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Resilienza: adattamento o resistenza?

Tavola Rotonda

In occasione della Giornata Nazionale della Psicologia del 10 ottobre 2022, promossa dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, e dedicata a “i percorsi della resilienza”, i rappresentanti nazionali della nostra categoria hanno indicato nello sviluppo della resilienza uno dei fattori principali per promuovere e costruire la salute mentale e la qualità della vita.
La resilienza per lo più è interpretata come una capacità che consente agli esseri umani di avere e di mantenere atteggiamenti e comportamenti efficaci per lo sviluppo di equilibri adattivi positivi.
Promuovere resilienza permette anche di tutelare una buona performance collettiva, a garanzia della tenuta del sistema sociale in cui viviamo.

Con l’intenzione di restituire al termine “resilienza” un significato non banale, all’interno dei nostri incontri del lunedì, abbiamo deciso di approfondire il tema, in relazione alla promozione e sostegno dello sviluppo individuale e del Paese.

Gli incontri sono sempre una piacevole occasione per animare un dibattito a volte acceso e sempre interessante. Ciascuno di noi mette a disposizione le proprie conoscenze e ne deriva un autentico arricchimento per tutti. 

Poiché attorno al concetto di “resilienza” si condensano molti dei significanti del mondo contemporaneo, abbiamo chiesto un approfondimento a tre colleghi: Tiziana Compagno, Vincenzo Rubino e Gabriella Scaduto.

È venuto fuori un commento corale, acuto e interessante, grazie al quale possiamo inaugurare oggi il format delle tavole rotonde.
Il confronto ha messo in luce un accezione forse poco comune del termine e il suo legame con il concetto di “resistenza”.

Buona lettura!

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Gabriella Scaduto: per me la vita è un continuo divenire, è evoluzione pura. Scorre come la corrente di un fiume e ci pone davanti a molteplici variabili in un continuo processo di adattamento.
La vita dunque ci mette sempre alla prova, e ciascuno di noi deve poter avere la possibilità di superare tali prove per dire a se stesso che è vivo, c’è.
Essere vivi significa adattarsi continuamente… a cosa? Agli svariati eventi che si susseguono, ai vari compiti evolutivi, ai diversi ruoli che assumiamo e che la società di cui facciamo parte ci affida, e persino alle relazioni che intraprendiamo.

Ma adattarci comporta anche saper affrontare e superare gli ostacoli che la nostra esistenza ci pone, come possono esserlo i forti cambiamenti (lutti, crisi, relazioni importanti che si chiudono, ecc.). Migliore è la capacità nell’adattarsi ai vari eventi, maggiori saranno state le risorse di cui ognuno si sarà avvalso per creare nuovi e continui equilibri, e dunque più resilienti saremo stati.

In fondo, si potrebbe dire che l’essere umano è metaforicamente un po’ come il circense che cammina sospeso in alto su un filo con un’asta tra le mani, sempre pronto, passo dopo passo, ad avanzare in una combinazione di forze interne (il nostro senso di equilibrio) ed esterne (la corda tentennante su cui camminiamo e l’asta che reggiamo).

Tiziana Compagno: la parola “resilienza” incita a reagire, a rispondere ad un colpo percepito pesante oltre misura, ma intanto dice che il dolore, in fondo, dipende da noi, dalla nostra volontà, il che non è vero o lo è solo in parte.
La parola “resilienza” nega alla radice, cioè, che ci sia permesso soffrire e abbattersi per il male del mondo. Se soffri, sei debole e non meriti rispetto dunque.

Oggi la resilienza è divenuta una tra le competenze trasversali più ricercate, e in un momento storico come quello che stiamo vivendo, può essere potenziata da ognuno di noi, soprattutto quando siamo motivati da circostanze particolari.

In origine erano definiti “resilienti” quei metalli che, se venivano sottoposti a una forza, si piegavano senza rompersi. Da qui alla psicologia il passo è breve: gli psicologi del XX secolo, alle prese con i traumi e la fragilità umana, hanno adottato e usato il termine resilienza per indicare la capacità di fronteggiare le difficoltà senza spezzarsi: “calati iuncu ca passa ’a china”.

Gabriella Scaduto: l’uomo è resiliente per natura: si piega, ma difficilmente si spezza. Essere resilienti ci consente di scegliere di non star fermi e restare inermi, passivi, bensì di compiere quell’opportuno sforzo che ci consentirà di giungere a un nuovo e più funzionale equilibrio.

Scegliere di non scegliere, altresì, ci renderà dei disadattati e ci condannerà ad una vita vuota, sempre in superficie.

Tiziana Compagno: “resilienza”, del resto, è la capacità di non farsi spezzare nella struttura interna, ma concedersi di farsi piegare da un ostacolo, trovando la forza e la volontà di andare avanti. Come per i materiali antisismici che consentono di fronteggiare un terremoto, oscillando, anche impetuosamente, senza crollare, lo stesso capita alla mente umana quando reagisce con resilienza: ci si piega al dolore, ma non ci si spezza.

Nonostante il trauma, generalmente si attinge al proprio bagaglio di energie interiori, a volte anche inconsapevolmente, per superare le avversità. Un individuo resiliente ha imparato ad attingere dal baule delle proprie risorse emotive, tirandole fuori al momento opportuno, proprio come dal cilindro di un mago, un coniglietto.

Secondo la psicologia, è possibile allenare la propria resilienza con l’esperienza.

Gabriella Scaduto: l’adattamento richiede un cambiamento riguardante non solo la nostra condotta, ma anche e soprattutto la creazione di nuovi processi di pensiero, nonché l’attivazione e la conoscenza delle nostre emozioni in quel dato momento in cui viviamo il cambiamento.

La consapevolezza di chi siamo, infatti, ci dona quelle energie indispensabili affinché si possa affrontare un accomodamento alle varie situazioni: se conosciamo i nostri punti di forza, oltre che le nostre aree di fragilità, potremo comprendere quali strategie mettere in atto senza uscire malconci da eventi critici o inaspettati.

Vincenzo Rubino: gli ultimi due anni hanno rappresentato per l’Occidente un cambiamento radicale rispetto alle norme etiche e sociali alle quali eravamo abituati. La pandemia infatti ha rimescolato le carte e ha messo in discussione alcuni concetti chiave che sembravano ormai assodati, in particolare modo nel nostro continente. 

Parole come socialità, democrazia e libera espressione del proprio potenziale individuale sono state ampiamente messe in discussione dallo stato emergenziale e dalle scelte politiche.

Uno dei concetti più usati e suggeriti anche e soprattutto a livello mediatico è stato quello di resilienza, che spesso è stato raccontato come la capacità di adattarsi alla situazione emergenziale, accettando in modo per certi versi passivo lo scorrere delle situazioni spiacevoli con la convinzione che da sole queste passeranno.

La resilienza è sicuramente un meccanismo adattivo fondamentale in talune situazioni di crisi davanti alle quali la vita ci pone, soprattutto nella misura in cui non ci sono altre possibilità di azione o di reazione. Lo è per esempio per i bambini che vivono in situazioni maltrattanti o abusanti, proprio perché adattarsi per non “frammentarsi” è l’unica scelta.

Probabilmente nella prima fase dell’emergenza, quando non conoscevamo con cosa ci stessimo confrontando, i resilienti ne sono usciti bene proprio perché bisognava limitare i danni e difendere la salute fisica in primis dal non conosciuto.
Ben presto è stato però chiaro che la strategia di restare in attesa che il vecchio mondo ritornasse non poteva funzionare, e si correva un duplice rischio: alimentare un atteggiamento non costruttivo, e restare in attesa di qualcosa che probabilmente non sarebbe arrivato.

Tiziana Compagno: quindi, che differenza c’è tra resilienza e rassegnazione? All’incirca quella che intercorre tra il reclamare e l’accontentarsi. La resilienza non è sopportazione di una situazione di sudditanza psicologica, oppure il tenere duro in condizioni di lavoro proibitive, come quelle in cui ci si può ritrovare, oggi. Altrimenti si parla di vera rassegnazione, senza nemmeno un lamento o un cenno di ribellione.

La “resilienza” è un concetto che va capito. Abbiamo quasi il dovere di farlo. Per impedire che si possa ritorcere contro, facendoci abbassare il capo, come sta succedendo attualmente.

Il protagonista del film Equilibrium del 2002 sostiene: “ricominceremo a toccare il mondo senza guanti, torneremo a guardare fuori dalla finestra, ci emozioneremo guardando la neve che cade sulla Tour Eiffel in una boccia di vetro… in una parola, ci ribelleremo piano piano al regime che ci siamo auto-imposti”.

“Ogni cambiamento è una minaccia alla stabilità”, scriveva Huxley nel suo più conosciuto romanzo, aggiungendo: “quando l’individuo sente, la comunità vacilla”.
Nell’opera, il raggiungimento di una stabilità collettiva può avvenire solo attraverso la perdita dell’individualità, ovvero dell’umanità di una persona che risiede nelle sue emozioni, nei sentimenti più intimi.

Nell’universo del Mondo Nuovo, la tecnologia ha permesso un’umanità altamente avanzata, libera da preoccupazioni, guerra e povertà, attraverso l’assunzione di un medicinale. Ci sono parole che vengono utilizzate a sproposito, diventando delle vere e proprie mode. Alcuni neanche ne conoscono il significato, ma le utilizzano lo stesso seguendo le ondate.

I social hanno evidenziato ancor di più questa tendenza. E nel 2020 è il caso del termine “resilienza” che compare ovunque, anche a causa della pandemia. Ma il suo continuo utilizzo, anche in contesti che non lo richiedevano, ne ha svilito il significato.

Tutto è resilienza: lo è stato l’atteggiamento degli italiani in risposta alle difficoltà provocate dalla pandemia (ce la faremo, andrà tutto bene, quante volte ce lo siamo sentiti ripetere e ce lo siamo ripetuti in testa per accettare quanto ci stava travolgendo) e ai rigidi protocolli che hanno cambiato la nostra quotidianità, con restrizioni e mascherine a cui non siamo mai stati abituati. Lo è stato il comportamento di quei medici e sanitari che hanno lavorato incessantemente per curare e ricevere tutte quelle persone in difficoltà a causa del virus, e che oggi rischiano la sospensione perché portano avanti ciò in cui credono, in nome dell’umano sentire. 

La parola “resilienza”, usata in tal modo, ci vieta di fallire e trasforma in colpa il nostro dolore. Una parola sola che però può avere mille significati, usata a sproposito. Ma che può diventare, grazie al suo vero significato, un’arma utile in una società che pretende sempre più da noi.

Se la resilienza è la capacità del sistema di assorbire il disturbo senza dar luogo a un cambiamento di regime (adattarsi senza trasformarsi), la sostenibilità è di fatto la conoscenza della natura e della capacità di gestire il sistema in relazione a tutto ciò. 

Si tratta di imparare a incanalare le correnti che ci interessano nelle infrastrutture che ci sono necessarie.

Gabriella Scaduto: ciò richiede una visione introspettiva, ovvero una panoramica del nostro mondo interno composto da quel bagaglio di esperienze (la nostra storia) che ci rende unici al mondo, unito alle emozioni che stiamo sperimentando e che possono fungere da “motore propulsore” nel nostro processo di adattamento.

È un dovere verso noi stessi sviluppare e possedere un pensiero critico verso quel che ci circonda, perché solo così possiamo essere resilienti rispetto a ciò che minaccia il nostro equilibrio interiore dinnanzi ai cambiamenti.

Tiziana Compagno: pensare resiliente per me è pensare sistemico: il dominio umano e quello biofisico sono interdipendenti. La resilienza rappresenta prima di tutto il contrario della fragilità, ciò che è resiliente si piega ma non si spezza, ed è in grado di ritornare alla posizione iniziale. Il resiliente nasce dalle proprie ceneri uguale a prima.

Nell’ambito della psicopatologia, la resilienza è considerata come la capacità di evolvere anche in presenza di fattori di rischio. La descrizione del processo di resilienza parte dallo stato di “omeostasi bio-psico-spirituale”, ovvero l’adattamento della mente, del corpo e dello spirito alle proprie condizioni di vita, siano esse buone o cattive. Questo stato è una sorta di “spazio confortevole” al quale tendiamo a rimanere attaccati.

Mi viene in mente uno dei brani più famosi dei Pink Floid: Comfortably Numb. Nel testo Rogers Waters ci avverte del potere seduttivo che può avere la promessa di una posizione comoda quando non si sente più la capacità di potersi gestire da solo. In questo brano l’artista fa una precisa descrizione, denunciando una realtà mistificata, capace di schiacciare le volontà dell’individuo, annullando la stessa risonanza personale. Il sacrificio di sé, così inteso, è la descrizione di un individuo ben irregimentato.

La canzone racconta quanto avvenuto in occasione di un concerto: prima di andare sul palco, il medico gli aveva dato un sedativo così forte che ebbe delle grandi difficoltà a concludere. E il cantante racconta: “sono state le due ore più lunghe della mia vita. Stavo cercando di mandare avanti lo show ma riuscivo a malapena a sollevare il braccio”.

L’immagine del pubblico che canta sotto il palco mentre il cantante vive ore di difficoltà ci rimanda la sensazione di incomunicabilità e di distanza vissuta in quel momento.
Il pubblico non si accorge di nulla, lo vuole sul pezzo performante, non può cogliere l’effetto che sta facendo quel medicinale, ma vede solo che lui è all’altezza dell’evento e sta dando loro quanto richiesto.

Il testo della canzone di Roger Waters recita:

There is no pain, you are receding
A distant ships smoke on the horizon
You are only coming through in waves
Your lips move but I can’t hear what you’re sayin’
*
Non c’è dolore, vi state allontanando
Una nave lontana che fuma all’orizzonte
Arrivate solo a ondate
Le vostre labbra si muovono ma non sento cosa state dicendo

Che l’altro ci ascolti e ci comprenda è un bisogno importante per l’individuo; così il dolore, poterlo sentire senza fuggirlo, diventa forse l’esperienza più umana e imprescindibile che un individuo si può concedere.

Il dolore, quindi, come strumento evolutivo con il suo potere trasformativo.

Fuggire dai problemi, dalle difficoltà, dai malanni pensando che con l’aiuto di una “punturina” ottengo l’effetto magico di una risoluzione. Il vaccino risolve e poi, eventualmente, si pensa alle conseguenze future. Intanto non sento più l’ansia e il timore di soffrire e morire.

Nel ritorno allo stato di omeostasi iniziale viene persa l’opportunità di crescere, e ci si limita ad affrontare e superare il momento attuale di disequilibrio per poi ritornare alla stato di partenza, senza che ci sia stato il rafforzamento della propria capacità di coping e delle qualità resilienti.

Ciò che viene a mancare è il momento di riflessione e introspezione, che viene saltato a favore di una ricerca immediata di soluzioni pratiche al problema.

Nel significato di resilienza si nasconde un imperativo morale vischioso: il tentativo radicale e ideologico di negare la possibilità stessa del male, e di addossare a ognuno la responsabilità di reagire trasformandolo in bene.

Il problema con la resilienza è che la regola la fa chi ce la fa, non chi soccombe. La fanno i forti, non i deboli.

Vincenzo Rubino: al concetto di resilienza dobbiamo accostare quello di “resistenza”, termine che rimanda non solo a rimanere in piedi mentre le onde ci travolgono, ma anche a un processo attivo e agito, nel quale chi resiste ha chiaro che si possono fare tante cose, non solo per sopravvivere ma per vivere e cambiare il contesto sociale nel quale ci troviamo. 

Questo atteggiamento resistente (ricordiamo che in fisica la resistenza è proprio la capacità dei corpi di opporsi al passaggio della corrente), se compreso e sposato, può portarci a crescere nella crisi, trasformando i sentimenti negativi in movimenti costruttivi.

Non è un caso che in questi due anni siano nati movimenti, associazioni, gruppi culturali composti da individui che altrimenti avrebbero faticato a stare insieme, e che credo abbiano come denominatore comune non tanto l’idea di tornare al vecchio mondo con le vecchie regole, ma aspirino piuttosto a creare un mondo nuovo con nuove regole e un nuovo patto sociale; parliamo di medici, avvocati, psicologi e in generale cittadini che hanno avuto il coraggio di guardarsi “verticalmente dentro” e comprendere di avere la possibilità di fare qualcosa per risalire la corrente, di sostituire la frase deresponsabilizzante “andrà tutto bene” con l’idea che bene potrà andare solo se ognuno si prenderà in carico il proprio pezzettino di resistenza e di responsabilità.