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Neoliberismo e sviluppo psicologico sostenibile: la psicologia è ancora capace di pensare l’umano?

La nostra collega Roberta Campo, attraverso sguardo acuto e rigoroso ragionamento, ci mostra alcuni tra i travisamenti più insidiosi del nostro tempo, con i gustosi strumenti della sua scrittura.

Nel suo discorso opera un prezioso disvelamento di significati e intenzionalità sottese ai dispositivi sanitari e culturali messi in atto da sempre più organismi istituzionali, e riesce a demistificarli, identificandoli per ciò che sono, e cioè dispositivi di attribuzione di significato, cornici di senso verso cui l’umanità sta dirigendosi.

Il prezzo sembra essere una normatività etico-morale di odore totalitario, e la perdita da parte dell’individuo della capacità di essere Soggetto, dunque legittimo titolare della propria vita, dello sviluppo di sé e del proprio ambiente. Ma anche lo smarrimento di una dimensione d’Anima, entro cui intimo sentire e culture locali orientino al senso della vita, ed entro le istanze più pregnanti dell’esistenza umana.


La nostra madre-terra (…) soffre e non sopporta più gli effetti devastanti del neoliberismo
Jo-Bonet

Premessa

L’ipermodernità (Kaës, 2013), e con essa il capitalismo liberale, ha prodotto un’accelerazione tale, tanto nei costumi quanto nei modi di sentire, da esporre l’essere umano a una fatica per certi versi inedita del vivere. Diversi Autori, a partire da prospettive anche molto differenti tra loro, hanno provato a comprenderne non solo la portata, ma anche la posta in gioco (Kaës, 2013; Sennett, 2002; Le Breton, 2016; Fina, Mariotti, 2019; Mignosi, 2020).

Parole nuove si affacciano per interpretare il reale, entrate a far parte del lessico professionale di tutte quelle figure che si occupano dell’umano.

L’obiettivo di questo articolo è di aprire una riflessione di senso sulle premesse culturali che sostengono tanto le teorie quanto la nostra pratica professionale. Ritengo conditio sine qua non ripensare gli assunti impliciti dei nostri paradigmi di riferimento, in quanto essi sostanziano i nostri stessi ragionamenti clinici.

L’utilità di interrogare gli impliciti liberisti (Schiera, 2022) ci può forse evitare possibili collusioni culturali che rischiano di reificare, nei nostri setting, esattamente quelle istanze culturali che sono alla base della sofferenza e dell’angoscia dell’uomo contemporaneo.

Un “fare” avulso da una riflessione sulle premesse culturali che orientano la conoscenza rischia di far fuori la domanda e il dubbio. Anzi, più volte in questi anni abbiamo visto la domanda godere di una brutta fama, accusata di favorire lo sviluppo di teorie complottiste; il dubbio, dal canto suo, è stato velocemente licenziato dal dibattito in quanto espressione di una radicale mancanza di fiducia (nell’autorità, nella scienza).

Eppure, fino a pochi anni fa, il dubbio e le domande non erano così avversati.

Durante gli anni della mia formazione universitaria e post-universitaria mi è stato insegnato ad aspettare, al massimo a fare domande: le domande, si diceva, sono più importanti delle risposte, perché “costringono” a mettersi e far mettere in una posizione diversa rispetto a quella consueta. Nel 1969 Blanchot scriveva:

“la réponse est le malheur de la question”.

Intervenire troppo, così come interpretare troppo, può essere dannoso: il rischio è di sostituirsi al paziente nel suo tentativo di trovare le soluzioni per e da sé.
Al contrario, oggi siamo sempre più al cospetto di un Sapere che riesce perfino a prevedere ciò che ci aspetta nel futuro, e gli obiettivi che devono essere perseguiti[1].

Nella cultura contemporanea, Sala (2019) segnala un’eccedenza, un troppo, rispetto a un fare che non permette, in primis al clinico, di lasciare che il tempo possa offrire i chiarimenti utili per la valutazione di una determinata situazione.
I professionisti della Salute, invece, sembrano ossessionati dall’idea di intervenire in qualsiasi campo della vita umana, nella convinzione che più si interviene, più si previene.
Prevenire è ciò che giustifica, in tutti i campi della scienza e della tecnica, il moltiplicarsi degli ambiti di applicazione dell’intervento specialistico. Questo interventismo trova fondamento nell’attuale “Modello Salute”[2].

Essere in salute è diventato un dovere al quale non ci si può sottrarre.

Ricordo ancora chiaramente una frase che mi è stata detta da una collega all’indomani dell’obbligo vaccinale: “tu, noi, siamo dei sanitari e in quanto professionisti abbiamo il dovere di stare bene. Soprattutto, non ti puoi permettere di stare male!”.
Questa frase mi è rimbombata in testa per molti mesi: da lì probabilmente ho iniziato a sentire l’esigenza di approfondire certe tematiche. Questa frase, apparentemente banale, mi restituiva l’immagine di una persona che, appunto, ha il dovere di restare in salute.

Ma che significa che ho il dovere di restare in salute? Non mi posso ammalare? Perché tutto questo mi suonava come un imperativo al quale non potevo sottrarmi?

Se la salute diventa un “obbligo”, diventa anche prioritario stabilire il confine tra il normale e il patologico. Anzi, come professionisti siamo costantemente presi nel tentativo di tracciare una linea tra il sano e il non sano, tra il funzionale e il patologico.

Stiamo forse rispondendo a un richiamo verso una normativizzazione (diremmo anche patologizzazione) della vita? Quanto, dentro questo “fare”, rischiamo di rimanere prigionieri di un sistema fondato sulla protezione e sulle tecnologie della sicurezza[3]?

L’uomo, dentro questo sistema, rischia di essere sottoposto a un regime di sorveglianza sanitaria?

La cultura contemporanea ha assegnato alla medicina il compito di seguire l’essere umano durante tutto l’arco della vita – dalla nascita alla morte – accompagnandolo e sostenendolo nei momenti topici delle crisi evolutive. La speranza è che l’intervento specialistico possa, da sé, aiutare l’essere umano a far fronte a quel senso di smarrimento davanti ai misteri della vita[4].

La necessità di intervenire per qualsiasi cosa ci parla di un mondo idealmente più sicuro, ma anche più distante dalla possibilità di trovare parole che parlino all’animo umano di sofferenza, fatica, morte e malattia. Nonostante abbia affinato le tecniche per migliorare le aspettative di vita individuali, la scienza non è riuscita, e forse non riuscirà mai, a risolvere e comprendere il mistero della vita e della morte (Sala, ibidem).

L’essere umano ha davvero bisogno di più scienza? Ha davvero bisogno di più cure? 

La contemporaneità sollecita costantemente un senso di disorientamento, e il tentativo di andare alla ricerca di istruzioni per l’uso è molto alto. A questo si aggiunge una prassi fondata su protocolli e procedure standardizzate.

La presenza massiccia del professionista nella vita delle persone serve così a scongiurare in via preventiva il dolore, la sofferenza o comunque un inutile aggravamento dello stato di salute fisico e psichico.

Nel corso dell’articolo avremo modo di vedere come alcune novità normative e disciplinanti la professione, accolte come meri accadimenti burocratici, possono rappresentare la porta dalla quale certi assunti liberisti stanno entrando, senza neppure troppo pudore, all’interno della nostra pratica professionale.
Il fatto che il Ministero della Sanità sia oggi Ministero della Salute non è solo un passaggio burocratico e amministrativo: simbolicamente, in termini di appartenenza culturale, è niente affatto irrilevante.

È lo stesso Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, infatti, a indicarci il senso di questo passaggio, quando riconosce che la Psicologia si è assegnata il compito costituzionale di difesa e tutela della Salute psichica[5].

1. Critica allo sviluppo sostenibile

Queste premesse ci portano direttamente a una tematica che ci riguarda profondamente: quella dello sviluppo sostenibile

Per rispondere in modo completo ai cambiamenti climatici e ai problemi di sostenibilità attuale, secondo le direttive prescrittive della “Agenda 2030”[6], sono state scomodate anche le scienze psicologiche che, forse per la prima volta, parlano di “sostenibilità psicologica”.

Ma cosa c’entra la psicologia con la sostenibilità?

In virtù del fatto che il concetto di sostenibilità è entrato a pieno titolo nel gergo professionale di uno psicologo, ho deciso di iniziare ad approfondire la questione. Dal mio punto di vista, è importante addentrarci dentro le pieghe del concetto di sostenibilità perché a questa si associa un certo ideale e modello di Uomo.

Sviluppo sostenibile, consumo sostenibile, società sostenibile, agricoltura sostenibile, mobilità sostenibile, turismo sostenibile, salute psicologica sostenibile: in qualsiasi campo dell’esistenza, la parola d’ordine sembra essere la sostenibilità di qualcosa.
Il progresso e lo sviluppo sostenibile oggi fanno parte dell’agenda di quasi tutti gli organismi di governo nazionali e sovranazionali.

Per sviluppo sostenibile si intende la possibilità di “soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni” (ONU, Agenda 2030).

L’Italia stessa, recentemente, ha modificato gli articoli 9 e 41 della Costituzione, nella direzione dello sviluppo sostenibile[7].
Il cambiamento climatico, dentro la logica dell’emergenza climatica, è diventato una questione di interesse generale: il clima è un bene comune e deve essere salvaguardato prima che sia troppo tardi. Il bene comune è qui inteso come il minimo comun denominatore di tutti i “beni comuni”.

L’obiettivo, in questa sede, è quello di addentrarci in una riflessione che ci aiuti a capire in che modo la sostenibilità riguardi la vita delle persone, e in che modo contribuisca a declinare la sofferenza contemporanea.

Procediamo per passi.

Gli accadimenti degli ultimi anni hanno evidenziato un potenziale collasso del modello del capitalismo liberale, sempre più violento e distruttivo.
Già verso la fine del secolo scorso sembrava abbastanza chiaro come il sistema liberale/capitalista stesse cedendo; le conseguenze di questo collasso sulla politica, sull’economia, sulla salute delle persone e sull’ambiente diventavano sempre più visibili.

Così, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, si è andata affermando una narrativa che ha visto l’essere umano e la sua stessa esistenza come la causa dei problemi attuali, dell’instabilità economica, del buco nell’ozono, dei disastri ambientali, delle crisi alimentari e naturali, della violenza sociale: causa, insomma, dell’insostenibilità sociale, ambientale e produttiva del pianeta.

L’essere umano mangia troppo, si riproduce troppo, usa troppa plastica, si diverte troppo.
Il problema non è mai la filiera industriale che si nutre dei desideri umani, ma sono i desideri dell’uomo che, essendo indisciplinati, devono essere regolamentati e sostenibili.
Gli influencer, così come i divi della tv, indicano la strada, non solo del desiderabile, ma anche le declinazioni del desiderabile e del sostenibile (un tempo si chiamavano pubblicità progresso).

Per Moore (2017), ad esempio, il problema non è che la gente mangia troppo, ma che il globalismo del capitale liberale porta con sé delle relazioni di potere che necessitano, per essere sostenibili, di un “sano” comportamento alimentare.

Certo che bisogna desiderare, ma con responsabilità!
L’etica entra dentro gli acquisti e ne disciplina il desiderio; lo stile di vita di una persona è direttamente proporzionale al livello di sviluppo morale acquisito dalla stessa. In un siffatto panorama, il desiderio rischia di essere sempre più amministrato dal diritto, come vedremo in seguito.

A cavallo tra il 2007 e il 2009, il periodo di una delle più grandi crisi economiche del dopoguerra, si è affermata definitivamente l’idea che gli esseri umani avevano vissuto al di sopra delle loro aspettative e ci si doveva dare tutti (?) una regolata.
In altre parole: l’uomo aveva scialacquato oltre misura le risorse disponibili.

La conseguenza di questa retorica è stata la colpevolizzazione del comportamento della persona comune, e la sua responsabilità sulle crisi politico-economiche, sociali e ambientali. L’uomo, infatti, è solo un granello difettoso di un sistema più ampio potenzialmente perfetto.

Se questo è di fatto il migliore dei mondi possibili (Campo, 2007), come sostiene la narrativa ufficiale, allora tutti gli sforzi devono convergere verso la sostenibilità che permette il progresso e lo sviluppo (altra narrativa ufficiale) per un periodo indefinito.

L’essere umano “irresponsabile” per natura va tempestivamente educato al rispetto delle regole poste a garanzia del Bene Collettivo.
Detto in maniera più semplice, l’essere umano dovrebbe imparare a usare in maniera razionale le proprie risorse, dovrebbe controllarsi e autogestirsi rispetto alle proprie istanze consumistiche, e dovrebbe imparare ad avere cura dell’ambiente, magari iscrivendosi ai movimenti plastic free.
La raccolta differenziata dei rifiuti, la riduzione della loro quantità, il controllo delle emissioni di CO2, l’uso razionale delle risorse, il cambiamento degli stili di vita e delle abitudini alimentari, il rispetto delle norme, sono tutti assi importanti del modello sostenibile.
Chiaramente, la partecipazione responsabile di tutti è indispensabile, pena il fallimento del progetto.

L’umanità omogenea, unitaria, consapevole della propria irresponsabilità congenita è quindi il presupposto di base dello sviluppo sostenibile.

Ma perché formare il cittadino “ideale”?

Disciplinare l’uomo per permettere lo sviluppo del sistema è sembrata la buona soluzione per evitare il collasso del sistema. Dal mio punto di vista, il disciplinamento dell’uomo permetterebbe al Capitale nuove forme di circolazione a basso costo e a basso impatto ambientale.

Il concetto di sostenibilità si è diffuso capillarmente a partire dagli anni ’80 in relazione all’inevitabile transizione ecologica, e da quel momento in poi si è andato applicando a tutti i campi dell’esistente. 

Il fatto che la sostenibilità sia poi associata a parole come etica, responsabilità, ecologia, maturità, salute (fisica e mentale) permette non solo la facile comprensione della proposta, ma anche di  accettarne l’ineluttabilità.

Diversi Autori (ad esempio, Illich, 1977 e Latouche, 2005) hanno messo in discussione il concetto stesso di sostenibilità e il suo statuto epistemologico.

Secondo Latouche (2005), il modello di sviluppo sostenibile può essere paragonato a un’odierna mitologia che, come tale, svolge una funzione euristica e interpretativa sulle cose del mondo. Tale mitologia sostiene una visione esclusivamente consumistica, utilitaristica ed economicamente orientata; la prospettiva sostenibile, infatti, nasconde di fatto la sua profonda matrice economica, anche quando si veste di parole ecologiste o pacifiste. Per l’Autore sono proprio questi assunti che dovremmo provare meglio a questionare.

Il “mito dello sviluppo” prima, e dello “sviluppo sostenibile” dopo, è quindi al servizio dei processi capitalistici, della globalizzazione (oggi anche globalismo), del progresso scientifico e tecnologico. Il singolo da solo viene inchiodato alle proprie responsabilità e reso colpevole del fallimento dell’intero sistema.

Più recentemente Moore (ibidem) ha messo in discussione l’intero paradigma di sostenibilità in quanto, a suo dire, esso serve a perpetuare, teoricamente all’infinito, il sistema capitalistico.

Il Capitalismo, dice, si caratterizza per la sua capacità camaleontica di appropriarsi delle risorse naturali e mercificarle (si pensi a tutto il progresso nel campo delle biotecnologie): e ciò vale tanto per gli elementi naturali (chiamati appunto “prodotti”) quanto per la “natura umana”[8].

Moore (ibidem) così ritiene più adeguato parlare di Capitalocene, piuttosto che di Antropocene[9] per descrivere l’attuale era geologica.

Tutta la narrativa sullo sviluppo sostenibile è, infatti, fondata sull’idea che sia la semplice azione umana a danneggiare l’approvvigionamento o il benessere all’interno delle città (“troppe macchine al servizio della pigrizia delle persone”). Secondo l’Autore questa è una lettura fin troppo semplicistica.

Al contrario, sarebbe più utile ragionare dentro ottiche complesse, capaci di includere i rapporti di potere che sostanziano il globalismo capitalistico e liberale. Questi rapporti di potere riorganizzano e modificano non solo “la natura” ma anche il nostro rapporto con essa.

La tecnologia e la scienza sono prima di tutto strumenti essenziali di quel capitalismo che ha bisogno di depredare, sfruttare e appropriarsi della natura per poi rivenderla all’uomo[10]. Questa azione di appropriazione riorganizza la natura (in campi a coltivazione unica, o destinati al fotovoltaico, o in miniere per estrarre il carbone): quando parliamo di natura, quindi, abbiamo sempre in mente la natura “riorganizzata” dall’intenzione del capitale.

Sono queste logiche che dovrebbero essere questionate.

L’ecologismo green, così di moda di questi tempi, studia la globalizzazione, l’industrializzazione, il comportamento agrario ma non ha mai analizzato come la globalizzazione, l’industrializzazione e il comportamento agrario riorganizzano la natura attraverso pratiche di sfruttamento e di predazione (il capitalismo, dice Moore, è sempre alla ricerca della natura a buon mercato)[11].

Secondo Moore (ibidem), la visione di un mondo standardizzabile, oggettivabile, astorico serve alla codificazione di un immaginario comune organizzato attorno all’idea di sviluppo. La scienza e la tecnica definiscono gli standard, competenze, protocolli, parametri, algoritmi, calcoli ai quali bisogna attenersi per sviluppare il sistema (cibo finto, biotecnologie volte al contenimento della popolazione, eugenetica applicata alla filiera agricola, zoologica, addirittura umana).

Attraverso la tecnica, la matematica e la statistica, la complessità del reale collassa in una versione semplificata del mondo, solo idealmente prevedibile e apparentemente gestibile, controllabile e sostenibile.

È prioritario, secondo tutti gli Autori citati, rileggere il concetto di sostenibilità all’interno di queste relazioni di potere e avviare una riflessione su come l’agency economica e politica dipinga e costruisca un immaginario che vuole nascondere la propria intenzione (Moore, 2017).

Della stessa opinione è Naomi Klein (2008) che, parlando di capitalismo dei disastri, ritiene lo stato di emergenza un metodo di governo per legittimare le politiche della sicurezza. Certe politiche sarebbero altrimenti inaccettabili, in quanto aumentano le disuguaglianze tra le persone[12].
L’emergenza rende la disuguaglianza un semplice e inevitabile danno collaterale.
Sembra così che nella proposta emergenziale si chieda ad alcuni di sostenere il sistema a beneficio di altri.

Parlare di emergenza climatica permette di legittimare una transizione green inserendola all’interno di un registro logico che rimanda all’ineluttabilità: nessuno dotato di intelligenza, di responsabilità e solidarietà potrebbe mettere in dubbio questo assunto così Vero!?

Ma a quale natura stiamo pensando quando parliamo di emergenza climatica? E quale tipologia di uomo abita, in questo tempo, questa natura?

L’ambiente, si dice, va tutelato in tutti i modi e con tutti gli sforzi possibili. Si delinea, a mio avviso, una particolare forma di “ecologia della mente”[13]: è l’ambiente umano, modificato dal capitalismo e dall’organizzazione sociale a esso funzionale, a dover essere salvaguardato.

Molto diverso, ad esempio, sarebbe un approccio capace di valorizzare un rapporto archetipico con la natura. Un rapporto che potrebbe restituire un’idea diversa di cura ambientale.

Lo sviluppo è, più propriamente, sviluppo dei processi del capitale, della globalizzazione, del progresso scientifico e tecnologico. L’ecosostenibilità a cui si fa riferimento ha come obiettivo lo sviluppo di nuove risorse da sfruttare, e il contemporaneo contenimento dell’impatto che l’intero sistema produttivo ha sull’ambiente, sulla gestione delle città, sull’organizzazione del lavoro. Le soluzioni proposte, infatti, di ecologico hanno ben poco.

Del resto, a cosa ci serve il 5G o l’ultimo modello dell’IPhone? I critici del 5G, ridicolizzati dentro la retorica no-vax, ponevano delle domande non da poco rispetto all’impatto ambientale di questa nuova tecnologia.

Potremmo continuare con gli esempi ma la questione rimane: lo sviluppo è sostenibile se i comportamenti virtuosi e responsabili delle persone consentono di sostenere un progresso economico, scientifico e tecnologico sempre più tech e sempre più performante.

Sostenibilità ed emergenza poi, come ci ricorda Naomi Klein (2008), sono due facce della stessa medaglia.

Cosa fare allora?

In molti iniziano a proporre soluzioni locali e di prossimità.

Le soluzioni non possono essere ricercate dal sistema globalizzato, all’interno di Commissioni, Summit, Forum, ma dovrebbero essere partecipate dal basso, sviluppate da coloro che vivono, sentono e pensano un determinato problema.

Così diverrebbe possibile pensare pratiche che valorizzano la differenza prima ancora dell’universalità; pratiche rivolte a un pensiero locale, soluzioni pensate dall’uomo e a misura dell’uomo, in grado di restituire alle persone e alle comunità la capacità di risolvere i problemi che le riguardano.

Qui stiamo parlando non solo di problemi materiali, ma in primo luogo umani.

Secondo Bollas (2018), ad esempio, il riconoscimento che la scienza possiede nell’epoca attuale è collegato alla sua capacità di sostenere l’illusione di potere “controllare” tutto.
L’illusione permetterebbe di contenere, per quanto provvisoriamente, il senso di impotenza e l’angoscia di chi si sente di vivere sull’orlo di una catastrofe (personale, sociale, collettiva, mondiale).

Di Fasano (2011) ipotizza che alcune teorie scientifiche si possano addirittura prestare per essere usate come derive del “pensiero magico”, cioè come forme di pensiero che cercano di dare onnipotentemente una soluzione ai problemi che affliggono l’essere umano.

Il sapere tradizionale, vernacolare, è molto diverso da quello scientifico, e da sempre ha svolto un ruolo importante nell’elaborazione delle soluzioni locali (materiali ed esistenziali). Esso custodisce con cura una sapienza sulla vita e sulla morte, sui problemi che affliggono l’uomo, sulla natura, sull’invisibile ed è capace di offrire un immaginario collettivo di senso molto potente. Quel sapere oggi è stato smantellato e, come vedremo, ridotto a folklore.

La tecnica, la scienza, la medicina sembrerebbero andare a occupare proprio quel posto rimasto vacante. Offrendosi come universale, la scienza/tecnica riconosce poco valore al locale.
Il modello di sviluppo globale, economico, equo ed ecologico intende proporsi ugualmente valido per tutti, in tutte le parti del pianeta e a prescindere dalle tradizioni autoctone.

Esso valorizza sì le tradizioni, ma dentro un’ambivalenza di fondo: queste da un lato sono ricercate per la loro valenza folkloristica, mentre dall’altro, proprio in quanto folklore, vengono depotenziate nella loro valenza antropologica.
Secondo il sistema di valori globalista, il folklore non ha nulla da insegnarci anzi, se preso sul serio, rischia di favorire lo sviluppo di modelli culturali retrogradi, irrazionali e “magici”.

Il modello globale purtroppo tende a far fuori i localismi e quelle culture tradizionali che molto probabilmente avrebbero molto da insegnarci; ma soprattutto tende a far fuori quelle risorse particolari e personali che non sono previste dal modello omologato e omologante. Sarebbe auspicabile, a mio avviso, restituire alle comunità locali la capacità di affrontare e decidere il proprio destino, come da sempre è accaduto nella storia dell’umano.

Non voglio certo affermare che l’inquinamento, ad esempio, non sia un problema: tutti vogliamo i mari e le spiagge pulite e libere dalla plastica, aria fresca da respirare, boschi non distrutti dall’indifferenza umana, una “soluzione” al cambiamento climatico.
Non si tratta di negarne l’importanza, ma di chiederci se sia il caso di agire per il tramite di un modello globale e algoritmizzato. Il rischio del modello unico è non riuscire più a immaginare alternative possibili, e censurare chiunque provi a sviluppare idee e processi alternativi.

Possiamo prenderci cura dell’ambiente tramite un pensiero diverso da quello di sviluppo?

La verità è che siamo talmente abituati a pensare questo come l’unico modello possibile da non riuscire a elaborare strategie diverse, rispettose dell’uomo quanto della natura.

2. Sostenibilità, comportamenti virtuosi e Psicologia Etica

Abbiamo già visto come, secondo il modello capitalistico globalista, l’umanità (quella senza differenza di genere, provenienza geografica, credo religioso) debba rimanere insieme, compatta, responsabile, matura, e capace di mettere al primo posto il bene di tutti.
Gli effetti di questo modello sono una sempre maggiore pressione verso il conformismo, l’omologazione e la normalità intesa come valore verso cui tendere[14].

L’uomo educato[15] dallo sviluppo sostenibile è un uomo rispettoso dell’Altro, delle norme civiche, capace di autodisciplina e rigore. Tutte queste caratteristiche risultano indispensabili per sviluppare nella persona l’auto-orientamentoverso il Bene Comune.

A rendersi garante di questo passaggio, uno Stato[16] e un apparato pubblico che si intestano il compito di una legiferazione volta a educare i cittadini a comportarsi correttamente. 

Ricordiamo tutti le affermazioni di chi, all’indomani dell’introduzione dell’obbligo delle mascherine all’aperto, ne sosteneva l’importanza solo in termini educativi. Oggi, invece, è il nuovo Presidente del Consiglio Meloni che fa dell’ergastolo ostativo uno strumento educativo.

Diversi sono coloro che in questo ravvedono una vocazione etica dello Stato[17], che si pone nella posizione di stabilire il confine tra ciò che è bene e ciò che è male, assimilando l’etica a una legge e al suo rispetto (Nerozzi, 2010). Sembrerebbe il trionfo di un certo tipo di pensiero legalitario, quando non legalista, che trova nel rispetto della legge il proprio stesso orientamento etico.

Etica e legge, in questo scenario, stringono una strana alleanza, e si propongono di “formare” l’uomo del futuro.

Inoltre, in virtù del proprio mandato etico, lo Stato può teoricamente legiferare su tutto, penetrando nella vita e nei corpi delle persone libere. È compito dello Stato Etico perfino stabilire la definizione di famiglia o di salute o, in maniera più sorprendente, di amore.

Nello Stato Etico postmoderno tutte le azioni individuali hanno valore soltanto se sono orientate alla vita e alla salvaguardia della collettività (rappresentata dallo Stato e dalle sue leggi). Poco importa se riguardano i vaccini o la guerra. In nome della buona scusa morale è possibile persuadere le persone a mettere in atto qualsiasi comportamento. 

I governi, tanto di destra quanto di sinistra, stanno vietando per legge raggruppamenti di persone non autorizzate, ora per prevenire un contagio, ora per prevenire comportamenti rischiosi.
Il problema, quindi, non è che si proibisca alle persone il diritto di incontrarsi, ma a chi vanno vietati gli “assembramenti” e a quale scopo. Se troviamo un motivo morale, allora è accettabile. Lo Stato ha il dovere di normare i comportamenti, poi nell’arena di qualche talk show possiamo liberamente discutere su quale sia il comportamento virtuoso.

L’etica non fonda più l’attività umana dentro una logica interpersonale, ma si astrae per farsi legge. Lo Stato e tutti i suoi organi di trasmissione si intestano un ruolo di potere dal quale definire il comportamento, il pensiero, lo stile di vita cui bisogna aderire.

Accade così che l’individuo non sia più portatore di diritti inalienabili (la propria indissolubile sacralità) ma solo di doveri collettivi.

È chiaro che la differenza non è “pensabile” in una simile organizzazione sociale. La differenza, infatti, parla del fatto che io e l’Altro siamo portatori di una diversità strutturale che costringe a fare i conti con degli istituiti interni non sempre conciliabili.

Il pensare la differenza è un problema.

Ma di quali difficoltà dovrebbe farsi carico una comunità che non riesce a “pensare la differenza”? Ha ancora senso parlare di differenza?

Il mondo contemporaneo sembra avversare tutto ciò che di individuale può essere espresso[18]: ciò che proviene dal singolo, soprattutto se in contrasto con il sentire collettivo, è sinonimo di egoismo. Questo, come qualsiasi altro comportamento riprovevole, va messo alla gogna[19].
Secondo Hopper (2021), spesso l’avversione per la prima persona singolare si accompagna a un funzionamento gruppale caratterizzato da indifferenziazione, massificazione e adesività.

Tornando alla sostenibilità, essa è diventata l’organizzatore culturale per tutti gli altri valori dell’uomo contemporaneo (lo vedremo meglio nel prossimo paragrafo).

Sostenibilità ambientale, sostenibilità economica e sostenibilità sociale: tutte insieme fanno lo sviluppo sostenibile.

L’etica comune è la sostenibilità del sistema, in primis quello sociale: le regole sono “buone” in quanto sostengono, appunto, l’intero sistema sociale, ambientale, economico e politico, sia nazionale che globale.

L’Agenda 2030[20] impegna tutti gli stati europei a intraprendere azioni sostenibili e predetermina i valori di riferimento che devono essere comuni a tutti (pena multe per gli Stati inadempienti).
I sofisticati sistemi di certificazione hanno un enorme valore in questo senso. Senza un certificato di sostenibilità (pensiamo alle aziende che devono corrispondere ad alcuni standard equosolidali) non è possibile accedere all’utilizzo delle risorse “comuni”.
Ogni certificazione viene rilasciata solo a condizione che vengano rispettati standard, criteri e protocolli. Quanti di noi sanno che per accedere alla candidatura agli Oscar, i registi devono rispettare almeno due dei quattro criteri di inclusività[21] previsti dall’Academy?

Così, chi non rispetta gli indirizzi etico/legali previsti dalla normativa può essere multato, sanzionato o escluso dall’accesso ad alcune pratiche e contesti[22].

A nulla vale se una persona non ha i soldi per passare all’auto elettrica, se ha comprato il televisore l’anno precedente l’entrata in vigore del nuovo sistema di trasmissione del segnale, se un anziano fa fatica a usare il digitale, o se la legge tradisce ideali securitari: la persona che non si adegua è un “immorale” ed è giusto che sia punito, “educato”.

Cercare di mettere fuori legge il “Male” sembra essere l’obiettivo finale dello stato etico. In questo senso la scienza, la medicina e l’educazione svolgono un ruolo centrale, in quanto istituti che si ergono a tutela del processo formativo dell’Uomo nell’era della sostenibilità.

Tale paradigma non è nuovo, ne troviamo i primi vagiti nel carteggio tra Einstein e Freud del 1932: poco prima della seconda guerra mondiale i due si scambiarono opinioni e provarono a comprendere perché le persone e gli Stati si facessero la guerra. Entrambi convenivano sulla necessità di istituire un organismo mondiale sovranazionale capace di orientare l’uomo verso un sano sviluppo psichico, e tale da arginare definitivamente le derive catastrofiche dell’aggressività e dell’istinto di morte.

Il processo di civilizzazione (oggi sempre più in mano ai tecnici), che segnala mete socialmente utili e buone, è indispensabile per l’attuazione di questo progetto riformatore.
Le grandi rivoluzioni culturali del ’68, infine, sulla scia di questo stesso progetto, aprirono la strada a una cultura affettiva caratterizzata dal dialogo, dall’amore, dall’educazione, dal confronto pacifico e dall’ascolto attivo. Questa cultura si è andata affermando all’interno di un sistema educativo volto a forgiare “una bella persona” (Pietropolli Charmet, 2000).

Si diffuse velocemente l’interesse istituzionale per la gestione dei percorsi di sviluppo di “belle persone”, si svilupparono i primi programmi di educazione affettiva, alla pace, alla diversità, civica. Questi avevano l’obiettivo di sviluppare un orientamento personale verso emozioni positive, propositi sociali benevoli e comportamenti virtuosi. Si è insegnato a stare dentro i conflitti sani non strumentali, prediligendo pratiche pacifiche.

Il tentativo di neutralizzare la parte litigiosa, quella impossibilitata a scendere a compromessi, di negare l’ostilità in quanto processo da attraversare ha portato allo sviluppo di persone che non sanno litigare, che anzi hanno paura della propria rabbia, della propria parte “violenta”, schiacciate da sentimenti di invidia.

Le persone, in altre parole, non sanno più identificare e mentalizzare quei sentimenti che sono stati culturalmente appellati come negativi[23]. E non basta renderli illegali o indicare l’adesione a standard certificabili, come vuole lo Stato Etico, per risolvere il problema.

I dispositivi di produzione dell’umano, oggi, formano soggettività orientate a un vuoto pacifismo, a banali ideologie fondate sull’amore, sul rispetto e sulla solidarietà, su un ecologismo globalizzato sprezzante delle tradizioni. 

È così che si vuole perseguire un mondo sostenibile, senza guerre, senza discriminazioni, senza violenza?
Né la violenza sociale è sparita, né la guerra è stata eliminata. Anzi, forse siamo la società che più di tutte sfiora realmente il rischio dell’utilizzo della bomba atomica dopo Hiroshima e Nagasaki.
Persino la guerra, a ben vedere, potrebbe essere sostenibile!

Negare la presenza di una nostra parte “insana” significa non poterla più guardare, e non capire come essa agisca dentro di noi. Come ci ricorda Pigozzi (2018), gli infanticidi si sviluppano spesso attorno all’idea di un materno totalmente buono, sempre pronto e amorevole (che nega la presenza anche dell’odio all’interno del legame); un materno che schiaccia le madri dentro stati dissociativi. Queste madri, non potendo integrare la propria parte “insana”, possono solo agirla.

La rabbia stessa, per alcuni Autori (Costa, Tonini, Fersurella, 1995), è alla base della capacità di stare da solo, a sostegno dei processi di individuazione e differenziazione.

Eliminare il “male” dalla vita priva il funzionamento psichico di una parte importante della mente. L’illusione di purificare la natura umana rischia di disabilitarci nel rapporto con l’aspetto tragico dell’esistenza (Illich, 1977).
“L’odierna società sembra essere divenuta incapace di accettare la propria parte maledetta, il Perturbante, e tenta drammaticamente di esorcizzarla tramite politiche che, implicitamente, si pongono l’obiettivo di isolare l’elemento che perturba e che mette in crisi” il sistema collettivo di tenuta (Campo, 2007).

Oggi la professione psicologica si è intestata una visione etica della “cura”, tanto che potremmo parlare di Psicologia Etica (in analogia allo Stato Etico).
Pensiamo al proliferare di programmi di educazione alla pace, alla sessualità, alla corretta alimentazione, o di sensibilizzazione allo sport, sempre più interessati a “formare” fin dai suoi primi vagiti, un modello di umanità consapevole, responsabile, salutista, amante della diversità, non “egoista”, flessibile e adattabile, capace di derogare ai propri bisogni e interessi personali in favore dell’interesse sociale.

Così recita il documento programmatico dell’attuale consiliatura del CNOP (2020): “le scienze psicologiche mostrano come i nostri comportamenti, le nostre azioni, le relazioni che abbiamo con le persone con cui siamo legate e con gli altri dipendono in buona parte dai nostri valori” (pag. 9). 

I valori, in altre parole, fondano lo sviluppo armonico di una persona e sono alla base di un buon funzionamento mentale: quest’ultimo, vedremo più avanti, permette di rivolgersi al bene, alla pace, alla cooperazione e alla solidarietà globale.
Sembra essere tornato in auge il mito secondo cui è la mancanza di moralità[24] a generare la patologia.

Potremmo quasi affermare che la psicologia, sempre meno interessata a una analisi etica (questa sì!) dei rapporti di potere, rischia di sposare una visione etica della cura.

Tutto l’architrave delle leggi che regolamentano la professione possono essere viste all’interno di un percorso istituzionale più ampio che ha reso gli Ordini semplici interpreti di una funzione politico-sanitaria di carattere etico/morale. Gli Ordini sono esecutori di impianti normativi che poco hanno a che fare con il reale benessere dei cittadini.

La stessa legge 3/18 trasforma gli Organi di rappresentanza istituzionale (e di conseguenza i professionisti ivi iscritti) in enti subordinati allo Stato e alle politiche governative, sempre meno autonomi e indipendenti nella formulazione di una propria visione dell’umano e della “cura”.

Quanto spazio di autonomia può rimanere a un professionista quando il “bene del paziente” è stabilito fuori dalla relazione con il paziente? quando la presenza dello Stato all’interno dei percorsi di “cura” è così invadente?

Allo psicologo potrebbe rimanere un’autonomia da giocarsi all’interno dei perimetri tracciati di volta in volta dall’economia, dalla politica, dall’ecologia.

Curtotti (2022), in un recente articolo dal titolo “Lo Psicologo di stato”, avanza l’ipotesi di “una nuova figura di Psicologo da calare nel contesto sociale come valore non solo aggiunto ma, a quanto pare, fondante nella logica di un nuovo assetto globale della Sanità pubblica”.

La nuova figura dello psicologo rischia di essere al servizio di un sistema che definisce a priori la figura di uomo da “formare”.

Le professioni sanitarie, uniche ormai a gestire il Sistema Salute, pongono le proprie formulazioni sotto forma di norme in tutti gli ambiti della vita: dall’alimentazione, all’igiene, alla sessualità, alla procreazione, al fine vita.
La salute, e non più la malattia, è diventata l’ambito di intervento del professionista.

La salute mentale, dentro un tale sistema normativo e legislativo, rischia di diventare un problema di ordine pubblico e l’etica, non più fondativa di una prassi, diventa Valore[25].

3. Dallo sviluppo sostenibile allo sviluppo psicologico sostenibile

Qualche anno fa partecipai a un gruppo di lavoro che aveva l’obiettivo di riflettere sul significato della contemporaneità e sugli echi nel mondo interno.
Ciò che mi colpiva era il ritorno sistematico di una domanda che potrei riformulare in questo modo: “dobbiamo costruire nuove mappe interpretative per comprendere i fenomeni attuali, oppure dobbiamo soltanto aggiornare le vecchie mappe?”.
Una domanda alla quale non è possibile dare una risposta, ma che è importante perché permette di mantenere uno sguardo aperto su ciò che guida la nostra pratica.

Sono passati pochi anni e già le Istituzioni che ci rappresentano come professionisti sembrerebbero aver trovato una risposta: la psicologia si deve dotare di mappe aggiornate, che tengano conto degli attuali cambiamenti politici, economici e sociali, e che siano capaci di rispondere adeguatamente alle sfide del tempo!

Ma quali sono le sfide del tempo? Siamo ancora interessati a capire come ognuno di noi si colloca in relazione a queste sfide prima di accettarle?

È proprio il Presidente del CNOP a evidenziare l’importante fase di transizione che la professione sta vivendo a fronte dei grandi cambiamenti sociali. A tal fine, segnala la necessità di dotarsi di validi protocolli di lavoro volti a sostenere le persone nei loro processi di adattamento e resilienza[26].

Lazzari (2022), durante un convegno dal titolo “Deontologia e valori per la Comunità professionale psicologica”, ha introdotto l’espressione “sviluppo psicologico sostenibile” quale obiettivo prioritario del professionista psicologo.

Secondo Lazzari, i grandi cambiamenti radicali che attraversano la nostra società non possono essere gestiti e compresi dai cittadini “nel loro valore intrinseco”, senza un valido sostegno psicologico, senza cioè “un sostegno che ci aiuti a cambiare e comprendere i cambiamenti”.

Per il Presidente del CNOP, gli psicologi devono dare un loro contributo allo sviluppo sostenibile, in linea con gli obiettivi e i valori espressi nell’agenda 2030 e nel PNRR. Devono altresì definire le linee guida “per la costruzione di una società post moderna e post pandemica”[27].

In questa chiave, il benessere psicologico e la salute individuale vengono descritti come “capacità dell’individuo di costruire equilibri adattivi in un contesto relazionale”, e divengono elementi chiave per la valutazione delle performance[28] di un Paese rispetto alle proprie politiche.

Dovremmo guardare più attentamente nelle pieghe di questo discorso, in quanto dichiarare che la salute psicologica diventa un elemento di valutazione delle politiche di un Paese significa fare entrare la psicologia in un ruolo inedito. Da quando ne ho memoria, nessuno psicologo ha posto la soddisfazione e l’adattamento alle politiche governative a fondamento del proprio lavoro (almeno in maniera esplicita), tanto meno ha rinunciato a mantenere uno sguardo terzo sulle cose.

Il nostro Ordine Nazionale si impegna a sviluppare una Salute sostenibile, intendendo per sostenibilità ciò che definisce il valore di un’azione, mentre la psicologia, interprete di questo mandato valoriale a livello sociale, se ne fa interprete e garante.

La sostenibilità così diventa al contempo valore e obiettivo del lavoro del professionista. 

La psicologia si intesta gli obiettivi di una sostenibilità per legge [29] la cui eticità è tutta da “verificare”.

Nessun confronto su questo tema è mai avvenuto.
Anzi sembra esservi stato un percorso, ben gestito dall’alto, che non ha lasciato spazio a dubbi e perplessità sulla validità epistemologica del concetto di sostenibilità applicata all’umano. Nè è stato lasciato spazio per riflettere sulle implicazioni professionali derivanti dall’accettazione della sostenibilità come valore e obiettivo del nostro lavoro.

Ancora, nel documento programmatico dell’attuale CNOP (2000) troviamo che il “nostro modello sociale ha bisogno di ripensare la centralità dei bisogni per la vita umana” (pag. 3). Una frase per certi versi condivisibile, ma che tradisce una possibile stortura di fondo: in questa prospettiva i cittadini – che vivono in un determinato spazio sociale – non possono negoziare, modificare o ripensare un modello di comunità più a misura dei propri bisogni relazionali, spirituali, trascendenti; al contrario, per potere essere sostenibile, è l’organizzazione sociale – eterna e immutabile – che deve rimettere al centro i bisogni delle persone (stabiliti da chi?).

In tal modo comprendiamo meglio cosa si intende quando si afferma che i cambiamenti sociali e le sfide per il futuro non possono essere comprese senza un adeguato sostegno psicologico.

La società sostenibile (in equilibrio per un tempo indefinito) ha bisogno che tutti si muovano verso l’adesione ad alcuni comportamenti e stili di vita; in tutti coloro che mettono in atto comportamenti difformi, il “nuovo” psicologo vede la presenza di resistenze che, grazie al suo tempestivo intervento, possono essere sciolte.

Così la psicologia rischia di avere un mandato “politico” su chi non comprende l’ineluttabilità di alcune scelte: chi rema in direzione contraria, chi sta male al lavoro, chi sta scomodo nel vivere dentro percorsi normativi stabilmente definiti da altri.

Per arrivare a chi, proprio a causa di alcune narrative, sviluppa forme di disagio immediatamente “diagnosticate” e “curate”. Pensiamo, ad esempio, alla recente comparsa del termine “eco-ansia” per definire le emozioni negative – preoccupazione, senso di colpa e disperazione – legate al cambiamento climatico. L’American Psychological Association (APA) riconosce l’eco-ansia come una “paura cronica del destino ambientale”.
Secondo Papa (2022), in linea con le più recenti formulazioni sul tema, è necessario che le persone comprendano il senso del cambiamento climatico. Solo così possono acquisire gli strumenti utili “per far fronte alle emozioni che accompagnano questa conoscenza” (ibidem).
Grazie al tempestivo intervento del “nuovo” psicologo è possibile contrastare quei sentimenti di disperazione e negazione (negazionismo?) che non permettono di assumere comportamenti responsabili.

E così il “nuovo” psicologo si impegna a sostenere le politiche globali, sviluppando programmi di intervento che possono aiutare le persone ad attraversare i cambiamenti, a comprenderli e ad assumersene la responsabilità, personalmente e collettivamente.

Ancora una volta l’interesse del singolo e della società, intesa come organizzazione sociale, devono coincidere.

La centratura sulle capacità adattive in relazione alla salute mentale è fondamentale in questa nuova mission: il benessere psicologico è associato a un buon funzionamento mentale individuale, e quest’ultimo, e solo quest’ultimo, permette di mettere in atto comportamenti virtuosi.

Un esempio recente è stato l’accento sulla sanità mentale del cittadino che andava a vaccinarsi: una persona con un buon funzionamento mentale è capace di mettere da parte i propri interessi personali se non coincidono con quelli collettivi[30].

Il funzionamento mentale è un Valore, di quelli con la maiuscola, ed è grazie allo sviluppo di una mentalità sana e integra che si può vivere dentro la società; un uomo “sano” può accettare, senza troppe remore, il ruolo civilizzatore della società e la Psicologia può aiutare le persone a sviluppare quel controllo cognitivo necessario ad accedere al contratto sociale.

In questo tipo di ragionamento vi è una grande insidia che dovremmo tutti tenere a mente: lavorare per l’adattamento alle politiche sostenibili, progressiste e globaliste di uno Stato implica che la psicologia e tutta la sanità diventino il perno sulle quali esse si sostengono. Tale cornice rischia di trascurare una pratica professionale capace di mettersi al fianco della persona in difficoltà e aiutarla a trovare le proprie strategie soggettivamente credibili.

Nel nostro “documento di Interlocuzione all’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia” ci siamo chiesti quanto “gli psicologi oggi sono al servizio di un adattamento umano all’ambiente culturale (anche se nessuno può mai essere definitivamente e perfettamente adattato) o al contrario incentivano specifici percorsi di soggettivizzazione, individuali e gruppali? In quanto psicologi professionisti, siamo consapevoli di essere figli di questo tempo, anche noi assoggettati a vincoli di potere (di cui dovremmo essere il più possibile consapevoli) che ci abitano e che agiamo?” (pag. 1).

Come ripensiamo il nostro essere iscritti nelle matrici socio-culturali del nostro tempo? Quanto ci stiamo attrezzando per imparare a muoverci tra il fare parte del sistema (essere figli del tempo) e lo stare fuori (capire quale parte stiamo giocando)? Quanto anche noi rischiamo di diventare sistema e parlare lo stesso linguaggio di ciò che fa ammalare?

Io questo rischio lo sento.

Credo che sarebbe utile avviare una riflessione su tutte queste tematiche: parlare tanto e parlarne tanto, non darle per scontate.
Il sapere non può mai sottrarsi, a mio avviso, dall’interrogare se stesso. Il rischio è di diventare l’ennesimo replicante dei discorsi del potere.
Un approccio etico/scientifico, al contrario, riporterebbe il dubbio e la domanda dentro il processo conoscitivo.

Le persone che incontro nel mio lavoro soffrono spesso di oppressione. Certo, posso provare la strada della resilienza per aiutarle. Oppure potrei andare alla radice di questa sensazione e aiutare la persona a ritrovarsi come Soggetto della propria vita.
All’ascolto analitico, l’oppressione si presenta nella forma di un Sé adattato senza guizzo, in balìa degli eventi, schiacciato dalla sensazione di non avere presa sulla propria vita. Gli eventi accadono senza che la persona senta di potere avere effetto su di loro.
Nel già citato documento di Interlocuzione all’Ordine abbiamo visto come le attuali forme di mal’essere siano specifiche della “società degli individui”[31].

Bollas (2018) ipotizza l’oppressione come nuova forma dell’essere: “il ritiro nelle terre mentalmente spoglie dell’universo normopatico isola il Sé dall’attribuzione di un significato al vissuto.  (…) I momenti di intensità psichica non sono (…) registrati dal Sé che, essendo difeso rispetto alla possibilità di accoglierli, non è in grado di trasformarli in vertici di significato” (pp. 135-136). La persona assiste a uno scorrere degli eventi senza che questi possano entrare pienamente nel proprio campo della coscienza. La mancata “esperienza” del mondo impoverisce la funzione simbolopoietica della mente.
Dal mio punto di vista, in accordo con Bollas, lo sforzo nella “cura” avrebbe anche a che fare con la possibilità di risvegliare un interesse nella persona a poter essere Soggetto.

Personalmente ritengo fondamentale un lavoro volto a sostenere il processo di individuazione (Jung, 1935) o di soggettivizzazione (Napolitani, 1986), ovvero un lavoro a sostegno di una riappropriazione personale di quanto “appreso” dal mondo, rielaborato e valutato a seconda della propria storia, dei propri valori e della propria propensione a “essere”.

Come non ricordare l’importante insegnamento di Napolitani (ibidem) sulle “parti non nate” e sull’importanza di un ascolto attivo per riconnettere l’individuo a una parte di sé negata.

Un approccio molto distante da quello della psicologia e della psicoterapia al servizio dell’adattamento e della resilienza[32].

Nell’imperativo Etico del Bene Comune l’individuo, con i suoi valori e i suoi bisogni, è scomparso. L’uomo contemporaneo fa fatica a formulare per sé un proprio sapere “situato” nel proprio corpo, nella propria storia, nella propria visione del mondo e del futuro.

Ecco cosa rischia di diventare la resilienza: adattarsi a città invivibili, a lockdown forzati, a burocrazie estenuanti, allo smart working, all’alimentazione con cibi chimici prodotti dentro laboratori, o con farina di insetti.
Cosa accade quando la definizione di Salute è stabilita in uno spazio diverso da quello individuale e comunitario? Quale spazio rimane per il consenso informato?

Conclusioni

La radicale desimbolizzazione di ogni aspetto della vita porta alla presenza di oggetti che non rimandano a nulla se non a se stessi.
La medicalizzazione del vivente, a pensarci bene, non è altro che questo: ridurre il senso della vita a qualcosa che rimanda solo a se stessa (la preoccupazione di stare bene al lavoro, in famiglia, mangiare bene, fare le visite di controllo, fare sport, occuparsi dei rifiuti).

Ma come ci ricorda Fachinelli (1979), abbiamo anche bisogno di andare alla ricerca di un senso altro della vita. Lo psicoanalista racconta di un episodio il cui protagonista è un bambino.

Pochi giorni fa, in un piccolo gruppo, una psicoanalista raccontò qualcosa che era successo tempo prima ad uno dei suoi figli. Il bambino, giunto all’età classica per queste domande, un giorno le chiese: ‘da dove vengono i bambini?’. La madre rispose ‘scientificamente’, spiegandogli che i bambini nascono dal rapporto con i genitori etc. Qualche tempo dopo, il bambino si trovò a parlare dello stesso argomento con altri bambini, i quali viceversa sostenevano la tesi della cicogna. (…) Il bambino rinnegò e criticò la tesi ‘scientifica’ dei genitori e passò (o forse meglio ritornò) decisamente alla tesi fiabesca dei compagni. (…). C’è pure una intrinseca debolezza o insufficienza della verità dei genitori sul sesso. Che cosa significa la domanda ‘da dove vengono i bambini?’ (…) la domanda va molto più in là: chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? Alle domande sulla vita sono immediatamente legate quelle sulla non esistenza e sulla morte. La domanda sulla nascita sembra dunque avere, sia pure in modo per lo più implicito, il senso di una domanda più complessa, direi metafisica. (…) Possiamo postulare una situazione in cui la risposta ‘scientifica’ dei genitori (o degli insegnanti…) risulta per il bambino del tutto insufficiente per i problemi che pone; non solo insufficiente: egli la può trovare angosciante, se gli si pone in modo diretto (pagg. 125-127).


Fachinelli ci segnala quindi un aspetto importante della mente umana: il bisogno di sfuggire alla “nuda vita” (Di Petta, 2020) delle spiegazioni scientifiche e dei protocolli.

Più recentemente Han (2016) ci ricorda come “non è possibile giocare con la nuda carne. Il gioco ha bisogno di un’apparenza, di una non-veridicità (…) L’imperativo neoliberista di prestazione, sexyness e fitness alla fine riduce il corpo a oggetto funzionale che occorre ottimizzare (…) L’espulsione dell’Altro produce un adiposo vuoto di pienezza” (pag. 15).
Ogni cosa è resa mera funzione e, in questo collasso del piano simbolico, tutto può essere mercificato, persino un pezzo di corpo o di secrezione umana.

È qui che possiamo rintracciare il mito della neutralità, un mito che fa fuori sia le questioni simboliche che etiche, andando verso la costruzione di un uomo “normale”.
L’essere umano “normale” riconosce la diversità, ma solo in quanto declinazione dell’Uno e del neutro come valore positivo. La diversità, al contrario del concetto di differenza[33], non minaccia quell’Uno a cui guarda il concetto di normalità; vi è una buona tolleranza dei diversi modi di interpretare e declinare un unico Modello.
Più si accetta la neutralità di qualcosa, più se ne afferma l’intrinseca positività. Il neutro è un Valore al quale tutti dobbiamo tendere.

La deriva tecnico-procedurale, così come avvenuto in questi due anni, affonda le radici all’interno di quel paradigma che vuole l’utilizzo imperante di protocolli, procedure, tecnicismi stabiliti da un sapere “neutro”.

Se noi professionisti continuiamo a essere costretti a “pensare” solo dentro i vincoli di procedimenti validi per tutti – che ci dicono cosa fare, perché farlo e quando farlo – rischiamo di far fuori quel ragionamento clinico capace di sostenere la vita nei suoi risvolti creativi, simbolici e simbolo-poietici.

Siamo catturati e prigionieri dentro un mondo di procedure, di carte e di burocrazie che ci toglie tempo (anzi ci costringe a usarlo per cose inutili).

La vita è sempre più svuotata di qualsiasi riferimento trascendentale, spirituale e di senso.

Con l’illusione di poter controllare tutto, stiamo perdendo la capacità di pensare ciò che di ingovernabile e incomprensibile c’è nella vita.

La proliferazione di certe pratiche salutiste sta portando anche al progressivo smantellamento di quei dispositivi di supporto (familiare, sociale, culturale) ancora rimasti indenni.


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[1] Pensiamo alla lungimiranza dell’AGENDA 2030 quando “prevede” la sostenibilità dell’attuale sistema sociale ed economico anche per le generazioni future. Se la “preoccupazione” per le generazioni future è lodevole, non si capisce quali siano i criteri per stabilire cosa sarà sostenibile per le generazioni a venire.

[2] L’Industria della Salute, come la chiama sapientemente Sala (2019), porta ad alimentare l’idea che medici, psicologi e assistenti sociali possano riuscire a intervenire preventivamente per eliminare le patologie, la violenza o la cattiveria dal mondo. Ogni volta, davanti alle tragedie più grandi, che sia un’emergenza sanitaria o un infanticidio, si invoca una maggiore presenza dei servizi, un maggiore controllo da parte delle istituzioni quasi a volersi illudere che basti realmente questo per eliminare l’orrore, la tragedia o la morte. Purtroppo la storia ci restituisce non solo che gli orrori non si possono eliminare, ma che sono tragicamente parte della vita; i sistemi di controllo, per quanto sofisticati, non possono eliminarli. Le professioni mediche e sanitarie sono sempre più animate dalle logiche del biopotere (Foucault, 1976); quest’ultimo richiede un controllo dei corpi tramite l’impiego di pratiche di igiene, alimentari, sessuali. Gli esseri umani, di fronte alla promessa di agi, comfort, assenza di malattia e violenza, sono disposti a sottomettersi alle tecnologie di controllo, arrivando perfino a disumanizzare e a medicalizzare il senso della vita.

[3] Per Manghi (2022) il continuo interrogarsi dei professionisti della Salute sui confini tra normale e patologico (si vedano, ad esempio, le ultime riedizioni del DSM) rimanda a un orizzonte in cui parte importante del nostro vivere è patologizzato e/o sottoposto a sorveglianza medica. Il ruolo dello Stato è fondamentale in questo processo perché, come vedremo, è esso che, in nome del diritto alla Salute, se ne fa carico e garante, normando le abitudini, gli stili di vita, quando non i pensieri stessi.

[4] Il controllo medico, ricorda Illich (1977), frammenta le fasi di passaggio in una serie di episodi a rischio che hanno bisogno di tutela e vigilanza speciale. Nelle culture tradizionali, al contrario, i passaggi “evolutivi” sono ancora questioni che riguardano la comunità intera.

[5] Documento programmatico CNOP (2020) 2019-2024.

[6] L’Agenda 2030 rappresenta il quadro di riferimento per l’impegno nazionale e internazionale e ha come obiettivo quello di trovare  delle soluzioni globali a problemi come la povertà, i cambiamenti climatici, il degrado dell’ambiente e le crisi sanitarie.

[7] Articolo 9: l’Italia “riconosce e garantisce la tutela dell’ambiente come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Promuove le condizioni per uno sviluppo sostenibile”. Articolo 41: “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute, all’ambiente”.

[8] Si pensi, ad esempio, a parte della critica femminista sulla prostituzione del corpo femminile mercificato a uso del “maschio”. O ancora, si pensi alla pratica della Gestazione per Altri che vede mercificata una parte del corpo (l’utero) e una funzione (la gestazione) a uso di coppie spesso bianche, ricche e occidentali; una pratica, quest’ultima, che assimila la gestazione al pari di qualsiasi altro lavoro, così come precedentemente era successo per la prostituzione (Danna, 2017; Corradi, 2021).

[9] Si definisce Antropocene l’attuale epoca geologica in cui l’azione umana modifica, su scala locale e globale, l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche (Crutzen, 2002).

[10] Ogni qualvolta che il capitalismo si appropria della natura, questa viene sottratta all’uomo e trasformata in “prodotto”; da quel momento in poi l’uomo vede mediato il suo rapporto con il prodotto attraverso  leggi, regole, funzioni. Un esempio: la legna, trasformata in “prodotto di consumo”, è rivenduta all’uomo tramite un sistema che ne regolamenta la vendita e l’uso.

[11] Un esempio di come il capitalismo riorganizzi la natura e favorisca pratiche di sfruttamento viene raccontato da Fukuyama (1994) quando rilegge la storia delle piantagioni di cotone negli Stati Uniti all’interno della storia dello sfruttamento della terra e dell’uomo. L’imposizione del cotone come grande protagonista della rivoluzione industriale è coinciso con lo sfruttamento monopolistico della terra, destinata e dedicata alle grandi coltivazioni di cotone e all’introduzione dello schiavismo per la cura delle stesse.

[12] Pensiamo ad esempio che tutte le grandi riforme sul sistema pensionistico (dettate dai mercati, dalle élite e da organismi sovranazionali) sono state introdotte da governi tecnici e a seguito di una crisi economica.

[13] L’ecologia della mente è, al giorno d’oggi, incapsulata dentro una visione di biosicurezza (interventismo terapeutico e libertà negate) appiattita all’interno di una sempre più penetrante medicalizzazione del vivente.

[14] Durante una discussione in merito alle politiche governative degli ultimi due anni e mezzo, un collega mi segnalò il mio personale bias che dovevo correggere se volevo tornare a pensare normalmente: “più dell’ottanta per cento delle persone la pensa così e io con loro: sei tu che pensi strano. E io sono felice di pensare come quell’ottanta per cento, significa che sono normale”.

[15] L’educazione è importante in questa prospettiva in quanto permette all’uomo di addomesticare i propri istinti: l’uomo educato (come vedremo dopo, anche curato) è un uomo che ha imparato a dominare il proprio egoismo, la propria malvagità e, grazie al processo di civilizzazione, a vivere in società.

[16] Lo Stato oggi ha perso la propria autonomia nazionale, è anch’esso globalizzato, attento alla cura responsabile di un bilancio economico, anche quando questo va a discapito dei cittadini.

[17] Per Hegel (1814) lo Stato è “etico” in quanto ha il compito di fondare la vita individuale su valori e principi etici “universali”; questi sono al tempo stesso rappresentazione del e orientamento verso il bene supremo.    

[18] Oggi parlare a titolo personale è sinonimo di egoismo, di cecità interpersonale. Ma parlare in prima persona è, come ci ricorda Lacan (2002), un aspetto importante per la costruzione di una propria soggettività. E invece siamo ancora capaci di riconoscere il valore della prima persona plurale (il Noi) ma siamo sospettosi di qualsiasi aspetto che tradisca la presenza di un Soggetto.

[19] La compulsione a commentare qualsiasi cosa nei nostri profili facebook risponde all’esigenza, quasi “rituale”, di condannare pubblicamente un certo comportamento: chi condanna, dandone testimonianza pubblica, si fa riconoscere anche come persona dotata di un buon profilo morale. La paura di provare vergogna ed essere messo alla “gogna” pubblica diventa l’organizzatore sociale che facilita l’assunzione di buoni comportamenti, espressione di un Ideale dell’Io ipertrofico. Si veda a tal proposito anche “L’ambiguità come marker culturale” in https://www.dallastessaparte.it/interlocuzione-allordine-2/.

[20] Ecco alcuni obiettivi dell’Agenda 2030: raggiungere la sicurezza alimentare e promuovere l’agricoltura sostenibile, garantire una vita sana, raggiungere l’uguaglianza di genere, garantire l’accesso all’energia a prezzo accessibile, affidabile e sostenibile, promuovere una crescita economica duratura inclusiva e sostenibile, costruire un’infrastruttura resiliente, ridurre le disuguaglianze, rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, resilienti e sicuri, garantire modelli di consumo e produzione sostenibile, promuovere società pacifiche e inclusive orientate allo sviluppo sostenibile, adottare misure urgenti per combattere i cambiamenti climatici, conservare e utilizzare in modo sostenibile gli oceani e i mari.

[21] I criteri in questione sono: la  presenza di donne, attori provenienti da etnie scarsamente rappresentate, espondenti LGBTQ+, persone con disabilità.

[22] Si veda la ferocia delle leggi etico/morali degli ultimi due anni, passate come leggi contro i cosiddetti no-vax. O ancora pensiamo alle multe che minacciano chi non mette a norma il proprio camino, o non regoli il termostato alla temperatura stabilita per legge.

[23] Parlando della rabbia come sentimento negativo, si fa in modo che venga percepita come Male.

[24] Questo mito era molto diffuso durante gli anni ’70 come euristica per spiegare la tossicodipendenza: i ragazzi che cadevano “nel tunnel della droga” mancavano di valori solidi e la “cura” coincideva con la “cura dei valori”. Alcune delle prime comunità terapeutiche (pensiamo a San Patrignano) avevano una chiara impostazione educativa e di rigenerazione del giovane attraverso l’acquisizione di valori positivi.

[25] Proprio a partire da questa considerazione, all’interno dell’associazione #dallastessaparte siamo impegnati a costruire un metodo che renda l’etica qualcosa di vivo e concreto. Rivitalizzata nella dimensione interpersonale, l’etica rimane vincolata al senso delle relazioni e dei processi che si sviluppano all’interno dei gruppi di lavoro. Una dimensione etica, la nostra, che vuole reincludere una riflessione sulle relazioni di potere e su come queste influiscano e determinino i “contenitori” che abitiamo. Una pratica corale in cui centro e margine si parlano e provano a evolvere insieme nel rispetto di ciò che si è, contenendo le spinte a volere cambiare l’Altro.

[26] Per una rilettura del concetto di resilienza e la sua relazione con i processi di adattamento si rimanda alla Tavola Rotonda in https://www.dallastessaparte.it/resilienza-adattamento-o-resistenza/.

[27] I temi di interesse – oltre a quelli dell’infanzia e dell’adolescenza, della parità di genere e la riduzione delle diseguaglianze e delle discriminazioni – sono le nuove forme di lavoro work life balance e il rapporto tra sostenibilità ambientale, spazi urbani e benessere psicologico. Un esempio può aiutarci a focalizzare ciò di cui sto parlando: la Psicologia si vuole porre come interlocutore indispensabile nella progettazione degli spazi urbani. Bene, chi stabilisce che l’urbanizzazione sia l’insediamento umano da garantire in termini di benessere e qualità della vita? E anche una volta definito ciò, chi definisce l’abitabilità stessa degli spazi urbani? lo Stato? l’economia? la politica? e in base a quali standard? O, al contrario, non sarebbe più importante e prioritario ridare potere alle persone per ridefinire quale insediamento possa essere utile per una qualità della vita “buona”? O, ancora, pensiamo alla “banale” cartella dei nostri bambini. Gli esperti hanno valutato che la schiena dei bambini può sopportare il 10-15% rispetto al loro peso totale. Ma è davvero necessaria una buona educazione alla salute che insegni ai nostri bambini a portare un tal carico sulla propria schiena senza comprometterne in futuro la funzionalità? Pensare una gestione diversa dei compiti e dei libri da portare a scuola è fuori discussione.

[28] La sostenibilità diventa sinonimo di stabilità globale e di benessere sociale.

[29] Diventare Enti Sussidiari dello Stato significa sostenere le politiche governative, e farle rispettare e comprendere.

[30] Nel “Position Statement sui comportamenti antiscientifici e/o contrari all’obbligo vaccinale dei Professionisti Sanitari e sociosanitari rispetto alla pandemia da SARS-CoV-2 atto a chiarire il tema delle violazioni deontologiche da parte degli iscritti e configurate da comportamenti manifestamente antiscientifici, rispetto alla pandemia da SARS-CoV-2 ed al ruolo dei vaccini antivirali, quale patrimonio culturale e valoriale condiviso”, la vaccinazione è definita valore e bene comune. A partire da questa unica premessa discende un impianto tecnico-procedurale che ha portato alla condanna deontologica dei professionisti non vaccinati. Nel documento, il consenso informato assume una veste inedita. Gli Ordini, in particolare quello degli Psicologi, hanno invitato i professionisti a sensibilizzare i soggetti non vaccinati: l’obiettivo era vincere le resistenze alla vaccinazione. Tutto questo, lo ricordiamo, è avvenuto senza mai avviare o permettere una riflessione collettiva volta a comprendere il senso e le conseguenze di certe politiche securitarie. La vaccinazione, assunta a valore, è diventata espressione di un comportamento virtuoso per la salvaguardia della propria salute e del Bene Collettivo (poco importa se in molti avessero un’idea diversa). Così il legittimo rifiuto alla vaccinazione, ovvero il rifiuto ad apporre la propria firma sul consenso informato, è diventato “esitazione vaccinale” che doveva essere trattata dagli psicologi. Chi non dava il proprio consenso doveva essere aiutato a superare i blocchi del tutto irrazionali, chi non accettava la somministrazione del vaccino testimoniava la propria noncuranza nei confronti della salute pubblica e un cattivo esempio morale (come nel caso degli insegnanti reintegrati lasciati fuori dalle proprie classi). Gli psicologi, esperti di funzionamento umano, avrebbero dovuto supportare la persona a vincere le proprie resistenze personali, facilitando così il processo di accettazione delle cure – così come definite dal bene Comune. Una trama perfetta per un film distopico. Una logica molto pericolosa, che porta a domandarci a quale idea di Psicologia stiamo ammiccando.

[31] Per Elias (1990) questa può essere intesa come una società che disegna forme anonime, omologate di stare nel mondo. Questa forma di società amplifica la sensazione di sentirsi schiacciato da forze di cui non si conosce né il senso né la natura. Siamo di fronte a un’organizzazione sociale che non permette la formazione di Soggetti, ovvero di persone capaci di prendere posizioni, di parlare a titolo personale, seppur riconoscendone l’arbitrarietà.

[32] La parola resilienza, per altro, è stata centrale soprattutto durante la gestione delle politiche di contenimento della diffusione della COVID-19: i bambini, dotati naturalmente di resilienza, sarebbero riusciti ad adattarsi facilmente alla nuova normalità; gli adulti avrebbero meglio usufruito del sostegno psicologico volto a promuovere la resilienza. Come categoria professionale avremmo potuto dire di più “dalla parte dei bambini”, avremmo dovuto chiedere politiche più a misura dello sviluppo e volta alla tutela dei legami significativi: familiari, amicali. Invece l’obiettivo sanitario ha messo in secondo piano i bisogni dei nostri bambini, anzi gli abbiamo chiesto di non essere egoisti. Oggi stiamo iniziando a contare i morti e i feriti dei lockdown e dell’uso protratto delle mascherine sullo sviluppo dei bambini e degli adolescenti. E continuiamo a vederlo come l’inevitabile effetto collaterale.

[33] La differenza, al contrario della diversità, secondo Cigoli e Scabini (2013) permette di accedere all’ordine simbolico che consente di pensare l’Altro come non riducibile a se stesso.