazioni professionali di quei colleghi che lavorano esclusivamente online.

Se oggi la psicologia è entrata a pieno titolo tra le professioni sanitarie[31], è anche vero che molti psicologi svolgono una funzione che di sanitario ha ben poco, se con tale termine intendiamo le “attività volte alla prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione”.

Tanti psicologi non lavorano all’interno del “contenitore sanitario” e non vedono pazienti, ma nonostante questa evidenza, sono stati sospesi o costretti, loro malgrado, ad una vaccinazione non voluta.

La sospensione ha per altro delle ricadute sui rapporti lavorativi, andando a ledere in alcuni casi relazioni di fiducia e reti professionali: il lavoro di questi professionisti non si svolge mai solo su compiti e obiettivi ma sulla gestione di processi e di percorsi, anche nel caso di colleghi che si occupano di formazione.

Sarebbe stato opportuno interloquire con i legislatori per rappresentare le istanze che, anche in buona fede, possono non aver considerato in maniera corretta.

Riteniamo altresì che l’Ordine debba promuovere azioni volte alla salvaguardia della salute pubblica, anche di quella dei propri iscritti, per i quali vige la regola della colleganza[32].

Rispetto all’obbligo vaccinale diretto ed indiretto[33] vorremmo, quindi, porre all’attenzione di codesto Ordine un aspetto psicologico decisamente non irrilevante, e conseguente ad una gestione poliziesca e paternalistica dell’epidemia.

I professionisti sanitari, come tanti cittadini, sono stati oggetto di un vero e proprio ricatto vaccinale, un ricatto che lascia una traccia visibile.

Come qualsiasi metodo educativo fondato sulle umiliazioni e sulle frustrazioni, rischia di alimentare una catena invisibile di veleno sociale.

Non permettere a liberi professionisti, validi, capaci e formati, di esercitare il lavoro per il quale hanno faticato anni, è fortemente in contrasto con i principi etici[34] di ogni professione sanitaria, che dovrebbe avere al centro la salvaguardia della dignità personale[35] di tutti gli individui.

La “solidarietà sociale”, così ben evidenziata nella campagna vaccinale, entra in netto contrasto con la dimensione coercitiva della stessa, tanto che nessun medico vaccinatore eseguirebbe alcun intervento clinico senza avere prima acquisito un consenso informato[36].

Tralasciando l’assurdità logica di un consenso ottenuto sotto forma di coercizione, il bene comune non può mai ledere il rispetto della dignità personale, come è chiarito nella Costituzione Italiana (art. 32). Nel caso della vaccinazione, l’articolo in questione prevede come limite espresso ai trattamenti sanitari, quando resi obbligatori per legge, il rispetto della persona umana[37].

La sospensione dall’attività lavorativa e dalla relativa retribuzione per chi non ottemperi all’obbligo vaccinale contrasta dunque con i valori fondanti la nostra Costituzione.

Impedendo ai colleghi sospesi di esercitare la propria attività lavorativa e di percepire la relativa retribuzione, li si priva della possibilità di vivere liberamente e dignitosamente. In sostanza viene meno il rispetto della loro persona, della loro dignità, oltre che della dignità della loro famiglia, che anche (o a volte soltanto) grazie a quell’entrata economica trovava sostentamento.

E non si può fare a meno di osservare che togliere i mezzi di sussistenza attenti anche allo stesso diritto alla salute: intesa come salute fisica, psichica e sociale.

Inoltre, non va dimenticato che, come recita l’articolo 36 della Costituzione, la finalità della stessa del lavoro e della relativa retribuzione è “garantire un’esistenza libera e dignitosa” ai lavoratori stessi e alle loro famiglie.

È chiaro che molti cittadini e professionisti abbiano subito una forte pressione psicologica, che possiamo definire violenza simbolica, da alcuni definita anche oppressione istituzionale, proprio nella misura in cui sono diventati oggetti di biasimo, isolamento nei posti di lavoro, denigrazione professionale, licenziamento, interruzione di percorsi di terapia personale, interruzione di percorsi  formativi professionalizzanti e per ultimo di provvedimenti di sospensione per mancanza di requisiti all’esercizio della professione.

Il provvedimento di sospensione, nel “rispetto”[38] della legge, ha creato malessere in tutti quei professionisti che sulla professione avevano fondato e costruito un progetto personale e professionale, che sulla garanzia di un lavoro avevano sviluppato investimenti per la propria famiglia, e che hanno subito una drastica interruzione degli introiti economici in un momento per altro di difficile crisi economica dell’intero nostro Paese.

Come pensare che tutto questo, a proposito di bene comune, non graverà sul Welfare State[39]?

Questa pressione psicologica (perdere il lavoro, interrompere una carriera, minacciare un progetto di vita) può portare a situazioni di grave malessere (si guardi la letteratura sul tema a titolo esemplificativo), a condizioni di ipervigilanza e di preoccupazione costanti.

Tutto ciò non può continuare ad essere celato perché, come sappiamo da anni grazie agli studi sulle pressioni psicologiche e sulle violenze simboliche, il silenzio è il miglior alleato di questo malessere.

Il silenzio porta con sé sempre un malessere aggiuntivo, e il disconoscimento della sofferenza crea un circolo vizioso che, almeno in questo caso, speriamo possa essere interrotto, anche grazie alla nostra azione ed all’intervento dell’Ordine.

Il Consigliere Calogero Lo Piccolo scrive in un recentissimo articolo (2021): “viviamo in un sistema abusante di cui siamo tutti vittime poco consapevoli, a volte, e che spesso colludono con il sistema abusante. Conoscere se stessi oggi vuol dire individuare le personali soglie di tolleranza (…). Governare se stessi ha molto a che fare con la possibilità di individuazione di queste soglie. E sul rispetto delle stesse (…) La psicoterapia è in fondo un apprendimento dell’esperienza, ma un apprendimento che verte soprattutto sull’effetto delle soglie e il rispetto delle stesse. Per non diventare l’abusante di me stesso, o la vittima inconsapevole che collude con l’aggressore”.

Come può un professionista lavorare su questi obiettivi se istituzionalmente gli viene negata la possibilità di comprendere e rispettare le proprie soglie di tolleranza?

Sappiamo bene che la capacità di un professionista di esplorare aree di funzionamento mentale e di sostenere il paziente in un processo di cambiamento dipende dalla capacità e possibilità di esplorare il proprio funzionamento mentale.

Alla luce della fine dello stato di emergenza, delle odierne conoscenze scientifiche sull’efficacia assoluta e relativa dei vaccini e delle ricerche sugli eventi avversi, diviene necessario e urgente un intervento in tal senso di Codesto Ordine e del CNOP, a garanzia di una posizione che non può essere sbrigativamente liquidata come antiscientifica[40].

La tutela dei colleghi professionisti dovrebbe essere una priorità di questo Ordine, così come la difesa della qualità del lavoro degli stessi.

Non garantire il confronto tra colleghi entro gli Ordini professionali ha impedito di offrire al Legislatore contributi a tutela della salute pubblica e dei colleghi che hanno scelto altre forme di protezione individuale. Il malcontento così viene indirizzato agli Ordini e non più al Ministero. Quella che doveva essere un’azione necessaria nell’ambito della concertazione sociale, si sta spostando dentro le aule di Giustizia e gli studi degli avvocati, anche a causa del silenzio istituzionale degli organi sussidiari coinvolti.

Tutela dei diritti dei pazienti

Il rapporto psicologo-cliente, e ancor di più quello tra psicoterapeuta e paziente, è qualcosa di “sacro”, e quindi va tutelato.

Il fatto che una legge possa disporre, in base ad un criterio arbitrario, l’immediata sospensione di terapie, relazioni di aiuto, percorsi formativi in corso, entrando nel merito di un rapporto basato sulla fiducia (e non chiedendosi nemmeno in che tempo della relazione tale sospensione avvenga), è qualcosa che non ha precedenti.

Professionisti di qualità, etici e interpreti seri di una deontologia professionale si trovano a dover abbandonare pazienti (con l’interessamento di famiglie e di gruppalità varie), la cui salute e serenità sono già gravemente compromesse dalle vicende sociali odierne.

Sappiamo bene come questo Ordine abbia a cuore la salute dei cittadini. Lo ricorda il Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia – Dott.ssa Gaetana D’Agostino – in occasione del mancato rinnovo del contratto a 19 psicologi da parte degli Ospedali Riuniti Villa Sofia-Cervello. In una intervista in cui manifestava solidarietà e sostegno alla causa di questi colleghi, la D.ssa D’Agostino riteneva “assurde (le scelte dell’Azienda) in quanto lesive sia per una intera categoria professionale che per i pazienti e i loro familiari, che hanno visto negato il loro diritto alla salute. Dall’oggi al domani anche loro si sono trovati senza assistenza psicologica con un grave problema da affrontare e riteniamo che questa sia una visione miope dell’Azienda e speriamo che risponda al più presto a quelle che sono le esigenze dei loro pazienti e degli operatori sanitari (…). Due anni di pandemia ci hanno insegnato che occuparsi di salute significa anche occuparsi di salute psicologica”.

Condividiamo le parole della Dott.ssa D’Agostino e ci chiediamo come mai la stessa attenzione non sia stata posta nei confronti di tutti quei pazienti a rischio suicidario, con disturbo ossessivo-compulsivo, affetti da paranoia, schizofrenia, nei confronti di adolescenti autolesionisti, di pazienti borderline, donne maltrattate il cui diritto alla cura era quanto meno garantito (non avevano di certo sciolto alcun tipo di contratto con il professionista).

Perché il diritto alla cura di queste persone è stato più volte ignorato? Perché un contratto non rinnovato per scelte interne ad una Azienda è oggetto di maggiore interesse rispetto a un contratto tra un professionista e “un paziente” che viene tranciato in maniera brusca e violenta per una legge di cui, per altro, sono dubbi, lo ribadiamo nuovamente, i profili di costituzionalità?

Quando parliamo di “cura” delle persone facciamo, inoltre, riferimento al fatto che le forme di malessere di molti dei nostri pazienti rimandano profondamente al clima sociale della contemporaneità (non possiamo fare a meno di notare come le richieste di aiuto siano aumentate durante la crisi sanitaria della COVID 19).

Il soggetticidio di cui parla Bollas (2018) rimanda proprio all’idea che le persone oggi soffrono per una difficoltà di accedere a uno sguardo interno e, di conseguenza, a forme di soggettivizzazione e di ricerca di senso personale.

Le persone che si rivolgono a professionisti, oggi, soffrono perché smarriti nel mondo delle scelte, persi in una nientificazione del senso personale e soggettivo[41], annichiliti da ideali iperprestativi, che schiacciano il Sé dentro una pura logica omologativa e livellatrice. Portano un vissuto di catastrofe imminente e la sensazione angosciante di essere in balia di forze esterne ingovernabili, che fanno scivolare dalla possibilità di essere autore al sentirsi preda di un avvilente vissuto di impotenza.

I pazienti che spesso si rivolgono ai professionisti “si sentono immersi in una realtà a cui è venuta meno la processualità esistenziale indispensabile, nell’avvio del percorso di soggettivizzazione, a riconoscere la necessità dell’acquisizione di responsabilità individuale e progettuale. Si tratta di una mancanza sostanziale, che perpetua l’assenza di pensiero e abbandona il soggetto al potere della deriva di un caos identitario a cui si reagisce con forme difensive estreme” (Fina, Mariotti, 2019, p. 119).

L’eteronormatività diviene così la forma principale che rimane per potere regolare e regolarsi. Come ricorda Stanghellini (2020), oggi “la macchina-di-dentro” sta lasciando il posto alla “macchina-di-fuori”, con il rischio di una sempre maggiore delega e un’accettazione passiva di situazioni totalitarie.

A partire da una prospettiva diversa, Pigozzi (2019) segnala come il mancato processo di soggettivizzazione lasci pericolosamente spazio a quella che chiama ombra totalitaria. “L’ombra totalitaria” – sostiene – è sempre indissolubilmente legata a un’umanità narcotizzata, dormiente, ubbidiente. Nelle nostre democrazie senza pensiero critico, i ragazzi – nonostante apparenti proteste – sono docili e ubbidienti, psichicamente allevati per essere sudditi” (p.160).

Le persone che chiedono un aiuto sono alla ricerca di relazioni validanti, volte alla soggettivizzazione: ricercano una relazione all’interno della quale possano contrastare il proprio sentirsi schiacciati da logiche anonime, impersonali, di oggetto tra oggetti. La relazione terapeutica svolge una funzione essenziale in quanto permette una visione di sé competente, sostiene scelte “coraggiose”, allena all’ascolto di sé in rapporto agli altri. Detto altrimenti, consente di sviluppare una competenza meta che aiuta a pensare ciò che sovradetermina, di scegliere una posizione soggettivizzante ed autentica nel mondo, che dia voce ai “nuclei viventi rimasti in attesa” (Modell, 1986).

Trovare uno spazio per dare senso a tutto questo è fondamentale: la presenza di un contenitore vivo, capace di animare gli aspetti vivaci e creativi della mente all’interno di una relazione solida e significativa spesso è uno dei primi passi per avviare un reale processo di cambiamento.

Già molte ricerche individuano nella “relazione terapeutica” un fattore aspecifico indispensabile per qualsiasi processo di cambiamento: relazioni che permettono di compiere “esperienze emozionali correttive” (Alexander et al., 1946).

In effetti, proprio la comparsa nel dialogo clinico di strutture e dinamiche mentali relative all’attaccamento, è condizione che potenzialmente permette esperienze relazionali correttive nel paziente, di regola accompagnate dallo sviluppo delle capacità metacognitive (Liotti e Monticelli, 2014).

Lo stesso Bowlby (1996) ha sottolineato come la relazione terapeutica possa costituire un importante fattore di cambiamento dello stile di attaccamento, consentendo al paziente di passare da uno stile insicuro a uno stile sicuro.

In questo processo, il compito del terapeuta è anche quello di agire come una figura di attaccamento, creando una base sicura che consenta al paziente di procedere nell’esplorazione delle proprie esperienze e dei propri vissuti di attaccamento, favorendo esperienze emozionali correttive capaci di disconfermare i modelli operativi interni insicuri.

Quella logica che permette di tranciare con estrema facilità una relazione significativa costruita con impegno e innumerevoli sforzi personali, quanto può essere replicante di questo “sentirsi oggetto tra gli oggetti”? Quanto la possibilità di sospendere un professionista in base ad un criterio arbitrario diviene replicante di una logica che permette di pensare che le relazioni siano parimenti discontinue e sostituibili? Quanto una situazione così descritta va a ledere, come mai successo fino ad ora, il diritto dei pazienti alla cura e alla scelta del curante?

Non possiamo fare a meno di chiederci quanto sia realmente tutelante per questi pazienti, che presentano delle vulnerabilità emotive di una certa rilevanza, interrompere una psicoterapia senza nessuna valutazione dei rischi.

Molti pazienti, a seguito della comunicazione dell’interruzione sine die[42] dei propri “legami” terapeutici, hanno manifestato rabbia, disorientamento, la sensazione di schiacciamento e di quell’anonimia che abbiamo più volte segnalato in questo documento.

Proprio nel luogo dove stanno apprendendo e scoprendo il valore della propria diversità (al di là dei dispositivi psichici omologanti e annichilenti il sé) vivono, di nuovo, l’esperienza di non essere stati pensati e garantiti.

L’esperienza di dolore di queste persone è stata talmente forte da avere toccato livelli di sfiducia istituzionale molto forti, sensazioni di angoscia, di abbandono e la sensazione che sia la persona, che la stessa relazione, venissero nuovamente inglobate nell’acquiescienza, nell’omologazione, nel “divieto a pensare” in una visione esclusivamente replicante dell’umano.

Va, inoltre, segnalato come la stessa comunicazione ai pazienti della propria sospensione sia avvenuta al di fuori di un setting/contenitore terapeutico (che sappiamo essere il “dove” si colloca l’intervento). Il setting, non lo dovremmo ricordare, è ciò che circoscrive, caratterizza e definisce l’attività clinica.

L’integrità del setting permette di costruire un solido contenitore interno che consente l’elaborazione e la simbolizzazione dell’esperienza vissuta.

Winnicott (1970; 1975) usa il termine setting per indicare quel contesto relazionale che, in quanto area transizionale, permette di pensare i fenomeni ed i sintomi, di dare loro significato e di creare nuove possibili connessioni: come può essere gestita la rabbia, la delusione, la riattivazione di parti traumatiche anche di tipo transferale, se il professionista è sospeso e quindi non autorizzato a “trattare” il proprio “ex paziente”, e il setting è stato dissolto per legge?

La stessa comunicazione della sospensione e relativa motivazione, in alcuni casi si è configurata come self-disclosure inappropriata (soprattutto emotiva: la sospensione ha un chiaro impatto emotivo sul professionista) che sappiamo essere correlata con una rottura dell’alleanza terapeutica.

Se è vero che il processo terapeutico procede per rotture e riparazione dell’alleanza (Costantino, Castonguay e Schut, 2002), è altrettanto vero che i pazienti che hanno sentito nella comunicazione una rottura dell’alleanza terapeutica si sono ritrovati soli nel potere dare senso a quanto accaduto al terapeuta e alla stessa relazione.

In maniera ancora più specifica possiamo intendere, in accordo con De Bei, Colli e Lingiardi (2007) che “il processo terapeutico” possa essere considerato “come il tentativo di costruire (alleanza terapeutica) una relazione sicura (attaccamento) attraverso una serie relativamente identificabile di vicissitudini (rotture, riparazioni), caratterizzate da dinamiche che coinvolgono la soggettività dei partecipanti (transfert, controtransfert)”.

Non possiamo non chiederci se l’Ordine degli Psicologi abbia pensato a queste conseguenze, non banali, di una sospensione avvenuta non per mancanza di titoli (uno psicologo che fa psicoterapia, ad esempio) ma per un criterio non specifico stabilito dentro una stanza ministeriale.

Sarebbe opportuno che l’Ordine prendesse una posizione anche in merito alla tutela delle persone che hanno liberamente scelto la persona con cui avviare un processo di cambiamento personale (per caratteristiche umane del terapeuta, per la sua personalità e il suo modo di partecipare alla relazione, per caratteristiche di setting).

La comunicazione della sospensione del proprio terapeuta ha accentuato le angosce abbandoniche e le rabbie, aumentando la sfiducia nelle istituzioni e nel mondo scientifico.

E proprio in un momento storico in cui la sfiducia nelle istituzioni è alle stelle, dovremmo seriamente chiederci se la scelta di non rappresentare e “difendere” i percorsi di cura tuteli veramente l’importanza e l’immagine sociale della nostra professione.

I soggetti che si rivolgono ad un professionista della psicologia, in senso ampio, presentano aspetti molto delicati, la cui attenzione e tutela dovrebbe essere un impegno di tutta la comunità professionale.

Non siamo soltanto in assenza di alcuna evidenza scientifica che vuole uno studio professionale privato di natura psi (caratterizzato da misure igieniche previste dalla legge, non affollato, confortevole) luogo pericoloso per i soggetti “fragili”, ma è anche necessario chiedersi a questo punto cosa “abbiamo in mente” quando parliamo di soggetto fragile: immunodepresso? malato? malato di cosa?

Ci chiediamo e chiediamo come mai sia stato così facile accettare questa visione di fragilità che è una definizione chiaramente mutuata dalla medicina “del rischio”, a discapito di una “fragilità” psicologica più legata ad una vulnerabilità soggettiva, all’insicurezza nelle relazioni, alla mancanza di fiducia nel prossimo o nel futuro, a relazioni maltrattanti, a sensazioni di annichilimento e confusione.

Come mai nella discussione è stata prevalente la visione di una “fragilità” non chiaramente definita neppure da un punto di vista medico, e non la tutela delle “vulnerabilità psicologiche” e dei bisogni psicologici delle persone che si rivolgono ad un professionista?

Il presupposto iniziale su cui si è basato l’obbligo vaccinale era quello di “proteggere i fragili” e su questo hanno aderito gran parte dei colleghi. Ma questo ipotetico paziente fragile da proteggere è forse meno capace di comprendere quale sia il proprio interesse, è meno competente a comprendere se le condotte di un professionista ledono la propria salute o ne mettono a rischio l’incolumità fisica?

Come è stato possibile che il mondo professionale abbia accettato che la somministrazione di un vaccino potesse diventare valore superiore al diritto del paziente a mantenere una relazione significativa, il cui senso terapeutico è stato dimostrato dalle ricerche sul tema (Safran e Muran, 2006)?

È plausibile pensare che l’essere professione sanitaria, come è stato più volte ricordato in questi mesi, abbia portato a mutuare un linguaggio medico all’interno della nostra comunità professionale, senza una riflessione profonda su cosa questo comportasse?

“Un miope utilitarismo ci ha indotto a pensare che la nostra vita fosse una buona vita a condizione che non ci facessimo troppe domande. Con un gioco di prestigio collettivo, l’attenzione è stata diretta verso la fede in alcune abilità selettive, quali la capacità di pensare in termini scientifici e la facoltà di inventare nuove tecnologie” (Bollas, 2018, p. 32).

Riteniamo che l’essere diventati professione sanitaria non debba farci dimenticare la tradizione dalla quale veniamo e neppure ripiegare in letture mediche del problema. Decidere la sospensione immediata di una relazione di cura, presumibilmente anticostituzionale per altro, è ledere il diritto della persona all’autonomia nella scelta, rendendola oggetto passivo di una “semplice” prestazione sanitaria; è allontanarsi da una visione competente, autonoma e autodeterminante del cliente che si rivolge al professionista. La libertà del cliente cede alla passività del malato. 

Il requisito “vaccino” sarebbe, così, intrinsecamente legato ad una visione passivizzante, immunizzante e medicalizzata della persona che si rivolge a noi professionisti. L’introduzione di un trattamento sanitario (la vaccinazione) come requisito necessario per lo svolgimento di una professione dovrebbe quindi essere al centro di un dibattito interno che al contrario sembra non esserci.

Appellarci a un tecnicismo scientifico ha come pericolosa conseguenza di neutralizzare il confronto professionale e politico-professionale su temi che hanno una rilevanza per certi versi epocale.

L’obiezione di coscienza attiva è quindi, oltre che un atto di autotutela giuridica e sanitaria, anche una forma di partecipazione consapevole e responsabile del cittadino alla vita pubblica: chi la esercita non persegue unicamente uno scopo personale ma si fa carico in prima persona di un’azione di giustizia civile e di tutela dei diritti costituzionali e umani.

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[1] Non è obiettivo del presente documento mettere in evidenza le contraddizioni normative (per cui diversi Ordini hanno applicato “sanzioni diverse”) e le incongruenze logiche della decretazione successiva a marzo 2020 (inizialmente nel pieno della mortalità si poteva lavorare perfino in presenza, oggi neppure online).

[2] La definizione di “vaccino” è stata recentemente modificata nei documenti ufficiali delle principali istituzioni sanitarie, proprio mentre i farmaci che adesso chiamiamo “vaccini” affrontavano l’iter di approvazione.

Il Center for Disease Control and Prevention (CDC), ossia l’ente governativo statunitense deputato al controllo sulla sanità pubblica e a pronunciarsi, insieme alla Food and Drug Amministration (FDA), sulla sicurezza dei vaccini, ha recentemente modificato la definizione di vaccino.

Se in precedenza esso veniva definito “un prodotto che stimola il sistema immunitario di una persona a produrre immunità a una malattia specifica, proteggendo la persona da quella malattia”, a partire dal settembre del 2021 viene definito vaccino: “una preparazione che viene usata per stimolare la risposta immunitaria del corpo contro le malattie” (link consultabili alle due versioni: https://web.archive.org/web/20210812210635/https://www.cdc.gov/vaccines/vac-gen/imz-basics.htm, https://www.cdc.gov/vaccines/vac-gen/imz-basics.htm).

Com’è evidente, si tratta di una differenza non da poco: secondo la nuova definizione un farmaco, per essere denominato “vaccino”, deve essere un preparato in grado di “stimolare” una risposta immunitaria, eliminando il precedente requisito per cui doveva “produrre immunità” (nel dizionario Garzanti: “una condizione di refrattarietà di un organismo a una malattia infettiva”).

Come segnalato da alcuni organi di stampa (L’Indipendente, ad esempio) e confermato dagli stessi documenti online degli Enti suddetti, è interessante notare che «la modifica della definizione di vaccino da parte dell’ente statunitense sia avvenuta in corrispondenza temporale con l’approvazione definitiva del vaccino anti COVID-19 prodotto da Pfizer-BioNTech. Nel comunicato ufficiale di approvazione dello stesso, pubblicato dalla FDA il 23 agosto, si legge che il vaccino sarà commercializzato “per la prevenzione della malattia COVID-19”. Un risultato probabilmente in linea con la nuova definizione di vaccino nel frattempo modificata dal CDC, ma che non avrebbe soddisfatto la precedente definizione, secondo la quale avrebbe dovuto produrre “immunità”» (https://www.lindipendente.online/2021/09/08/esclusivo-gli-usa-hanno-modificato-la-definizione-di-vaccino-durante-lapprovazione-di-pfizer).

Non useremo qui, invece, il termine “pandemia”, utilizzando il più generico epidemia, per motivi analoghi, che cioè riguardano una questione altrettanto controversa, sulla quale vi è ancora ampio dibattito. Più di dieci anni fa, nel 2009, nel corso dell’epidemia di influenza denominata H1N1 (anche detta “suina”), l’OMS cambiò la definizione di “pandemia”: quella originaria era “malattia che si diffonde molto velocemente e causa un gran numero di malati gravi e di morti”, la successiva diventò “un’epidemia che si verifica in tutto il mondo, o su un’area molto vasta, che attraversa i confini internazionali e che di solito colpisce un gran numero di persone”. Apparve subito evidente che la nuova definizione, non facendo riferimento alla gravità della malattia o alla letalità, non permetteva più di distinguere tra influenza pandemica ed influenza stagionale. Ricordiamo allora solo brevemente lo scandalo che investì l’OMS negli anni a seguire, riconosciuta colpevole dalla Commissione Sanità dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa di aver generato un indebito allarme e causato un danno ingente sia alle casse degli Stati europei, che alla salute dei cittadini indotti a vaccinarsi senza necessità o benefici. Per un approfondimento, il famoso documentario della tv svizzera RSI: www.rsi.ch/la1/programmi/informazione/falo/tutti-i-servizi/Il-fantasma-della-pandemia-1876920.html

Ancora, una simile operazione di modificazione semantica sostanziale e non meramente formale, è stata attuata recentemente per il termine “immunità di gregge”, che fino al 9 giugno 2020 il sito dell’OMS riportava essere “la protezione da una malattia infettiva che si realizza quando una popolazione è immunizzata tramite vaccinazione o immunità sviluppata tramite precedente infezione”, ma che una modifica ad opera del direttore generale Tedros Ghebreyesus, dal 13 novembre 2020, ha trasformato in “un concetto usato per la vaccinazione, in cui la popolazione può essere protetta da un certo virus se viene raggiunta una certa soglia di vaccinazione […] e non attraverso l’esposizione ad esso” (www.who.int). In sostanza, scompare uno dei concetti più noti e condivisi della medicina, quello di immunità naturale.

[3] Una bizzarria del D.L. 172/21 prevedeva che i professionisti sprovvisti della dose di richiamo possedessero un  green pass attivo ed utile per la vita sociale: il soggetto poteva  recarsi in qualsiasi luogo di aggregazione. Al contempo però lo stesso GP non consentiva loro di esercitare la professione all’interno del proprio studio privato. I guariti da COVID-19 vivono un’analoga situazione paradossale.

[4] Altra ambiguità a cui certa decretazione ci espone è la seguente: può convivere all’interno della stessa istituzione il mandato di controllo e il mandato di tutela?

[5] Per un ulteriore chiarimento di cosa si intenda per senso plurale della condizione umana si rimanda al testo di Arendt “Vita Activa” (1958).

[6] Data l’importanza del D.L. 44/21 e delle sue ricadute sulla vita personale e professionale dei colleghi iscritti, siamo certi che i rappresentanti del nostro Ordine siano a conoscenza delle innumerevoli sentenze dei TAR italiani riguardo al profilo di incostituzionalità del decreto.

[7] La sospensione dall’Ordine è il penultimo provvedimento disciplinare in ordine di gravità.

[8] In contrasto, per altro, con gli articoli 3, 4, 32, 33, 34 e 97 della Costituzione Italiana.

[9] Così il senatore Alberto Bagnai nell’interrogazione al Ministro della Salute del 1 aprile 2022: “il consiglio di giustizia amministrativa della Regione Sicilia, nella sua ordinanza n. 351 del 2022, cita espressamente «la inadeguatezza della farmacovigilanza attiva e passiva» fra i motivi di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 del decreto-legge n. 44 del 2021, nella parte in cui questo prevede l’obbligo vaccinale per il personale sanitario. Questo perché, secondo la Corte costituzionale, l’obbligatorietà di un vaccino è legittima solo se, tra l’altro, si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute del paziente, fatte salve le conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili. Ma in assenza di una farmacovigilanza adeguata, questa valutazione è in re ipsa preclusa. […] il tema del bilanciamento tra il diritto alla salute e quello al lavoro è oggetto di un numero crescente di ordinanze dei TAR, che deprecano la logica ricattatoria sottostante al decreto-legge n. 44 del 2021 […] schierandosi, i tribunali, a difesa dell’articolo 1 della Costituzione”.

[10] Il termine “ambiguità” fa riferimento alla teorizzazione di Bleger e alla tradizione della Scuola Psicoanalitica Argentina.

[11] “Il non saperci fare con il linguaggio è un segno di disinvestimento nella lingua pubblica” (Pigozzi, 2019, p. 168). “Chiamare le cose con il loro nome” significa poter andare al fondo delle conseguenze estreme di una propria posizione e potersene prendere consapevolmente la responsabilità.

[12] “C’è gente che ha fatto una scelta che la mette fuori dalla comunità” (Myrta Merlino, “L’Aria che tira”, puntata del 6 dicembre 2021). Con questa frase la giornalista fa eco a diverse dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi. Si veda inoltre, più avanti, il paragrafo sul capro espiatorio.

[13] “L’Appropriarsi del mondo è un appropriarsi di se stessi, la presa di posizione verso l’esterno è una presa di posizione verso l’interno, e il compito posto all’Uomo […] è sempre un compito oggettivo da padroneggiarsi verso l’esterno, quanto anche un compito verso se stesso. L’Uomo non vive, bensì conduce la sua vita  (Gehlen, 1940, pag. 78).

[14] Segnaliamo anche come certi alti ideali rischiano di creare forme di “sparizione di sé” e di “biancore” (Le Breton, 2016).

[15] Oltre ai già menzionati procedimenti relativi ai profili di costituzionalità delle normative italiane, questo Ordine sarà altresì adeguatamente informato sulla legislazione europea e internazionale rispetto alla somministrazione coatta di farmaci sperimentali (Oviedo,1997; Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, (2000/C 364/01); UNESCO, 2005; Lisbona, 2009; Regolamento UE nr. 953/2021).

[16] La legge 56/89 istituisce gli Ordini Psicologici e regolamenta l’esercizio dell’attività psicoterapeutica. All’interno dei diversi Ordini Regionali e Provinciali confluiscono una serie di professionisti che erano già rappresentati da associazioni e società scientifiche. L’obiettivo principale della legge era quello di tutelare i cittadini da eventuali abusi o da prestazioni senza garanzie. I provvedimenti disciplinari sono regolamentati dagli articoli 12, 26 e 27. L’art. 26 prevede le sanzioni disciplinari per gli iscritti che si rendano colpevoli “di abuso o mancanza nell’esercizio della professione o comunque si comporti in modo non conforme alla dignità e al decoro professionale”. A seconda della gravità sono previste tutta una serie di sanzioni disciplinari che vanno dal semplice avvertimento alla radiazione. La sospensione è la penultima in termini di gravità. La sospensione per mancata vaccinazione, però, non trova riscontro né all’interno del nostro Codice Deontologico né nella stessa legge.

[17] Cfr. Ordinanza CGA Regione Sicilia del 17 marzo 2022.

[18] Alcuni esempi delle questioni più controverse sono i test PCR (dichiarati non diagnostici da più di una istituzione medico scientifica e nonostante ciò, nella maggior parte dei casi, condizione sufficiente per diagnosi di COVID-19), l’utilizzo delle mascherine e l’imposizione dei lockdown.

[19] Tale presunzione ha delle importanti ricadute sulla nostra pratica, ad esempio, preventiva. Per Sala (2009) sarebbe più corretto definire preventiva qualsiasi azione che abbia come obiettivo primario l’attenzione all’ambiente e un discorso politico di riorganizzazione e di sviluppo non solo economico. Al contrario la prevenzione primaria intesa come realizzazione di programmi su vasta scala può essere più correttamente intesa come diagnosi precoce. Una pratica preventiva volta all’individuazione della malattia ove ancora non è manifesta rischia di creare delle nuove figure di malati: pre-malati (soggetti a rischio), forse-malati (individui predisposti), sani preoccupati (che si credono o sono indotti a credersi malati). Il graduale disinteresse per l’attenzione all’ambiente, infatti, fa sì che la malattia, così come il rischio di malattia, diventi responsabilità del singolo (che spesso si muta nella colpevolizzazione). L’eccessiva spinta alla predizione clinica, quindi, deresponsabilizza sia la politica tout court che la politica professionale, e ribalta la socializzazione della medicina in una crescente e invadente medicalizzazione della società.

[20] Ne L’età dello smarrimento Bollas (2018) riflette su come l’operazionalismo scientifico sia con il tempo diventato un dispositivo per eliminare la differenza e modellare un mondo di esseri umani indistinguibili. La paura che spesso i pazienti riferiscono in seduta è proprio quella di essere diversi: “non la pensano tutti come la penso io?”, chiedono in cerca di una rassicurazione.

[21] In quanto “erogatore di servizi”, il professionista psicologo viene appiattito dentro una logica consumistica, in cui sia il cliente che l’erogatore sono facilmente sostituibili.

[22] Diversi ricercatori hanno indagato presunte problematiche psicopatologiche dei cosiddetti “no vax”, senza mai articolare la descrizione del contesto storico, culturale e relazionale, e postulando a priori il disagio, sempre precedente e mai conseguente alle somministrazioni. Tralasciamo in questa sede le considerazioni epistemologiche e metodologiche sulla validità di tali ricerche e le osservazioni sulle responsabilità etiche di tali ricercatori, che pure sarebbero doverose.

[23] Il silenzio compiacente nei confronti di chi veniva escluso dalla vita lavorativa e sociale ne è testimonianza. Probabilmente, nei confronti di qualsiasi altra minoranza, ciò avrebbe provocato scalpore e sdegno.

[24] Si è giunti a tacciare di negazionismo chiunque si faccia domande sul virus, sui dati scientifici che hanno permesso di identificarlo e distinguerlo da altri coronavirus, o sulla validità dei test diagnostici per rilevarne la presenza nella popolazione, anche quando tali domande vengano avanzate da voci autorevoli e titolate. Il termine scelto, per di più, svolge la funzione di affibbiare tout court, a chiunque si intesti tali questioni, un giudizio simile a quello destinato al negazionismo dell’Olocausto, di fare cioè un “uso spregiudicato e ideologizzato di uno scetticismo […] portato all’estremo” (https://www.treccani.it/enciclopedia/negazionismo), e pertanto da stigmatizzare radicalmente senza ulteriori approfondimenti.

Si noti analogamente, come in tutto il mondo ogni sguardo critico rispetto alla gestione sanitaria e politica o anche ogni domanda sull’origine naturale o ingegnerizzata del virus, siano stati sovente tacciati sommariamente del termine dispregiativo complottismo.

[25] Ricordiamo per onere di cronaca, alcune esternazioni che personaggi pubblici hanno reso su canali social e di stampa: Fosse per me costruirei anche camere a gas; Campi di sterminio per chi non si vaccina; Verranno chiusi in casa come sorci… Lockdown solo per i novax; Caccia ai novax… Staniamo i novax…; I rider devono sputare nel loro cibo; Mi divertirei a vedere i no vax morire come mosche; Madonna come vorrei un virus che ti mangia gli organi in dieci minuti riducendoti a una poltiglia verdastra che sta in un bicchiere per vedere quanti inflessibili no-vax restano al mondo; I cani possono sempre entrare, solo voi come è giusto rimarrete fuori; …il COVID mi ha cambiato. Provo un pesante odio verso i no vax con cui al momento non ho voglia di dialogare, ma al massimo di stirarli in auto.

[26] Si rammenti la grottesca ridicolizzazione fatta dal Fiorello sul palco di Sanremo, che raccoglieva la banalizzazione corrente secondo cui “i no vax temono che il vaccino li trasformi in antenne 5G”.

[27] In questo senso, le persone sono entità viventi che non posseggono caratteristiche umane e sono paragonate a conigli, ratti, topi, parassiti. Proprio per questo, le persone percepite come capri espiatori sono percepite come oggetti di cui disfarsi.

[28] E che per il loro comportamento rischiano di disperdere il contributo prodotto dai fratelli maggiori, responsabili e coscienziosi nel risolvere la situazione.

[29] Non siamo a favore della sospensione del dipendente pubblico, ma segnaliamo la forte discriminazione all’interno della norma tra un dipendente pubblico e il libero professionista.

[30] Ricordiamo che la salute non può mai essere considerata solo ed esclusivamente nell’accezione medica, prescindendo dalla soggettività dell’individuo, dai suoi valori, dalle sue paure, dalle sue convinzioni e dalla sua idea di salute e di atteggiamento nei confronti della morte.

[31] Era solo il 2009, molti anni prima della legge 3/18, quando Sala evidenziava che “fare psicologia per la sanità significa anche costruire un’occasione per ripensare i rapporti tra medicina e psicologia” (p. 138).

[32] Tutti gli psicologi iscritti all’Ordine hanno il vincolo del rispetto del Codice Deontologico: il vincolo riguarda anche chi ricopre cariche istituzionali. “I rapporti fra gli psicologi devono ispirarsi al principio del rispetto reciproco, della lealtà e della colleganza. Lo psicologo appoggia e sostiene i Colleghi che, nell’ambito della propria attività, quale che sia la natura del loro rapporto di lavoro e la loro posizione gerarchica, vedano compromessa la loro autonomia ed il rispetto delle norme deontologiche” (art. 33). Riteniamo che la minaccia della sospensione, così come la sospensione stessa, siano in contrasto con molti principi del nostro Codice Deontologico, per primo quello sull’impegno alla colleganza.

[33] La ratio della legislazione sul green pass è obbligare surrettiziamente le persone a vaccinarsi.

[34] Si evidenzia anche come alcuni passaggi della legge possano essere in chiaro contrasto con gli articoli 3, 4, e 6 del Codice Deontologico.

[35] Molte delle comunicazioni ufficiali hanno trattato in modo alquanto sbrigativo ed incompleto l’art. 32, lasciando fuori il periodo sulla tutela della dignità umana. Per il suo impatto etico, si potrebbe perfino sostenere che esso potrebbe diventare un articolo di indirizzo per tutte le professioni sanitarie e socio-sanitarie.

[36] Inoltre, per legge, la vaccinazione dovrebbe essere subordinata ad una prescrizione, eventualità che è sempre stata disattesa nel corso della campagna vaccinale. Abbiamo avuto modo di assistere invece all’odissea di professionisti che si sono visti negare dal proprio Medico di Medicina Generale la certificazione che gli avrebbe consentito, per lo meno in via privata, di eseguire gli esami utili a rintracciare eventuali situazioni di rischio.

[37] Cfr. Ordinanza del Consiglio Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia del 17.03.2022.

[38] Ribadiamo, in nota, come il “rispetto della legge” preveda il rispetto di tutte le leggi che abbiano valenza giuridica all’interno del territorio italiano, da quelle costituzionali ai diversi trattati e convenzioni internazionali.

[39] Lo stesso David Lazzari – Presidente del CNOP – in una recente intervista, a seguito dell’evidente aumento di casi di suicidio a causa della pandemia (noi diremmo della gestione della situazione epidemica) parla della creazione di una task force per la prevenzione degli stessi. La perdita del lavoro connessa all’introduzione del green pass e all’obbligo vaccinale è un dramma che nell’articolo viene segnalato come problema prioritario. Dice Lazzari: “Qualche anno fa ci fu l’impennata di suicidi tra i piccoli imprenditori, ed allora si rese necessario intervenire con politiche appropriate. Oggi noi temiamo che ci sia una recrudescenza di questo genere”. Noi teniamo a precisare che anche uno psicologo soggetto a obbligo vaccinale (con conseguente perdita di lavoro a seguito di una sospensione) possa ritenersi a rischio di sviluppare un malessere così consistente.

[40] Numerose ricerche scientifiche supportano certe affermazioni (https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(21)00768-4/fulltext).

[41] “Niente” è un romanzo scritto da Teller nel 2000. Si racconta di un gruppo di compagni alle prese con la ricerca drammatica di un senso, di adulti sempre più disimpegnati nella costruzione di un’etica intersoggettiva fondata e ancorata nella relazione: il precipitare del senso nella pura funzione di qualcosa (Byung-Chul Han, 2017) aliena le persone dalla possibilità stessa di narrare la propria storia, di sviluppare uno sguardo interno, di creare distinzione e di prendere posizione.

[42] Ricordiamo che il DL 24/22 ha stabilito l’obbligo di vaccinazione per i sanitari fino al 31.12.2022. La legge, così, rischia di creare un ulteriore precedente: secondo la legge 56/89 il provvedimento disciplinare della sospensione non può mai essere superiore ad un anno. Essendovi colleghi sospesi già con il DL 44/21, rischiamo di trovarci davanti a sospensioni che possono superare l’annualità senza che nessun rappresentante istituzionale si stia occupando di questa incongruenza.