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Politiche professionali

La revisione del Codice Deontologico: una riflessione critica

La proposta di revisione del nostro Codice Deontologico, approvata dal Consiglio Nazionale dell’Ordine ad aprile di quest’anno e resa pubblica il 21 del mese di giugno, si trova adesso prossima al giudizio referendario, che avrà luogo dal 21 al 25 settembre 2023, con modalità di voto online.

La nostra collega e socia Roberta Campo, con la passione e la raffinata capacità di analisi che le sono proprie, ci offre alcune riflessioni maturate in questi mesi estivi sulla proposta di revisione. Si addentra nell’architettura dell’impianto della proposta deontologica, ci restituisce la cornice di contesto entro cui si sviluppa, ne chiarisce la struttura, individuandone i pilastri portanti e segnalandoci anche alcune assi pericolanti.

La comunità degli psicologi italiani è chiamata al referendario e dicotomico esprimersi per un sì o per un no su questioni davvero ampie, che richiedono un grande tempo di elaborazione e un dibattito congruo, per le conseguenze che hanno sul ruolo e sull’agire professionali.

Ed è a tal fine che vi invitiamo calorosamente, dunque, a leggere e studiare insieme a noi la proposta di revisione attraverso l’articolo di Roberta, a condividere con noi le vostre riflessioni.

E a partecipare al convegno che stiamo organizzando per sabato 16 settembre a Palermo, sul quale daremo presto tutti i dettagli.

Il 28 Aprile del 2023 con deliberazione n. 14 il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) approva all’unanimità la proposta di revisione del “Codice Deontologico delle psicologhe e degli psicologi”.

Il passaggio successivo, così come istituito dalla legge 56/89, sarà il giudizio referendario, previsto per metà settembre. Se dovesse essere approvata, la proposta entrerebbe in vigore e sarà vincolante per tutti gli iscritti agli Ordini e sarà la base a partire dalla quale avverranno tutte le successive modifiche.  

Prima di entrare nel merito della revisione del Codice Deontologico mi sembra opportuno fare alcune premesse che possono aiutarmi a inquadrare lo specifico taglio di lettura attraverso cui ho analizzato alcune delle attuali proposte di modifica. È chiaro che non debbano necessariamente essere condivise, o condivise in toto: credo piuttosto che possano servire per avviare futuri dibattiti rispetto al dove vogliamo andare come psicologi.

L’articolo non vuole essere esaustivo di tutte le revisioni intervenute sul codice, ma si propone come una riflessione in merito a quei cambiamenti di carattere etico/deontologico che vanno verso una progressiva professionalizzazione e sanitarizzazione. Di questo processo dovremmo essere ben consapevoli, perché sta cambiando dall’interno la nostra pratica professionale.

Il Codice Deontologico fa parte di quella disciplina giuridica che si chiama diritto disciplinare e in virtù di questa specificità occupa una precisa posizione nella gerarchia delle fonti del diritto (e a quelle si deve potere ispirare).

Il codice, quindi, non è solo una bussola per la “migliore regola deontologica”, ma è prima di tutto un “dovere, declinato in termini giuridici, per consentire l’applicazione di un’espressa sanzione in caso di violazione” (Parmentola, 2018, p. 39), “costringendo” il professionista al rispetto della norma ivi prescritta.

Perché la revisione del Codice deontologico?

La revisione del Codice Deontologico è un atto dovuto dal CNOP, così come definito dal legislatore con la legge 56/89. L’attuale revisione, quindi, non è un fatto straordinario, ma un compito specifico: la legge prevede che ogni nuovo consiglio dell’Ordine possa monitorare l’eventuale necessità di aggiornamenti nel Codice per intervenuti cambiamenti legislativi, normativi e scientifici, o per un diverso sentire comune all’interno della comunità professionale.

Probabilmente sarebbe stato auspicabile un coinvolgimento maggiore della comunità di colleghi ma, dal mio punto di vista, il “prodotto” finale sarebbe cambiato poco: la revisione è stata presentata come un puro atto tecnico, “formale” e neutro, di adeguamento all’ordinamento giuridico. 

Se, però, è un atto dovuto revisionare il codice, altrettanto dovuta sarebbe stata una riflessione a vertice epistemologico su come l’ordinamento giuridico, la tecnologia e la cultura della cura possano di volta in volta “cambiare” e trasformare gli oggetti e i soggetti della psicologia (Parmentola, 2023). Sarebbe stato quantomeno opportuno avviare un pensiero su come i cambiamenti normativi, culturali e tecnologici stanno “ri-ordinando” il nostro modo di fare comunità, e comunità professionale. 

Non posso fare a meno di notare il “silenzio” generale, l’assenza di dibattito all’interno dei nostri Ordini regionali a fronte di un evento così importante come la revisione di un Codice Deontologico.

Il rispetto formale delle “regole del gioco” può, da sé, garantire la bontà di questa revisione del Codice?

Il rispetto delle “regole” può essere visto, a mio avviso, come una sorta di “peccato originale” che attraversa l’intero articolato: questa revisione sembra essere, infatti, figlia di quella cultura legalista (fatta di consensi informati, di protocolli e di buone prassi) che vede nei regolamenti, sovradeterminati e nel rispetto delle regole, la garanzia etica al principio di legittimità.

Così, fare le cose “da regolamento” (secondo la legge), seguire i vari protocolli stilati dal CNOP nei diversi ambiti (uno per tutti il protocollo MIUR-CNOP), adeguarsi alle buone prassi, considerare solo la medicina evidence-based, fa dello psicologo non solo una brava persona ma anche un buon professionista.

Ma la legalità, ed è questo il punto su cui proverò a concentrarmi nel corso di questo lavoro, può davvero sostituire la riflessione sul principio di legittimità di qualcosa?

Il primo cambiamento riguarda l’adeguamento, tecnicamente corretto, al linguaggio di genere. Abbiamo così “Il Codice Deontologico delle psicologhe e degli psicologi” e la sostituzione del termine soggetto con il più neutro e adattabile termine di “persona”.
La revisione adegua il lessico anche alla legge sulla responsabilità genitoriale (D.Lgs. 154/2013) e introduce l’attenzione all’ambiente come vincolo etico.

Le revisioni più significative, però, riguardano l’adeguamento del codice alla logica sanitaria così come previsto delle leggi 219/17 sul consenso informato e 3/18 sul riordino delle professioni sanitarie. Leggi che si sostengono a vicenda e animano il nuovo ethos professionale sanitario fondato sulla sussidiarietà e sulla salute come tema universale (Lazzari, 2022)).

Da una prima lettura sembrerebbe che il senso generale dell’articolato rimanga più o meno inalterato; una lettura più attenta ci consegna, al contrario, una deontologia che sagoma il nuovo ruolo professionale dello psicologo all’interno del più complessivo Sistema Salute (Sala, 2009; Campo, 2022b).

Intendo per Sistema Salute quell’insieme di organizzazioni, istituzioni, risorse, persone e procedure necessarie ad assicurare e fornire servizi per il mantenimento e per la tutela della salute della popolazione. Il “prodotto” offerto da questi servizi (la salute) deve garantire degli specifici standard che possano consentire, tra le altre cose, il controllo di qualità. 

Le leggi 219/17 e la 3/18 avrebbero la funzione di garantire una maggiore tenuta del Sistema Salute (fatto di soglie di accesso, di giustizia distributiva, di esigibilità del diritto alla salute).
Il cambiamento del codice deontologico è ciò che permette di mettere a terra il processo immaginato nelle sedi deputate (Europa, Governo, vari Summit…), e deve potersi tradurre in comportamenti concreti che permettono di cambiare nella direzione in cui si desidera che si cambi, altrimenti l’operazione rischia di rimanere monca (Lorenzin, 2021). 

È innegabile l’importanza di una rete sanitaria per la salute della popolazione, ma sarebbe anche importante chiederci se la direzione verso la quale ci si sta chiedendo di andare implichi davvero un miglioramento nella tutela dell’utenza, dei professionisti e della comunità stessa.

Se da un lato è vero che non possiamo ignorare le leggi dello Stato né come cittadini né come professionisti, dall’altro è altrettanto vero che dovremmo continuare a mantenere uno sguardo critico sulle cose.

Un aspetto della psicologia, non tutta a dir la verità, con cui sono sempre stata a mio agio è il suo voler mantenere uno sguardo “non politicamente corretto” sulle cose, andando a guardare tra le pieghe dei processi.

Professioni, utilità e responsabilità sociale

La psicologia come professione ha un’origine relativamente recente: è la legge 56/89 a istituire per la prima volta gli Ordini a livello nazionale e regionale. 

La storia della nascita della psicologia come professione si accompagna a un cambiamento più generale nella sensibilità politica del tempo, in merito ai temi di “pertinenza” psicologica e di salute. 

La nascita degli Ordini è stata accolta da molti protagonisti e testimoni come una vittoria in quanto ciò avrebbe consentito un maggiore monopolio e una sistematizzazione delle conoscenze, dei metodi e delle tecniche psicologiche, di conseguenza, uno sviluppo più rapido e ordinato della professione.

Il Codice Deontologico divenne lo strumento principale per sagomare l’identità del professionista ideale (Calvi, 2020) da presentare alla società. 

L’ordine professionale è un Ente Pubblico che deve poter perseguire (e far perseguire ai professionisti) l’interesse pubblico: lo Stato delega in parte le proprie funzioni e per tale motivo esercita un controllo su come queste vengono rappresentate. Da parte sua, lo Stato si impegna a predisporre e mantenere strutture sociali di presa in carico e/o di prevenzione dei comportamenti a rischio, organizza e finanzia campagne di sensibilizzazione e di promozione di valori e di quei comportamenti utili alla stabilità sociale ed economica del Paese.

Riconoscere il valore sociale della tutela e del mantenimento della salute mentale tra la popolazione fa sì che sempre più la salute psicologica si qualifichi come questione pubblica, non più privata.

I nostri Ordini si assunsero fin da subito questo obiettivo tanto che nel nostro Codice Deontologico è ben espresso il concetto di responsabilità sociale dello psicologo. 

Gli anni a cavallo della nascita degli Ordini erano anni difficili; non si era ancora pienamente usciti dalla minaccia del terrorismo nostrano e le strade erano ancora macchiate dalla violenza mafiosa: lo psicologo poteva rivestire un ruolo determinante in quanto esperto delle interconnessioni tra salute psicologica e fatti sociali. Di fatto, l’expertise professionale poteva concorrere alla ripresa di un Paese in difficoltà, e al suo sviluppo morale, sociale ed economico. 

Proprio con la finalità pubblicistica dell’Ordine, però, si introduce un’asimmetria tra chi richiede un intervento e il professionista; vi è sicuramente la responsabilità del professionista all’interno della relazione, ma vi è anche una responsabilità davanti alla comunità politica e sociale.

Vediamo che significa.

Con la professionalizzazione del lavoro psicologico si è introdotto un terzo nella relazione clinica (Sala, op. cit.): il professionista inizia ad avere un committente non immediatamente visibile e a cui bisogna dare una risposta.

Sottratta all’ambito privatistico, la salute diventa qualcosa che può essere gestita solo grazie alla presenza di un professionista che di salute se ne intenda e che si faccia interprete di un lavoro che abbia finalità “civiche”.

Secondo D’Elia la funzione sociale dello psicologo si realizza ogni qualvolta riusciamo ad andare oltre al mandato privatistico con il cliente; significa sentire di ricevere una committenza, ogni volta che incontriamo qualcuno, “dalla società e dal disagio condiviso socialmente” (D’Elia, 2019). Questo è ciò che impedisce alla relazione professionale di essere un semplice incontro tra persone impegnate nel “prendersi cura della relazione”, e che permette allo psicologo di diventare interprete – all’interno del setting – della componente sociale.

Anche il professionista che lavori in ambito privato dovrebbe riuscire a mettere al centro il proprio mandato pubblico e sociale: la responsabilità sociale è quell’orientamento valoriale che fa sentire l’importanza del proprio contributo alla società, e che si dovrebbe qualificare nel motivare le persone a mettere in atto comportamenti civici e di alto spessore morale per il bene comune.

Detto altrimenti, con l’introduzione della finalità pubblicistica, il professionista ha iniziato a rintracciare obiettivi di lavoro che sono al di fuori della relazione con il paziente e che si configurano come aspetti morali che entrano nella relazione.

Perché, altrimenti, uno psicologo dovrebbe interessarsi a priori (cioè al di fuori della relazione) del fatto che un paziente non creda nell’emergenza climatica? Perché questa convinzione dovrebbe diventare oggetto di chi si occupa di salute mentale? Solo sulla base della propria responsabilità nei confronti della società: l’assunto sociale è che chi non crede nell’emergenza climatica sicuramente mette in atto comportamenti non civici, al limite della devianza, che denotano un cattivo funzionamento mentale.

Credo che – in quanto psicologi – sia importante poter questionare con la persona che abbiamo davanti, il proprio “non credere nell’emergenza climatica” (qualsiasi comunicazione ha valore nella relazione), ma credo anche che dobbiamo stare molto attenti a non considerare problemi di “salute mentale” alcune posizioni non conformi a livello sociale. Restituire alla persona il senso di un comportamento, o il senso di una certa comunicazione all’interno della relazione è molto diverso dal “trattare” o educare la persona al corretto comportamento civico.

Nessun professionista, oggi, potrebbe mai pensare che la relazione clinica si dispieghi in un vuoto sociale, ma diventare interpreti in questo modo della componente sociale sta portando a far diventare la nostra professione uno strumento di attivismo politico.

Il rischio insito nella funzione pubblicistica della professione introduce un nuovo rapporto di forze e di potere tra chi “cura” e chi “viene curato”; un rapporto che vede il primo favorito in quanto un soggetto terzo – lo Stato – interviene nella relazione e nella definizione stessa dell’oggetto di lavoro.

Nonostante da più parti venga sottolineata la funzione di responsabilità sociale, i professionisti hanno fatto fatica a uscire dall’ambito privato. La motivazione è stata rintracciata nell’insufficiente collocazione pubblica della professione.

L’attuale riforma sulle professioni sanitarie vuole, così, valorizzare proprio questa funzione sociale dei professionisti della salute, e quindi anche dello psicologo, potenziando e ridefinendo la collocazione pubblica delle professioni sanitarie. 

La recente legge 3/18, che riconosce agli Ordini la funzione sussidiaria dello Stato, tende a sagomare in maniera ancora più netta la figura di un professionista a tutela dell’ordine pubblico, del mantenimento del PIL e della tenuta stessa delle politiche governative (Lazzari, 2022). 

Averci istituito della funzione di Enti Sussidiari significa diventare garanti di un Bene definito a livello statale e aumentare in maniera ancora più significativa l’asimmetria nelle relazioni di “cura”.

Questo cambiamento normativo trova il proprio fondamento all’interno di una visione politico-economica che definisce la salute come Bene Meritorio.

I “beni meritori” sono una tipologia molto particolare di Bene che viene definito e amministrato dallo Stato. Esso si fa interprete della tutela della Salute, e in quanto tale ha il potere di regolamentare i comportamenti che ritiene indispensabili a tutela della popolazione (pensiamo al ruolo delle leggi che istituiscono fondi di finanziamento per specifici programmi di intervento o di promozione).

In questa accezione, non è importante che la popolazione senta l’importanza, il valore o il bisogno di un intervento. Lo Stato sa meglio dei propri cittadini cosa sia meglio per loro, in un’ottica paternalistica.

Lo Stato, grazie a una consulenza tecnico-scientifica, riesce a mappare i “bisogni di salute” e si intesta il compito di soddisfarli, a prescindere dal fatto che le persone sentano la necessità di quel bisogno specifico. Ciò che fa discrimine non è che la popolazione avverta in qualche modo quel bisogno, ma la valutazione politica del beneficio che se ne può trarre. È possibile così imporre una vaccinazione di massa per la tutela della salute, così come proibire un determinato comportamento (come il fumo nei luoghi pubblici). I cittadini e la popolazione possono non sentire né l’urgenza né l’importanza di un bene meritorio ma tutti devono provvedere al mantenimento di quel bene.

L’epidemiologia, fatta di algoritmi espressi in fattori di rischio e fattori di protezione, permette ai tecnici della salute di comprendere e definire i “bisogni di salute” e i “bisogni di psicologia” della popolazione; di predisporre, conseguenzialmente, programmi di prevenzione e promozione: imparare a riconoscere questi bisogni è il primo passo per stare in salute. 

Parlare di Salute in questi termini comporta inevitabilmente uno sbilanciamento della “cura di sé” dalla persona al professionista, in quanto la persona non può sapere mai, se non quando una malattia si manifesta, se è sano oppure no, se è asintomatico oppure no. Solo il professionista, in possesso delle conoscenze scientifiche e tecniche può valutare e indirizzare la persona verso le scelte decisionali più opportune rispetto al proprio “bisogno di salute”.

La salute, ricorda Sala (op. cit.), rischia di diventare una dichiarazione medica e non un “sentire” della persona, un sentire dal quale si rimane inesorabilmente lontani. È sempre più lontano il tempo in cui la persona era una “esperta di sé”, seppur in difficoltà.

È chiaro che, in questo sbilanciamento di competenze (e di potere), il professionista ha una responsabilità enorme: da qui deriva la richiesta di una maggiore professionalizzazione nei confronti di chi lavora nel campo sanitario.
Il lavoro sulla professionalizzazione della formazione e del professionista è un punto cardine di questo sistema: i professionisti devono garantire un range di competenze omogenee e standardizzate (certificate), ma soprattutto basate sulle “evidenze scientifiche”. 

Se lo Stato si intesta in maniera così totalizzante la tutela della salute, prioritaria diventa la definizione di protocolli che possano “certificare” la correttezza “formale” delle procedure e dei protocolli. 

Purtroppo, a mio avviso, stiamo pagando il privilegio “professionale” con una progressiva perdita di autonomia e libertà da parte dello psicologo.

La cultura psicologica del “professionista sanitario”

Fino a qualche tempo fa per “sanitario” si intendeva un ambito di applicazione del professionista psicologo. Con “sanitario” oggi si intende un processo di professionalizzazione che in maniera inequivocabile comporta, come abbiamo visto, uno sbilanciamento del potere che i professionisti hanno nei confronti dei propri clienti

Alla progressiva normazione del lavoro psicologico descritto nel paragrafo precedente, ha fatto eco, in questi ultimi anni in particolare, una “cultura” psicologica che fa della Salute Psicologica un fatto specialistico e tecnico (Lazzari, 2023). Credo, tuttavia, che dovremmo continuare a riflettere sul potenziale effetto dis-abilitante della gestione professionale e specialistica della salute mentale (Sala, 2009; Illich, 1977; Campo, 2022b).

Promuovere la cultura psicologica significa di fatto educare la popolazione a riconoscere quei “bisogni psicologici” che sono alla base di una “buona cura di sé”, al servizio del proprio benessere personale.

Ritorna però una domanda: cosa sono questi “bisogni psicologici”? da chi vengono espressi? su quale base? in virtù di cosa? è possibile ancora riflettere su cosa si intenda per bisogni psicologici al di fuori della scienza epidemiologica?

A me sembra che questi “bisogni psicologici”, di cui lo psicologo si intesta il soddisfacimento, siano vincolati quasi esclusivamente a criteri di carattere tecnico-scientifico che permettono di inquadrare correttamente problema sociale nonché le procedure idonee a risolverlo: se il problema è una depressione post-partum, è sicuramente necessario individuare l’ambito di intervento elettivo per prevenirne l’insorgenza e definire le linee guida di intervento ritenute più efficaci.

La stessa psicoterapia sta prendendo la forma di un “bisogno psicologico” da soddisfare. Messi così, i bisogni psicologici si definiscono per un “problema pubblico” (come una depressione) da risolvere grazie all’intervento dello psicologo che si muove su base tecnico-scientifica.

Sono una psicoterapeuta e so bene quanto possa essere utile, a chi soffre per una depressione, trovare un sostegno e una relazione di cura, ma non ho mai pensato che l’intervento terapeutico sia l’unico modo per “gestire” una sofferenza di questo tipo. È chiaro, la psicoterapia è il modo elettivo per “gestire” un sintomo, ma non è l’unico. Spesso, ad esempio, si arriva alla psicoterapia quando tutto il resto è risultato non efficace. E forse è anche normale che sia così. È vasta, inoltre, la letteratura che si interroga su quei fattori aspecifici ed extraterapeutici che intervengono sulla “guarigione” (eventi fortuiti, remissione spontanea, supporto sociale, età) (Mandolino, Iossa Fasano, Cardamone, 2020; Fava, 2004;  Acharya, Agius, 2017) e la cui funzione rimane troppo spesso sottovalutata e ignorata da parte di noi professionisti.

Rendere la salute un fatto specialistico, significa dire che davanti a un momento difficile, una crisi, un lutto o qualsiasi altro evento doloroso, gli amici non bastano, né basta la famiglia, né l’ascolto attento ed empatico del prete di fiducia. L’intervento tecnico prende il posto di un sapere più antico e depositato all’interno delle relazioni significative, e la tempestività prende il posto dell’attesa (Campo, 2022b).

Così, lo psicologo non entra in campo quando si manifesta una difficoltà, quando “qualcosa non sta funzionando”, ma prima, per aiutare a riconoscere tempestivamente i segnali di una possibile cronicizzazione di una crisi. Basti pensare alle richieste di intervento da parte di quei genitori preoccupati che affidano a un consulente la gestione dello sviluppo (quasi sempre fisiologico in realtà) dei propri figli. Sempre più spesso la consulenza del professionista viene invocata per valutare se le modalità con cui si sta affrontando un problema siano quelle corrette. Come fa del resto una persona comune a comprendere se il modo in cui sta affrontando una perdita è quello giusto o se sfocerà in una grave depressione, se non grazie alla presenza di un professionista che lo aiuta a riconoscere i propri “bisogni psicologici”? 

Perfino gli studenti reclamano a gran voce la presenza dello psicologo scolastico non tanto per essere aiutati qualora si presentassero dei problemi, ma perché devono essere aiutati e supportati a imparare a prendersi cura di sé per stare bene. Come se ci fosse un manuale che possono acquistare per imparare a stare bene!?

Mi si potrebbe obiettare: ma abbiamo sempre lavorato così, qual è il problema? Altrimenti come potremmo mettere a punto qualsiasi programma di prevenzione?

L’affermare che lo abbiamo sempre fatto non implica sospendere una riflessione su cosa stiamo facendo e su come lo stiamo facendo. Abbiamo più di trent’anni di storia della professione alle spalle per poter iniziare a fare un bilancio dell’esperienza maturata in questo periodo.
Trent’anni sono un periodo abbastanza lungo per potere iniziare a fare il punto della situazione? e soprattutto per chiederci se siamo ancora disponibili ad andare verso una definizione “sanitarizzata” della nostra professione? o per chiederci se questa sia l’unica direzione verso la quale è possibile andare?

Dal mio punto di vista, questa onnipresenza del professionista psicologo rischia di qualificarsi nei termini di una vera e propria “sorveglianza sanitaria”: un sistema che si attiva nell’ordine della tutela della salute è un sistema che lavora all’interno di un regime di protezione quando non di approccio alla cura di tipo protezionistico.

Mi chiedo se sia questa la cultura psicologica da promuovere, a cui fa riferimento la revisione dell’art. 21 dell’attuale codice deontologico.

Una cultura che rischia di alimentare posizioni fobiche, ipocondriache, ossessive, isterico-paranoiche (Mignosi, 2023) nei confronti del proprio corpo, della propria mente, di ciò che è “umano”.

Come possiamo continuare a fidarci del nostro corpo e della nostra capacità di ascoltarci quando la “cura” del corpo e della mente è un puro atto specialistico? Quanto non colludiamo con la promozione di una cultura eteronoma, che veicola l’idea di una rassicurazione, di un “appoggio” solo ed esclusivamente all’esterno, da noi e dal campo delle nostre relazioni significative? Quanto favoriamo richieste di protesi tecniche e tecnologiche? Così, al rapporto diretto rischia di sostituirsi il rapporto mediato dalla presenza di un professionista.

All’interno di questo paradigma culturale della cura, sempre meno lo psicologo può prendere la posizione di “osservatore” che, pur nella sua funzione pubblica originaria, ha sempre cercato di tenere. Diventare parte integrante del sistema, anche quando è il sistema che “fa ammalare”, ci rende sicuramente una professione meno autonoma e meno libera, e forse ci espone maggiormente a un rischio collusivo di cui dovremmo essere quantomeno consapevoli.

Come sarà possibile, all’interno di questa prospettiva, mantenere uno sguardo epistemologico su come costruiamo gli oggetti e i soggetti della psicologia? di quali pratiche professionali saremo interpreti se il nostro ruolo è di sussidiarietà alle politiche governative? dal mio punto di vista è una perdita di autonomia importante e significativa: anche quando ci riteniamo autonomi nella definizione dei nostri oggetti di lavoro, in realtà lo siamo molto meno di quanto pensiamo. Certo, non siamo mai pienamente autonomi nella costruzione della realtà, ma proprio per questo è importante potere continuare a “pensare ciò che ci pensa”; il rischio è di rimanere, anche noi, dipendenti da logiche eteronome rispetto al nostro lavoro.

In una prospettiva in cui la Salute è definita “altrove” (senza la partecipazione dei cittadini o dei pazienti) e amministrata da specialisti della salute, che fine fa il soggetto?

Se il professionista è colui che “sa”, che possiede le competenze per aiutare le persone a stare in Salute, che sa cosa è giusto fare per qualsiasi problema (per cui sono sempre pronte nuove definizioni a cui corrisponde una tecnica che ci aiuta a liberarcene) quale competenza di sé rimane al soggetto?

Il codice deontologico delle psicologhe e degli psicologi

La revisione del codice deontologico prevede l’introduzione di una premessa etica che non sarà oggetto di quesito referendario. Inoltre, tutti gli articoli sono stati titolati in modo da rendere più fruibile il senso dell’articolo stesso.

La Premessa Etica

La Premessa Etica accompagnerà il nuovo Codice Deontologico e sarà vincolante per tutti gli iscritti all’Ordine; nonostante ciò, questa non sarà oggetto di quesito referendario. Non se ne comprende bene il motivo.
Questa Premessa Etica è liberamente ispirata al metacodice EFPA (Federazione Europea delle Associazioni di Psicologi) che fornisce le linee guida per i contenuti dei Codici Etici delle Associazioni che ne fanno parte (Ruberto, 2023). Per questo motivo è ipotizzabile che non abbia bisogno di una riflessione pubblica né tanto meno di una approvazione, ma chiaramente rimaniamo nel campo delle ipotesi.

Più volte i rappresentanti dell’attuale CNOP (Ruberto 2022, 2023; Lazzari, 2022) hanno segnalato la necessità di una Premessa Etica; una valida deontologia professionale deve poter definire con precisione i principi etici da introiettare per cucire correttamente il proprio abito deontologico e favorire l’acquisizione delle corrette procedure di pensiero.

La Premessa Etica, che accompagna la revisione del Codice delle psicologhe e degli psicologi, tratteggia e sagoma un professionista che fonda la propria etica professionale sulla scienza e sulla tecnica. Secondo Parmentola (2022), uno dei primi estensori, il vertice etico dovrebbe potersi dispiegare sul vertice scientifico e darsi nell’appropriatezza tecnico-scientifica: la responsabilità verso le persone e la società àncora lo psicologo in un discorso di competenze, per cui i ragionamenti dovrebbero attenersi a ciò che viene ritenuto essere valido e scientifico, i riferimenti scientifici dovrebbero rispettare un certo standard per essere attendibili e i curricula professionali dovrebbero essere certificabili.

Secondo i revisori, la capacità di costruirsi una propria pratica professionale deontologicamente orientata deve rifarsi necessariamente e prioritariamente a conoscenze scientifiche accreditate che ne possano garantire l’attendibilità.

Non posso fare a meno di ricordare come la storia dell’uomo testimoni di pratiche che, ammantante dall’aura della scientificità, si siano rivelate essere inefficaci quando non pericolose.

Pur non di meno, la revisione sostiene la figura di uno psicologo che per potere essere etico deve essere molto tecnico.

Questo accento sulla tecnica espone lo psicologo alla gestione di un altro tipo di responsabilità, di carattere più professionale. Come ci ricorda il metacodice EFPA il sapere tecnico si configura come una forma di potere.

Il sapere tecnico tende a creare una diseguaglianza di conoscenze, e quindi di potere, che il professionista detiene nei confronti delle persone. Più è ampia questa diseguaglianza di conoscenze all’interno della relazione, maggiore è la responsabilità dello psicologo.

Quindi, la competenza professionale si configura come un potere che viene assegnato al professionista nei confronti delle persone che a lui si rivolgono, che dovrebbe essere amministrato con grande professionalità. L’uso tecnico della conoscenza sembra volersi proporre come un uso “buono” di questo potere.

Questo aspetto “tecnico”, poco presente nella prima estensione del codice, oggi diviene la premessa con la quale formulare la migliore regola professionale.

Vincolare lo psicologo a una formazione valida è indispensabile, ma questa premessa etica sembra andare oltre. Sembra essere, infatti, un tentativo per normare la responsabilità del professionista nei confronti degli utenti e dei committenti, definendo con chiarezza in che modo è possibile esercitare o non esercitare la propria influenza (art. 3). La Premessa Etica sembra voler stabilire, una volta e per tutte, i confini tra ciò che è scientifico e morale, e ciò che è riferibile al campo della “superstizione” e della “irrazionalità”.
La tecnica, infatti, risponde all’esigenza di qualificare il nostro lavoro in quanto professione scientifica e sanitaria, ed espressione di un potere buono. 

La revisione del Codice vuole proporre quindi degli ethical standard, oggettivabili, standardizzati e condivisi per costruire la propria regola professionale. Gli ethical standard sono, però, prima di tutto dei technical standard: la loro introiezione permette di sagomare professionisti moralmente e tecnicamente validi. La garanzia di un potere neutro e non arbitrario sembra risiedere proprio nel discorso scientifico.

La coscienza del clinico che si muove “caso per caso” sembra essere ridotta all’osso e derubricata a qualcosa di arbitrario.

Prima, ciò che muoveva la coscienza del clinico era un’etica fondata sulla relazione, sul rispetto e su un continuo lavoro su di sé capace di tenere dentro il ragionamento sugli assunti epistemologici e sulle premesse culturali del periodo. Questo costante lavoro permetteva al clinico di assumersi la responsabilità di ciò che faceva all’interno della relazione.

A mio avviso, una riflessione etica non dovrebbe cercare fuori degli appigli oggettivabili, ma cercare di fondarsi dentro un discorso interpersonale ed epistemologico sul potere.

Gli standard etici, invece, sembrano rispondere alla ricerca di un “valore” al di fuori della relazione.

Il vecchio professionista sagomato “con scienza e coscienza” lascia il posto al professionista per il quale la “scienza è coscienza”: i ragionamenti clinici, la libertà e l’autonomia lasciano il posto alle conoscenze tecnico-scientifiche.
Sicuramente la scienza risponde a un bisogno di sistematizzazione dell’insieme di conoscenze che è riuscita ad acquisire nel corso dei secoli, ma non si può pensare di sostituire l’esperienza reale con quel paziente reale, che fonda una deontologia pensata “caso per caso”.

Spinsanti (2020) evidenzia come l’attuale ricorso al modello scientifico comporti un sempre più ridotto grado di libertà del clinico rispetto alla possibilità di interrogare il proprio sapere secondo le contingenze del caso.

Il tentativo di definire gli standard etico/scientifici rischia di far fuori quella componente soggettiva del professionista che, operando in scienza e coscienza, rende non standardizzabile la misura deontologica. Il dato soggettivo, che fino ad oggi era legato alla coscienza del professionista e ai suoi ragionamenti clinici, rischia di non trovare spazio all’interno dell’attuale revisione.

Così sembra essere conferita una posizione di superiorità alla Scienza rispetto a tutte le altre fonti di conoscenza, perfino quella derivante dalla persona che incontriamo. È da verificare sul campo, chiaramente, se questa posizione di superiorità garantisca la migliore regola deontologica. Secondo Spinsanti (ibidem) il rischio che attualmente corre la professione medica è di vedere aumentata la propria subalternità alla “politica politicante”, quella politica che ci chiede di diventare erogatori di protocolli ben lontani da una reale preoccupazione per la salute dell’altro.

Il vertice introdotto nell’attuale revisione apre, infatti, ai protocolli, alla medicina evidence based, ma anche alla medicina difensiva.

La stessa revisione dell’articolo 22 sulle “condotte non lesive” prescrive l’ancoraggio professionale alle linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali. 

Il concetto di standard, necessario quando si tende a un maggiore controllo sulla qualità dei servizi e del trattamento erogato, ci espone anche a una visione professionale appiattita sulla performance e sulla semplice valutazione di una performance. La logica performativa e valutativa è ciò che spinge molti clinici a chiudersi dentro una medicina difensiva, scegliendo di proporre solo quei trattamenti che garantiscano l’impunità davanti alla legge.

Le linee guida, secondo Spinsanti (op. cit.) non dovrebbero avere una rilevanza giuridica.

Con l’attuale revisione, il Codice Deontologico sembra volere indicare, come più volte suggerito da Stampa (2019), la strada della legalità di una determinata condotta.

Ma il discorso sulla legalità non risolve il discorso sulla legittimità di una professione così standardizzata. Questa revisione rende sicuramente il Codice più adatto a interfacciarsi con il nostro sistema giuridico fondato sul principio della legalità e del giusto processo (qualora ci dovessero essere dei procedimenti disciplinari, civili e/o penali) ma meno adatto a rispondere alle questioni etiche alla base della professione.

Il principio della legalità (cosa fare per non incorrere in sanzioni) e della regola (certificazioni, standard, qualità) sembra essere penetrato con troppa facilità all’interno delle riflessioni sul Codice Deontologico.
La riflessione sulla legalità di un’azione non può prendere il posto della riflessione su ciò che è lecito e legittimo.
Si rischia, così, di scambiare la legittimità (ad esempio lavorare senza essersi vaccinati) con la legalità (ad esempio obbligo e sospensione per illecito deontologico).
L’etica dovrebbe rispondere alla domanda di ciò che è lecito o non lecito fare mentre, a livello culturale, sembra esservi un appiattimento dell’etica sulle leggi.

Davvero possiamo dire che la pratica fondata su “scienza e coscienza” sia arrivata al suo tramonto naturale? davvero lo standard (un valore numerico, esterno e arbitrario) può garantire da solo la validità, la correttezza, la legittimità di un determinato trattamento posto in essere da un professionista?

Basta affidarsi alla tecnica per essere sicuri di non usare indebitamente il potere assegnato allo psicologo?

Pensare che la Scienza sia “esatta” è abbastanza opinabile, soprattutto alla luce delle conoscenze e delle riflessioni epistemologiche attuali (Ceruti, 2018). La scienza è un prodotto della riflessione e della pratica umana, e come tale andrebbe sottoposta a una costante interrogazione di carattere epistemologico.

Già nel 2005 Ioannidis poneva un dubbio sull’attendibilità delle ricerche scientifiche: secondo lo scienziato la maggior parte delle ricerche pubblicate e accreditate non riescono a rispondere ai criteri di replicabilità alla base del metodo scientifico.
Qualche anno dopo (2017), insieme a un gruppo di ricercatori, Ioannidis pubblicava il Manifesto per la scienza riproducibile, denunciando gli innumerevoli conflitti di interesse nel campo delle sperimentazioni scientifiche, spesso sovvenzionate dal lobby e case farmaceutiche.
E non possiamo negare le pressioni che i ricercatori ricevono per pubblicare contributi scientifici e mantenersi, anche loro, dentro certi standard professionali.

Ma, anche se volessimo ammettere una presunta neutralità alla scienza, sarebbe etico delegare in toto alla scienza le scelte che ci riguardano e che riguardano la nostra salute?

Sicuramente questo approccio proposto dai revisori si sposa con la visione della Salute come un fatto specialistico che dai tecnici della salute deve essere amministrato. Solo uno specialista scientificamente e tecnicamente preparato usa il proprio potere in maniera etica e deontologica. La certificazione ECM, per fare un esempio, dovrebbe garantire di trovarsi in presenza di un professionista deontologicamente orientato. 

Nel tentativo di rifondare la deontologia in termini tecnico-scientifici, questa premessa etica rischia di appiattirla all’interno di una dimensione tecnico-amministrativa della salute e della malattia. Non posso fare a meno di notare come sia sparito qualsiasi riferimento al diritto all’autodeterminazione delle persone: non se ne trova traccia né nella premessa etica né nell’articolato revisionato: se la Salute è un Bene Meritorio, se è un fatto specialistico/professionale, quale spazio rimane per l’autodeterminazione?

Dal mio punto di vista, una riflessione etica, peraltro, non si dovrebbe limitare a costruire la migliore regola deontologica per amministrare questo potere (e rendere meno arbitraria la scelta del professionista), ma dovrebbe includere un discorso sulla legittimità di questo potere. È legittimo conferire al professionista tutto questo potere sulla vita delle persone?

Quella “parte” della psicologia che opera “caso per caso”, in ascolto della persona prima ancora che del sintomo, riuscirà a possedere i requisiti per ottenere le “condizioni di cittadinanza” nel mondo delle professioni sanitarie? a quale prezzo?

L’istituzione di un Ordine, qualunque esso sia, apre necessariamente a una riflessione sulla tutela dell’utente che si rivolge a noi. Si può essere d’accordo o meno sulla necessità di un Ordine che regolamenti la professione, ma una volta istituito, esso deve vigilare sulla qualità dell’offerta.
Ma siamo sicuri che la deriva tecnica conseguente alla logica degli standard sia al servizio di una professione così varia, ricca e plurima (Campo, 2022a)?

È chiaro, le leggi non le possiamo cambiare, ma non possiamo neppure esimerci da una riflessione su ciò che ci precede e ci istituisce. 

Trattamenti sanitari e rispetto della dignità della persona: verso una revisione

La revisione del Codice, che è attualmente in fase di approvazione, aggiunge una valenza etico-deontologica al Consenso Informato.

Anche qui potremmo dire “nulla di nuovo all’orizzonte”: il consenso informato ormai è prassi per qualsiasi professionista.

In questo caso non si tratta di mettere in discussione un principio importante e di civiltà, ma domandarsi a cosa risponda farlo diventare ciò che fonda eticamente la relazione con l’altro.

Nelle intenzioni del legislatore, il consenso informato vorrebbe andare oltre quella logica paternalistica che ha attraversato buona parte della pratica medica; ma, proprio dove cerca di scardinarla, la legittima. Nulla del vecchio apparato paternalistico viene messo in discussione, piuttosto si conferma l’ineguaglianza nelle informazioni tra medico e paziente. Viene solo ammesso che nessun trattamento può essere eseguito senza un consenso che sia informato, libero e consapevole. 

Il consenso informato è uno strumento/processo previsto solamente nel caso dei trattamenti sanitari. Da quando, con la legge 3/18 siamo diventati professionisti sanitari, siamo anche noi (giustamente) vincolati all’obbligo del consenso informato.

La revisione, quindi, è necessaria per ridefinire il lavoro degli psicologici che prestano la propria opera nel campo della salute. Il “vecchio” codice parla infatti ancora di semplici prestazioni psicologiche. In linea con la legge, da questo momento in poi gli psicologi si occupano di trattamenti e il consenso informato è ciò che permette al professionista di agire in tal senso.

Proviamo a chiarire cosa significhi questo passaggio.
Gli psicologi (esclusi pochi casi professionali) non “prestano” più “la propria opera nell’espletamento di un’attività intellettuale”, ma offrono “trattamenti”.
Il concetto di “trattamento” ci introduce dentro un discorso tecnico e scientifico che necessita di un’alta professionalizzazione.

Trattamento diventa, coerentemente con la legge, qualsiasi intervento di carattere preventivo, terapeutico o diagnostico, di carattere volontario o obbligatorio, da praticare sulla persona per migliorarne le condizioni di vita e di salute.
Nessun trattamento può essere praticato senza il consenso della persona; il professionista, valutata un determinata situazione, aiuta la persona a prendere la scelta più adeguata alla propria salute.

Ciò significa, ad esempio, che la prevenzione è diventata un trattamento sanitario. Fare prevenzione significa “trattare” la popolazione o una popolazione target indirizzando i comportamenti verso posizioni più salutari.
La stessa psicoterapia diventa un “trattamento di cura” e come tale deve poter rispondere a criteri di scientificità e attenersi a protocolli per la gestione del sintomo. Fare diventare così, la psicoterapia il “trattamento” tecnico per un disagio, sia pure per una psicopatologia, significa appiattire l’esperienza esistenziale di una persona, l’esperienza relazionale del prendersi cura, in una “gestione del sintomo”.

La logica sanitaria della legge 3/18 entra, senza se e senza ma, all’interno di una pratica che ha sempre coltivato al suo interno anche una visione umanistico-esistenziale dell’essere umano.
Per una beffa del destino, l’approccio centrato sulla persona, sulla relazione e sul rispetto dell’autodeterminazione potrebbe di fatto diventare l’ambito specifico dei counselor, consulenti non professionalizzati per la cura relazionale al servizio di un approccio umanistico.

I professionisti, al contrario, diventano titolari (manager) della gestione dei processi di “cura”: è sempre il professionista a sapere cosa è il bene del paziente. Se il “Sapere” è allocato nelle mani del professionista, la persona può solo dare il proprio consenso.

Il principio alla base del consenso informato trova la sua ragione d’essere proprio nel processo di professionalizzazione del sanitario: l’evidente squilibrio di conoscenze tra chi cura e chi viene curato dovrebbe essere contenuto grazie a una comunicazione sincera e professionale tra medico e paziente.

È un atteggiamento che paragona il paziente a un consumatore (del prodotto Salute) che va informato: la corretta informazione permette al consumatore di prendere delle scelte sul prodotto in maniera consapevole.

Non vi è ombra di dubbio che, in questa prospettiva, il consenso informato sia un atto civile rispetto all’abuso di potere che i medici hanno perpetrato sulla vita delle persone in barba ai principi costituzionali dell’indisponibilità del corpo, dell’inviolabilità della libertà della persona e del diritto a scegliere sulla propria salute. Troppi sono i danni di cure “estorte” senza il consenso della persona.

La comunicazione, nella logica del consenso informato, ha un ruolo centrale: il professionista informa e condivide con la persona tutte le informazioni in proprio possesso rispetto allo stato di salute della persona, al trattamento necessario per quel tipo di problema, argomentandolo e rendendo chiari benefici e rischi.
La comunicazione chiara e trasparente vuole trasformare la persona in un soggetto capace di prendere decisioni responsabili sulla propria vita e di diventare un soggetto attivo nella gestione della malattia. 

Da un lato, quindi, c’è un professionista in possesso di tutte le conoscenze scientifiche e tecniche disponibili, dall’altro una persona che dipende dal professionista rispetto a quanto c’è da fare; da un lato un professionista titolare del trattamento, dall’altro un paziente titolare di un consenso.

Il ruolo del professionista è di avere grande cura di questo momento comunicativo con il paziente perché da questo discenderà la possibilità della persona di prendere delle scelte responsabili. Qualora il clinico dovesse valutare la necessità di cambiare le “cure” per la persona, questa va informata e deve poter dare un nuovo consenso.

Sostenere la persona nel processo decisionale rispetto alla somministrazione di una cura è una parte centrale del processo terapeutico. L’obiettivo è fornire, dentro una comunicazione autentica, tutte le informazioni per aiutare la persona a comprendere l’importanza di quella cura, accettandola; la motivazione alla cura, inoltre, aumenterebbe la compliance al trattamento.

Insomma, in linea teorica, i principi costituzionali alla base del rispetto della dignità della persona sarebbero così tutelati.

A differenza però del consumatore tipo, nel campo della salute non si possono mai riuscire a dare tutte le precise informazioni che si potrebbero fornire, quanto meno in linea teorica, per la scelta di un prodotto commerciale. Al contrario, il paziente dipenderà costantemente da un soggetto che ne saprà sempre di più di lui. È il professionista a padroneggiare una competenza e una tecnica da cui il paziente è escluso, nonostante tutte le informazioni che può ricevere a riguardo. Il paziente nulla sa di cosa potrebbe accadere se le proprie condizioni di salute dovessero cambiare, né è capace di prevedere l’impatto delle sue decisioni sulla propria vita. 

Le informazioni che un professionista comunica al proprio assistito rendono solo fittiziamente l’altro veramente edotto. Non voglio certo negare l’importanza “civile” di questo atto; mi chiedo, semmai, se effettivamente basti una comunicazione trasparente per eliminare definitivamente l’ombra paternalistica dai processi di cura, visto che la persona, per quante informazioni possa ricevere, non potrà mai “sapere” cosa “tecnicamente e scientificamente” sia giusto per sé. La co-costruzione di un percorso di guarigione della persona, la costruzione della stessa alleanza terapeutica rischiano di svilirsi nella costruzione condivisa e partecipata del processo decisionale.

La proposta di revisione del Codice Deontologico vuole mettere al centro dell’operatività del professionista l’informazione e il consenso. Non basta più che questo venga dettagliato nell’articolo specifico (art. 24), ma l’informazione e il consenso diventano ciò che qualifica la relazione professionale, tanto da comparire fin dai primi precetti del Codice Deontologico.

La revisione dell’articolo 4 è forse quella che più di tutti riformula il ruolo dello psicologo, in quanto vuole fondare la tenuta dell’agire professionale (per come espresso nell’art. 3) sull’assunto che non vi può essere rispetto senza consenso (Leardini, 2023).

Infatti, la revisione dell’art. 4 riprende fedelmente una parte dell’attuale e ancora vigente art. 24 per inserirlo come primo comma dell’art. 4: il consenso (anche se non nella declinazione del consenso informato) è necessario non solo per sviluppare la motivazione della persona e la sua adesione al trattamento, ma anche per garantire alla relazione professionale un governo consapevole e appropriato (ibidem).

Il vigente art. 4 (“Nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità […]”) verrà sostituito con il seguente precetto: “La psicologa e lo psicologo, nella fase iniziale del rapporto professionale, forniscono all’individuo, al gruppo, all’istituzione o alla comunità, siano essi utenti o committenti, informazioni adeguate e comprensibili circa le proprie prestazioni, le finalità e le modalità delle stesse, nonché circa il grado e i limiti giuridici della riservatezza”.

Quindi il consenso (sia quello generale che quello informato) si dovrebbe qualificare come strumento indispensabile per il rispetto della libertà, della dignità e dell’autodeterminazione, ma l’unico potere di cui rimane titolare la persona è il potere di accettare o negare le cure (sempre che il “non consenso” non venga letto come una resistenza o esitazione da “trattare”).

Ma, al di là del rispetto formale e legale dei principi costituzionali, davvero un consenso informato protegge i diritti all’autodeterminazione, alla libertà e alla dignità di una persona?

Dove finisce quella spinta etico esistenziale presente nel vigente art. 4, che fonda eticamente la relazione, vincolando il professionista al rispetto della dignità, al diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione e autonomia di chi si avvale della sua competenza? Che fine fa lo psicologo sagomato sull’idea di un’accettazione vera e incondizionata della persona, disposto a non imporre i propri sistemi di valori e di visioni del mondo e della salute stessa?

L’eticità, dal mio punto di vista, si fonda sul rispetto della dignità della persona, sulla sospensione del giudizio e sulla non discriminazione. Autodeterminarsi, per altro, è qualcosa di più che un semplice essere padrone delle scelte che ci riguardano. L’autodeterminazione personale, infatti, è qualcosa di più dell’autodeterminazione terapeutica, quanto più la prima si qualifica come libera espressione di sé in relazione alla propria vita, tanto più la seconda si inquadra come libera scelta in relazione a una cura e alle scelte prospettate da altri.  

Non sono una esperta di diritti costituzionali, ovviamente, ma formulato in questo modo il consenso sembra essere una liberatoria legale, per quanto nella forma di un processo comunicativo, per continuare ad agire in nome di un paternalismo professionale e sociale.

Inutile girarci attorno, il consenso informato, oltre ad essere un processo comunicativo tra la persona e il professionista, è anche uno strumento che tutela dal realizzare illeciti deontologici o reati penali. Il consenso informato è figlio di quella logica contrattualistica di carattere neoliberale che esonera le persone dall’assumere in prima persona le proprie responsabilità. 

Sicuramente penso che avremmo bisogno di comprendere un po’ di più queste questioni: come già detto, mi sembra che il consenso solo fittiziamente risolva il problema di una visione paternalistica della cura, e così rischi di lasciare un enorme vuoto etico. Ad esempio: cosa rende dignitoso e rispettoso un trattamento terapeutico? Può essere l’adesione al principio della legalità?

Davvero le persone che si sono sottoposte in maniera obbligata alla vaccinazione hanno sentito rispettata la propria dignità e il diritto all’autodeterminazione solo perché avevano apposto una firma sul consenso informato?

La loro dignità, davanti a un obbligo surrettizio, è stata forse ripristinata da una firma che ne consentiva la somministrazione? Ci sono persone che hanno inventato gli stratagemmi più estremi (perfino un braccio finto) nella speranza di vedere ripristinato il valore della propria persona ad autodeterminarsi, e tutelati i propri diritti umani, prima ancora che costituzionali. Il mancato consenso, pur essendo nel diritto delle persone, è stato trattato da un punto di vista sanitario (pubblico) come una esitazione da sciogliere per vincere le irrazionali “resistenze”; l’esitazione andava trattata come intervento sanitario volto a sviluppare nelle persone un valore civico a tutela della salute pubblica.

Mi si può chiaramente obiettare che questo è un esempio che riguarda il campo medico. Ma vorrei ricordare che gli psicologi hanno avuto un gran da fare nel trattare le esitazioni vaccinali grazie a un loro reclutamento di massa in quella campagna vaccinale che ha discriminato e negato diritti, nonché leso la dignità delle persone.

Gli psicologi hanno favorito forme di discriminazione e imposto alle persone un sistema di valori, per quanto dichiaratamente tecnico/scientifico. So per certo di terapie che si sono concluse perché i terapeuti erano impegnati a interpretare le resistenze alla vaccinazione dei propri pazienti, o di terapeuti che hanno invitato i propri pazienti a vaccinarsi, altrimenti avrebbero interrotto il trattamento. Si può continuare a negare la lesione dei diritti a livello giuridico, ma ciò non cambia la sostanza.

Nel corso della campagna vaccinale, il rispetto della dignità, della riservatezza, dell’autodeterminazione, della libertà, dell’indisponibilità del corpo sono stati solo una chimera.

Sicuramente il consenso informato riesce a rispondere al principio della legalità di un trattamento, ma non risolve l’intero spettro delle questioni etiche che si prospettano davanti, tra cui il rispetto della dignità della persona e la dignità della cura.

Di nuovo, si confonde l’aspetto della legalità con quello della legittimità: il fatto che una cosa sia legale non significa che sia legittima, e questo noi psicologi dovremmo saperlo bene.

Dal mio punto di vista, il cambio di paradigma in questa proposta è evidente. Non più i principi etici che dovrebbero portare alla sagomatura della migliore regola deontologica, ma sembra quasi che la deontologia si fondi sulla liberatoria ad agire.

Sembra una deontologia alla Sheldon Cooper! Il consenso fa prevalere il potere di alcuni sugli altri: è un contratto, seppur nella formula di consenso informato, che regola i rapporti di potere rendendoli legali. Pur in tutta la sua simpatia, Sheldon era incapace di stare nei rapporti senza che questi fossero vincolati, tutelato quindi da un contratto. Sheldon, in virtù della firma su questi contratti, poteva rendere “legali” perfino dei veri abusi di potere! Un approccio che fa eco a quella visione neoliberista in cui la libertà, la dignità e l’autodeterminazione si riducono a una semplice accettazione delle condizioni imposte da un altro (il consenso informato si può solo accettare o rifiutare).

La nostra società prima e la comunità professionale dopo sembrano avere fatto propria la logica neoliberista che vuole comprimere i rapporti (generativi, sessuali, terapeutici) dentro logiche consensuali e contrattuali, per riequilibrarne il potere all’interno (Pateman, 1988, De Carolis, 2018). Secondo Pateman (1988) il rapporto neoliberista nasce da un libero accordo tra le parti, che qualificandosi come accordo sul managing, pone il diritto di comando nelle mani di una delle parti contraenti. Una logica che nasconde l’ombra paternalistica di una pratica professionale che si sente legittimata ad agire a partire dalla pretesa di relazioni di iperprotezione/dipendenza del soggetto e della sua comunità di appartenenza.

Pur riconoscendo l’importanza che la persona possa decidere fino all’ultimo istante sulle scelte che altri prendono sulla propria vita, è anche vero che la questione della dignità personale non si può appiattire solo su questo.

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Stampa P. (2019), La cornice etico-giuridica della professione di psicologo Dimensione contestuale, criticità, problemi aperti, https://psicologiassociatiroma.it/wp-content/uploads/2019/05/LUMSA_Dispensa.pdf

AzioniPolitiche professionali

Interlocuzione all’Ordine Professionale della Regione Sicilia. Aggiornamento.

Come concordato durante l’incontro del 21 giugno 2022 tra i delegati dell’associazione #dallastessaparte e il consiglio dell’Ordine degli psicologi siciliani, il 5 settembre scorso abbiamo inviato la nostra proposta progettuale.

Questa è frutto di un lavoro di concertazione tra i colleghi promotori dell’incontro che esplicitano, ancora una volta, l’intento di dialogare con i referenti dell’Ordine sulle modalità di gestione dell’emergenza COVID e sulle sue conseguenze psico-sociali.
Conseguenze che già abbiamo ampiamente esplicitato e relazionato nel documento portato all’attenzione il 21 giugno, consegnato alla lettura e studio dei colleghi dell’Ordine, e pubblicato sui nostri social.
Purtroppo, fino ad oggi non abbiamo avuto alcuna risposta né dal Presidente né dai consiglieri.

Il silenzio assordante di coloro che hanno ricevuto il nostro mandato per promuovere la nostra categoria, rappresentarci politicamente e proteggerci nella prestazione dei nostri servizi continua ad alimentare una frattura, riguardo a credibilità e fiducia, che diventa sempre più insanabile.

Nonostante ciò, come associazione di categoria, crediamo fortemente che sia ancora possibile poterci esprimere in difesa dei valori che fondano noi tutti, come esseri umani e professionisti delle relazioni.

Per questo continueremo a lavorare, con o senza il sostegno istituzionale.

Di seguito riportiamo il testo della PEC da noi inviata lo scorso 2 novembre per sollecitare la risposta dell’OPRS.


Gentili Presidente e Consiglieri dell’Ordine Regionali degli Psicologi della Regione Siciliana,
a seguito della nostra proposta progettuale a Voi inviata in data 5 settembre 2022, avente come oggetto la programmazione e lo sviluppo di un ciclo di incontri volti ad avviare dentro l’Ordine una riflessione attiva sulle “Implicazioni psicosociali delle politiche sanitarie d’emergenza”, restiamo ancora in attesa di un Vostro riscontro.

Ci preme ricordare come la proposta progettuale sia nata a seguito di un lungo ed intenso incontro, avvenuto il 21 giugno 2022, tenuto presso la sede dell’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia, con una delegazione di colleghi che si è fatta interprete di rappresentare a Codesto Ordine il malessere istituzionale e la lesione dei rapporti fiduciari con chi in questo momento ci rappresenta.

L’incontro, lo ricordiamo, è successivo a un lungo periodo di silenzio da parte degli Ordini in merito alle discriminazioni introdotte dal DL 44/21 e successivi aggiornamenti, e alle implicazioni per la nostra professione. L’associazione #dallastessaparte e il Coordinamento Nazionale Psicologi sono stati attenti testimoni di numerosi iscritti che, in questi mesi, ne hanno lamentato le gravi e drammatiche conseguenze.

Il silenzio dell’Ordine è stato interrotto, dobbiamo tristemente constatare, solo da comunicati ufficiali nei quali veniva ribadito l’impegno di tutti gli Ordini, incluso quello al quale scriviamo, nel far rispettare l’obbligo vaccinale, nella noncuranza dell’impatto che certe scelte hanno sulla vita di molti iscritti. Tale obbligo, per altro, riguarda un farmaco ancora in fase di sperimentazione, non testato per il contenimento della diffusione del virus all’interno della popolazione generale. Inoltre, esso introduce un criterio arbitrario per consentire l’esercizio di una professione per la quale si è in possesso di tutti i titoli previsti dalla legge (Laurea, Esame di Stato, Iscrizione all’Ordine). Tanti colleghi sono stati sospesi, e tanti altri hanno lavorato con la paura di poterlo diventare.

La nostra proposta progettuale è stata elaborata a seguito della dichiarazione di disponibilità da parte del Presente dell’Ordine ad avviare uno spazio di riflessione interno, in linea con il proprio mandato istituzionale.

L’Ordine deve proporsi, secondo la legge 3/18, come interlocutore importante e necessario che concorre con gli Enti e le Autorità locali e centrali “nello studio e nell’attuazione dei provvedimenti che possano interessare l’Ordine”. Lo spirito della legge era anche quello di avvicinare l’Ordine ai propri iscritti, ma ciò sembra non essere avvenuto  proprio sulle questioni inerenti gli aspetti più fondanti la nostra professione (quale modello di salute si delinea con certe politiche? Quale tipo di comunità viene tratteggiata? Che tipo di professionisti possiamo ancora essere?).

Tali questioni sono state abbondantemente trattate all’interno dei due documenti, il primo redatto dall’Associazione #dallastessaparte, l’altro a firma del Coordinamento Nazionale Psicologi, consegnati proprio durante l’incontro dello scorso 21 giugno. Ricordiamo inoltre che il documento a firma #dallastessaparte è stato inviato per posta elettronica in data 27 giugno 2022.

Fino ad oggi, nonostante le dichiarazioni verbali di disponibilità al confronto, viene mantenuta la posizione ufficiale, ribadita a tutte le delegazioni di colleghi che sono state ricevute dai diversi Ordini Professionali, secondo la quale l’Ordine, in quanto Ente Sussidiario dello Stato, può solo rispettare e fare rispettare la legge, e che ad esso non spetta nessun altro tipo di adempimento.

Una risposta parziale che, come abbiamo più volte ribadito nel corso dell’incontro del 21 giugno, non tiene conto di tutte le altre importanti funzioni che la legge intesta agli Ordini Professionali Sanitari, e che li vede sia concorrenti nell’elaborazione dei provvedimenti che in dialogo costante con i propri iscritti.

Rimane così una profonda frattura tra l’Ordine e una parte dei suoi iscritti che, se ignorata ulteriormente, rischia di diventare insanabile.

Non basta un incontro per ritenere soddisfatto il necessario coinvolgimento degli iscritti rispetto alle questioni che li riguardano, né per ritenere soddisfatta la funzione di tutela di una parte che, proprio perché  minoritaria, ha vissuto drammatiche discriminazioni. Queste, per altro, come ribadito nel corso del nostro incontro, sono questioni che riguardano tutti gli iscritti, sebbene le conseguenze gravino solo su alcuni.

Ricordiamo, ancora, che l’Ordine, essendo totalmente finanziato dagli iscritti, ha il dovere di rispondere davanti ad essi rispetto all’espletamento di tutte le specifiche funzioni attribuite dalla legge, e sul modo in cui sta interpretando il mandato sociale e professionale.

A tal fine, quindi, ribadiamo la necessità che l’Ordine:

  • si faccia garante e assicuri “l’indipendenza, l’autonomia e la responsabilità delle professioni e dell’esercizio professionale, la qualità tecnico-professionale, la valorizzazione della funzione sociale, la salvaguardia dei diritti umani e dei princìpi etici dell’esercizio professionale indicati nei rispettivi codici deontologici, al fine di garantire la tutela della salute individuale e collettiva” (Legge 3/18);
  • sia interlocutore attivo per i diritti di tutti gli iscritti, e non soltanto di una parte;
  • dia seguito a ulteriori momenti di confronto con gli iscritti, così come anche indicato dalla nostra proposta progettuale.

Alleghiamo:

  • documento redatto ad opera dell’Associazione #dallastessaparte;
  • documento redatto dal Coordinamento Nazionale Psicologi;
  • proposta progettuale redatta ad opera dell’Associazione #dallastessaparte.

Chiediamo altresì che ci venga  confermato il ricevimento delle mail e dei documenti inviati (insieme al numero di protocollo), e che si possa avere un celere riscontro rispetto alla proposta progettuale inviata lo scorso 5 settembre.

Ancora fiduciosi di poter ristabilire un dialogo sereno, autentico e costruttivo, inviamo cordiali saluti.

Associazione DallaStessaParte

AzioniPolitiche professionali

Interlocuzione all’Ordine: testo completo

La sofferenza umana non può diventare un residuo muto della politica
Guerrasi, 2019

Con il presente documento intendiamo proporre una serie di riflessioni su alcuni aspetti della professione psicologica che sarebbero già dovuti essere oggetto di un confronto approfondito. Infatti, sarebbe stato auspicabile riflettere prima sulle conseguenze psicosociali delle normative che riguardano gli psicologi in quanto sanitari.

L’assorbimento dell’area psicologica all’interno delle professioni sanitarie (L. 3/18) non dovrebbe farci dimenticare che il mentale necessita di una visione propria e specifica, non subordinata a una pratica unicamente sanitaria che risente molto dell’epistemologia medica.

Il documento, nello specifico, pone al centro la riflessione su come le comunità occidentali contemporanee accolgano l’umano e la sofferenza umana. La domanda è fondamentale, in quanto dalla risposta discendono pratiche di lavoro anche molto diverse tra di loro, e differenti modalità di interpretazione del nostro specifico mandato sociale.

Gli psicologi oggi sono al servizio di un adattamento umano all’ambiente culturale (anche se nessuno può mai essere definitivamente e perfettamente adattato) o al contrario incentivano specifici percorsi di soggettivizzazione, individuali e gruppali? In quanto psicologi professionisti, siamo consapevoli di essere figli di questo tempo, anche noi assoggettati a vincoli di potere (di cui dovremmo essere il più possibile consapevoli) che ci abitano e che agiamo? Quali sono le attuali strutture organizzative in grado di generare automaticamente mentalità e forme di comportamento all’interno di una società?

La definizione di “sanitario” sembra essere stata l’unica motivazione che ci ha visti coinvolti all’interno di un obbligo vaccinale discutibile per diversi motivi, da quelli legali a quelli legati alle conseguenze di breve e lungo termine connesse alla somministrazione del farmaco.

Il D.L. n. 172 del novembre 2021[1] stabilisce che siano gli Ordini professionali a verificare la posizione vaccinale del collega e, in caso di inadempimento senza “giusta causa”, a stabilirne la sospensione.

Segnaliamo che una prima questione si pone già in relazione al termine “vaccino”,  termine che useremo in questo documento riferendoci ai farmaci cosiddetti anti-COVID approvati con procedura “fast track” condizionata (secondo criteri ancora oggi molto controversi: la letalità del Sars Cov 2 e l’assenza di cure per la malattia COVID). Lo useremo per convenzione, sapendo che l’uso potrebbe essere improprio, e implica molti interrogativi che non hanno ancora avuto una risposta esaustiva[2].

La vaccinazione diviene requisito all’esercizio della professione, e persino i nuovi iscritti devono presentare, tra i documenti necessari, il certificato che attesti il completamento del ciclo vaccinale primario ed anche di tutte le dosi di richiamo previste per legge[3]; in tal modo lo svolgimento della professione risulta de facto subordinato a un trattamento sanitario obbligatorio.

La posizione degli Ordini regionali e del CNOP fin dall’inizio non ha previsto alcun dibattito interno e non ha dato “ascolto” a quella parte di colleghi che sulla legittimità (sanitaria, legale, politica) dell’obbligo vaccinale nutre e continua a nutrire dubbi.

Le questioni, lo comprendiamo, non sono di poco conto e ci chiedono di tornare ad interrogare i paradigmi che guidano le nostre pratiche professionali.

È purtroppo un dato di fatto che né gli Ordini professionali né il CNOP abbiano coinvolto gli iscritti, e che non abbiano adempiuto alle funzioni di tutela nei confronti di coloro che hanno scelto di non vaccinarsi o di non proseguire con l’inoculazione delle ulteriori dosi di richiamo.

Riteniamo, quindi, non più procrastinabile rappresentare ufficialmente a codesto Ordine il malessere professionale, sociale e culturale connesso all’applicazione delle Leggi, nel modo in cui sta avvenendo. Segnaliamo il grave rischio di rottura del rapporto di fiducia con tutte le istituzioni, sempre più percepite e trasformate in istituti di mero controllo sociale[4] (si veda a tal proposito il paragrafo: “Frattura del patto sociale”).

Le istituzioni, e gli Ordini tra queste, rischiano di qualificarsi come funzionari di “processi senza soggetto”, che si muovono dentro una logica eteronoma e che non si risolvono mai dentro forme di soggettivizzazione reali. Tali processi, lo ricordiamo, attraversano gli individui restituendo loro una sensazione di impotenza, annichilimento e schiacciamento, in quanto li espropriano della volontà e del potere, inteso come possibilità di “avere presa” sul mondo (descriveremo meglio alcuni aspetti all’interno del paragrafo “Tutela dei pazienti”).

Diversi Autori hanno evidenziato come la sensazione di essere sottomessi a una volontà anonima, impersonale e trasparente abbia come conseguenza non certamente innocua il dissolvimento della volontà individuale e del legame sociale.

Ciò che rimane fuori è proprio il senso “plurale” della convivenza.

In più occasioni sia Elias (1990), sul piano sociologico, che Kaës (2013) in una prospettiva psicoanalitica, hanno evidenziato il profondo livello di malessere che crea una società (in questo caso una comunità professionale) caratterizzata da “processi senza soggetto”, processi che gravano particolarmente sull’attività di simbolizzazione e sul “pensiero che lavora per donare un senso alla complessità”.

Riteniamo che le conoscenze scientifiche debbano essere prese sempre in considerazione, ma crediamo anche che esse non possano ridursi ad aspetti procedurali tecnico-amministrativi, perché ciò non rende conto della specificità umana che, lo ripetiamo, è “plurima”[5].

Se la riflessione sulla pluralità umana poteva forse essere sospesa all’inizio della emergenza sanitaria da COVID-19, oggi alla luce non solo della fine dello stato di emergenza ma anche di evidenze scientifiche più solide, non possiamo continuare a procrastinare un confronto sul tema.

Diviene prioritario, in un momento storico come questo, segnalare la progressiva “distruzione” di spazi che possano garantire quelle differenze di cui “gli esseri umani sono interpreti e testimoni diretti. Fuori dalla logica di controllo, che vuole invece regolare o distruggere il diverso e la differenza” (Fina, Mariotti, 2019, p. 119).

Riteniamo utile che gli psicologi, che dovrebbero riconoscere il valore della diversità come qualcosa di fondativo della condizione umana, possano tornare a confrontarsi sui temi del documento al fine di valorizzare, come ci aspettiamo, la caratteristica “plurale” delle comunità umane.

La possibilità di accedere ad una polis e sentirsi impegnati nel processo di “trasformazione” del mondo è un’ottima alternativa alla rassegnazione di “essere adatti e adattati”, con tanto di certificato di “adattamento abilitante e abilitato”.

L’obiettivo più specifico del presente documento è quello di condividere delle letture di carattere psicologico e psicosociale sulle conseguenze di quanto sta avvenendo in Italia rispetto alla gestione sanitaria, ma ancor più sui danni a breve, medio e lungo termine che ha prodotto l’obbligo vaccinale, sia sulla salute individuale che collettiva.

Il documento, suddiviso in punti, rappresenta il frutto di un confronto costante con colleghi di tutta Italia, che hanno deciso di raccontare il malessere sorto all’interno della professione, per pensarlo e rileggerlo alla luce di una riflessione di più ampio respiro.

In aggiunta ai colleghi psicologi, riteniamo che uno degli interlocutori privilegiati sia l’Ordine professionale, in quanto Organo pubblico di tutela della professione, che assume l’importante funzione di innalzarne il valore sociale.

Il CNOP è composto dai Presidenti degli Ordini Regionali, e dunque avrebbe potuto agire sia a livello locale sia nazionale. Nel primo caso non ha avviato alcuna azione di tutela, ad esempio creando tavoli di lavoro su tali spinose questioni; nel secondo caso non ha avviato con i Legislatori un processo di consulenza per salvaguardare i diritti dei propri colleghi, nonché dei fruitori delle prestazioni professionali.

L’Ordine in via elettiva cura l’osservanza delle leggi dello Stato; ma se queste rischiano di essere discriminatorie nei confronti dei propri iscritti, o contraddittorie rispetto ad altre normative, ha la possibilità, se non il dovere di rappresentarlo.

A tal proposito non possiamo fare a meno di citare l’ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa del 17 marzo 2022, emessa a pochi giorni dall’invio, da parte dell’Ordine, dei provvedimenti di sospensione nei confronti dei colleghi. L’ordinanza per altro è l’ultima di una lunga serie di provvedimenti ad opera dei TAR[6] e della Giustizia Ordinaria, che segnalano i pericoli di incostituzionalità, e l’ingiustificata sproporzione tra la misura disciplinare adottata e la motivazione della stessa[7].

Nello specifico, i giudici del CGA sono molto chiari nel dichiarare rilevante e non manifestamente infondata la questione della legittimità costituzionale, articolo 4, comma 1 e 2 D.L. 44/21.

Le motivazioni dell’ordinanza sono talmente chiare da fugare ogni dubbio, sia nei termini della legittimità dell’obbligo sia nei termini della misura disciplinare adottata[8]. L’ordinanza tiene molto in considerazione la letteratura scientifica (ad esempio quella sugli eventi avversi) e non sottovaluta le gravi lacune procedurali avvenute nel corso della campagna vaccinale (inadeguatezza della farmacovigilanza, mancato coinvolgimento dei medici di famiglia nel triage prevaccinale, la mancanza, nella fase di triage, di approfonditi accertamenti e perfino dei test di positività)[9].

Per i giudici, lo stato attuale dello sviluppo dei vaccini anti-COVID, così come le evidenze scientifiche in merito, non soddisfano la condizione posta dalla Corte Costituzionale di legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale. Un vaccino, si legge nell’ordinanza, può essere reso obbligatorio solo se si prevede che esso non incida negativamente e in maniera irreversibile sullo stato di salute di chi è obbligato. L’evento avverso “morte”, anche nella misura di un solo caso dimostrabile, esclude la Costituzionalità di un obbligo: le ricadute etiche sono enormi perché si sottintende non solo che vi possa essere una quota di cittadini sacrificabili, ma anche che possa essere fissata una percentuale di cittadini sacrificabili.

Infine, rispetto alla questione su quanto spazio discrezionale poteva avere un Ordine professionale, ricordiamo ad esempio che in occasione del Decreto Legge del 1 aprile 2021, n. 44, convertito con modifiche nella Legge 28 maggio 2021, n. 76,  il Consiglio Nazionale degli Assistenti Sociali aveva richiesto al Ministero della Salute un parere interpretativo dell’obbligo vaccinale, dal quale si è potuto chiarire che gli Assistenti Sociali, pur essendo compresi nell’area delle professioni sanitarie, per il loro specifico lavoro, non erano da ritenersi soggetti all’obbligo vaccinale.

Per questi motivi abbiamo preparato per l’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia una proposta di discussione sui seguenti punti:

  1. Ambiguità come marker culturale della moderna società occidentale
  2. Requisito professionale e abuso della professione
  3. Scienza e responsabilità
  4. Frattura del patto sociale
  5. Dinamica del capro espiatorio
  6. Tutela dei colleghi
  7. Tutela dei diritti dei pazienti

Qui puoi scaricare il documento completo in formato pdf.

Ambiguità come marker culturale della moderna società occidentale

Il D.L. 44/21 è una delle tante leggi eccezionali emesse durante gli ultimi due anni. Un atto governativo che, insieme ai successivi, sancisce un’ambiguità[10] che non può passare inosservata: la compresenza di un obbligo e di un consenso informato.

La COVID-19, così come l’epidemia da SARS-CoV-2, non ha creato nulla di nuovo; ha solo fatto emergere processi, significati e dimensioni culturali che sono sempre stati presenti, seppure sullo sfondo. Anche le nostre riflessioni non hanno niente di nuovo, in quanto riteniamo che la vicenda pandemica e la vicenda vaccinale siano solo dei marker che hanno palesato le premesse culturali di cui, nel nostro lavoro di psicologi, è bene essere consapevoli.

Un elemento che ha colpito tutti è stato la presenza di leggi, condotte e linguaggi[11] che manifestavano un’evidente ambiguità di fondo.

Si è parlato di libera scelta mentre venivano introdotte misure che obbligavano in maniera surrettizia. Si è parlato di libertà mentre si accettava qualsiasi misura di controllo sociale. Si è parlato di comportamenti inclusivi mentre si decretava l’uscita dei cosiddetti no vax dalla socialità comune[12].

Il green pass è uno strumento di libertà e sicurezza; il vaccino è sperimentale, ma è sicuro, fidatevi della scienza: i test di efficacia e di sicurezza sono svolti dalle aziende farmaceutiche produttrici; immunizzati sono coloro che sono inoculati con un farmaco che non sterilizza. Queste sono alcune frasi esemplificative in cui sono compresenti, senza creare alcun problema, referenti simbolici anche molto diversi, che richiamano alla memoria espressioni ambigue come “la nostra non è una guerra ma una missione di pace”.

Frasi del genere evidenziano un atteggiamento in cui si mette in atto (o si afferma) una posizione e contemporaneamente la posizione diametralmente opposta. A volte la persona, o il gruppo, è perfettamente consapevole della duplicità delle posizioni, ma il senso di contraddizione interna, e la sofferenza che ne deriva, non vengono rilevati né denunciati.

Da Argentieri (2008) questi atteggiamenti vengono definiti “ambigui”: gli atteggiamenti, i comportamenti, così come i linguaggi ambigui hanno la funzione di evitare e disattivare il valore e la portata intersoggettiva delle differenze; sfuggono all’angoscia della contraddizione, alla fatica dell’ambivalenza e allo sforzo di doversi porre dei problemi e decidere, infine, da che parte stare.

Eludere stati d’animo penosi è il fine dell’ambiguità. È questo il motivo per cui l’ambiguità, restando nel mondo dell’indifferenziato, nega pericolosamente il registro mentale della differenza. L’assenza e lo smantellamento di istituti e dispositivi atti a mediare e garantire il senso della differenza, lascia gli esseri umani sempre più in balia di quella che Girard (1982) definisce “violenza mimetica”.

Inoltre, la violazione dei fondamenti logici della comunicazione, come il principio aristotelico di non contraddizione, consegna il discorso a una ambiguità ulteriore, fonte di un disorientamento che invalida ogni possibilità di coerenza e consequenzialità logica. Il discorso è invalidato nelle sue possibilità di razionale acquisizione di significato: dove A è uguale e contemporaneamente diverso da A stesso, là è il luogo dell’irrazionale (del sogno o della follia), in cui tutto può essere affermato e contraddetto senza limitazione, in cui la conoscenza razionale è compromessa. Gli effetti di tale operazione sulla comunicazione di massa sono la confusione, uno sforzo interpretativo senza fine, l’adesione passiva, o ancora la difesa irrazionale (o contro l’irrazionale, potremmo dire a questo punto).

Secondo Amati Sas (2020) sono ambigui tutti gli atteggiamenti che rendono vago il valore delle cose. Così si diventa accomodanti, senza però riuscire mai a prendere posizione[13]; si rimane indefinitamente sospesi, fluttuanti (proprio al fine di evitare di fare una scelta).

Secondo l’Autrice, il fine principale dell’ambiguità, anche in termini evolutivi, rimanda ad una funzione di adattamento importante dell’essere umano: l’ambiguità è quella malleabilità, flessibilità, fluidità che permette di adattarci a qualsiasi condizione, consentendoci di negare al contempo la violenza specifica della contemporaneità. L’ambiguità in questo senso sembra essere proprio un marker culturale della società moderna occidentale: se non possiamo sognare il mondo che vorremmo abitare, non ci resta che adattarci ad esso, e rendere meno angosciante la violenza, la corruzione e la sensazione di essere perennemente sull’orlo di un precipizio.

È il “sì… (certo è ingiusto) però… (la scienza dice che)” che fa fuori la partecipazione sociale. Per partecipare ad una comunità, socialmente e attivamente in termini “politici”, è necessario prendere posizione. Proprio per questo motivo Argentieri (2019) definisce gli atteggiamenti ambigui “piccoli crimini della coscienza”, e segnala che questa modalità di relazione con gli altri e con se stessi è sempre più diffusa: dal campo dei rapporti amorosi, al campo della politica fino alla bioetica.

Non è un caso che l’ambiguità sia un atteggiamento così diffuso, perché permette di tenere insieme due caratteristiche della contemporaneità inconciliabili e “impensabili insieme”. Ideali sociali[14] alti e assoluti (quali “il bene comune”) sono assolutamente inconciliabili con la violazione dei diritti umani e costituzionali, ad esempio.

L’ambiguità è quindi un modo per non soccombere ad un Ideale dell’Io troppo elevato, impossibile da sostenere: così è facile poter dichiarare un alto valore morale, senza che il comportamento “immorale” messo in atto possa creare alcun senso di smarrimento. In un mondo in cui i sistemi di sfruttamento, di corruzione e di violenza convivono costantemente con l’interesse proclamato al più alto “bene comune”, è facile che l’ambiguità permetta di trovare un compromesso tra una natura umana “non risolta mai definitivamente” e gli idealietici, che invece ci vorrebbero sempre risolti e dalla parte del giusto, garantendoci così, al contempo, un senso di superiorità morale.

L’ambiguità come modo per sfuggire alla necessità di pensare l’impensabile è anche un modo per iniziare a “sostenere lo sguardo sulla realtà” (Arendt, 1951) ed uscire dalla posizione in cui si conosce e al contempo si ignora. Una posizione dalla quale chiediamo che l’Ordine degli Psicologi si tiri fuori.

In tanti hanno inviato diffide, lettere o hanno cercato contatti personali con i referenti istituzionali, segnalando all’Ordine la situazione spiacevole e drammatica verso la quale si stava andando: le lesioni alla dignità personale, i potenziali pericoli per pazienti e utenti, la sensazione di essere lasciati davanti ad una violenza programmatica, le possibili violazioni costituzionali[15]. Ma l’Ordine ha scelto di ignorare e di non prendere in considerazione l’altro lato della medaglia del “bene-comune”, del “fidatevi-della-scienza”, del “vaccino-salva-la-vita”.

Per certi versi l’ambiguità sta al polo opposto della responsabilità. Per Arendt (1951) prendere posizione è uno sforzo necessario per iniziare a reggere il peso che il pensare la realtà comporta, significa “portare il fardello che il nostro secolo ci ha messo sulle spalle” (Boella, 2020).

Prendere posizione rispetto alle gravi lesioni e alla discriminazione di cui sono oggetto i colleghi iscritti all’Ordine, è per noi un modo per tirarci fuori dall’ambiguità.

Noi non ci abituiamo alla violenza della nostra contemporaneità. Fuori da una posizione vittimistica, ci dichiariamo portatori di uno “sguardo altro” sulla realtà (Bell Hooks, 2018).

Non possiamo che essere d’accordo con Mariotti quando individua nella relazione la matrice fondante dell’etica: solo quando l’altro non è più solo qualcosa di esterno a me, ma una persona libera in mezzo a persone libere, solo quando vi è riconoscimento intersoggettivo della human condition, si può transitare dalla morale divieto (da cui discendono tutte le leggi che “vietano” e “sanzionano pensieri”) “alla morale della risorsa”, “dalla prescrizione esterna ed astratta” “alla situazione impegnata” (Fina, Mariotti,  2019, p. 37).

Requisito professionale e abuso della professione

Non possiamo fare a meno di notare quanto sia difficile aprire un confronto tra professionisti rispetto alla questione vaccinale.

Ogni volta che si prova ad esprimere perplessità o punti di vista “non allineati” (come adesso si usa definirli) sembra calare imbarazzo; sembra di entrare in un ambito “sacro” di cui non si può parlare, e il solo pronunciare la parola tabù diventa “eresia”.

Espressioni quali “lo dice la scienza”, “fidatevi della scienza”, “bisogna credere nella scienza” implicano un atto di fede che è proprio delle religioni: la scienza ha preso il posto della religione come istanza sociale e parlare “spudoratamente” del “sacro” crea imbarazzo. Sembra essersi sviluppato un rapporto con la scienza identico a quello che il fedele del medioevo aveva con la Chiesa. La scienza si dota di un suo Clero e di un tribunale dell’Inquisizione. Le persone vi aderiscono in massa, dando per certo che ciò che essa promulga sia il Vero. Nessuno deve osare contraddirla. Chi non aderisce è un eretico e va escluso dalla collettività, a prescindere dagli argomenti che propone.

È ingenuo pensare che il sacro, nel nostro caso, sia rappresentato dal codice deontologico sempre più interpretato in chiave medico-scientifica? L’imbarazzo può rimandare ad una “grave” violazione deontologica?

Fino al mese di novembre 2021, per iscriversi all’Ordine degli Psicologi Italiani[16] era necessaria una laurea, un periodo di tirocinio e un esame di stato abilitante. La ratio di questi tre requisiti per l’esercizio della professione è talmente evidente da non necessitare spiegazione.

Mentre però si discute di creare lauree abilitanti per rendere più agevole l’ingresso nel mondo del lavoro da parte dei giovani colleghi, come requisito all’esercizio della professione viene imposto per legge, e da non esperti del settore, il possesso della certificazione attestante l’ottemperamento dell’obbligo vaccinale, a prescindere dal settore o dal luogo di lavoro.

In questo modo, la mancata vaccinazione, così come la mancata inoculazione della dose aggiuntiva, equipara il professionista in possesso di tutti i requisiti previsti dalla legge a qualsiasi altro abusivo della professione.

Sarebbe opportuno chiedersi come sia potuto accadere che il nostro mondo professionale abbia accettato con così estrema facilità e senza richiesta di consulto, l’introduzione di criteri arbitrari per stabilire i requisiti di accesso alla professione, con tanto di azione retroattiva (non riguarda solo i nuovi iscritti ma anche chi pratica da anni).

La comunità professionale e purtroppo anche gli Ordini hanno accettato l’introduzione di un criterio arbitrario che rende improvvisamente illegittima e irregolare una posizione legittima.

Il testo “Position Statement sul comportamento antiscientifico e/o contrario all’obbligo vaccinale” dei professionisti sanitari e sociosanitari rispetto alla pandemia da SARS-CoV-2” è stato stilato e sottoscritto da tutti gli ordini delle professioni sanitarie e socio-sanitarie, incluso quello a cui chiediamo audizione.

L’obiettivo dichiarato è mettere al servizio della salute pubblica tutti i professionisti iscritti.

A latere di questo discorso, ricordiamo solo che imporre un paradigma ha sempre dei costi sociali e culturali, e ci chiediamo se sia mai stata attivata all’interno del nostro Ordine una discussione in tal senso.

Inoltre, la salute a cui il testo allude è intesa come assunzione di un vaccino che per altro non esclude, lo ricordiamo di nuovo, né il contagio, né la malattia, né il decesso.

Si è voluta “imporre” la vaccinazione per evitare i focolai, che avrebbero provocato l’interruzione della continuità dei Servizi Pubblici, e tuttavia ciò è comunque accaduto. Non si comprende però perché venga coinvolto anche un libero professionista che lavora all’interno del proprio studio privato, e che tratterebbe la COVID-19 con la stessa diligenza e responsabilità di qualsiasi altra malattia o evento imprevisto.

Non è chiaro poi se gli Ordini, nel richiedere un intervento di “sensibilizzazione” quando non di “persuasione”, stiano invitando implicitamente i professionisti ad esercitare pressioni sui convincimenti di quelle persone che per epistemologia, sensibilità, idee diverse sulla salute pubblica non vogliono acconsentire alla vaccinazione.

Ciò sarebbe in chiaro contrasto con il divieto, stabilito dal Codice, di usare la propria influenza professionale per orientare le scelte del paziente: “nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori” (art. 4).

Si può derogare a questo principio in forza della presunta verità scientifica? Sottolineiamo “presunta” poiché la scienza procede per errori, per rettifiche, per contraddizioni, per confronti, e non per verità univocamente statuite.

Ogni professionista ha l’obbligo di informarsi e formarsi (artt. 5 e 7) e di valutare i dati in possesso dalla comunità scientifica, così come di valutarne l’aderenza alle regole del metodo scientifico, alla precisione del linguaggio e ai metodi di rilevamento e validazione dei dati.

Il collega che non ignora i dati scientifici “incongruenti” ma che si informa sulle ricadute psicologiche di certe pratiche e che valuta l’impatto sulla salute globale delle persone sta semplicemente rispettando il codice deontologico; allo stesso modo del collega che decide di informarsi sulle conseguenze dirette e indirette di certe biotecnologie (in questo caso l’inoculazione di un farmaco nuovo e sperimentale) o che decida di integrare la propria formazione con letture di carattere etico, filosofico, sociologico e antropologico. Un collega deontologicamente orientato dovrebbe, secondo noi, lavorare a garanzia dell’indipendenza delle conoscenze scientifiche.

Inoltre, in che modo viene garantito il principio di neutralità e di rispetto dei convincimenti delle persone che a noi si rivolgono? Non rischiamo di ricalcare vecchie terapie di “conversione” al sapere costituito?

Il testo di cui lo stesso Ordine è firmatario, condanna qualsiasi posizione in contrasto con quella dichiarata e giustifica una serie di scelte arbitrarie tutt’altro che innocenti, ma che si vestono di giustificazioni tecnocratiche (Mignosi, 2020).

L’implicito nella sospensione è l’illecito deontologico da parte di un  professionista che non rispetta le regole di decoro professionale?

Inoltre, vi è un chiaro conflitto tra questo comunicato che condanna i comportamenti “in netto contrasto con la tutela della salute pubblica e collettiva” e l’imposizione di una vaccinazione che non esclude la presenza di eventi avversi anche gravi, in taluni casi anche la morte[17].

Come può un professionista lavorare in scienza e coscienza, se deve tacere a se stesso e agli altri i dubbi, le contraddizioni, le semplici considerazioni?!

Il rischio implicito di questi poteri-saperi (anche in relazione ai criteri di valutazione bibliografici) è stato ben descritto da Profita e Ruvolo (2020): “si tratta in ultima analisi non di lasciare spazio al pensiero, scientifico e non, una libertà d’investigazione e di ampliamento dei saperi, ma di stabilirne i parametri al fine di controllare la validità e la trasmissibilità di un sapere pre-definito” (p. 10).

Perché, se di questo si tratta, riteniamo che debba essere condiviso e discusso all’interno della comunità professionale più allargata.

Se gli psicologi, solo recentemente, sono diventati operatori sanitari, ci chiediamo quale prezzo stiamo pagando per tutto questo.

Scienza e responsabilità

Telmo Pievani, biologo eticista, è un vero scienziato, e nonostante sia assolutamente aperto alle innovazioni tecniche in campo scientifico (ad esempio la bioingegneria e le sue potenzialità nel miglioramento della qualità della vita umana), ritiene fondamentale mantenere  sempre aperta la questione etica nella ricerca scientifica.

L’etica rimanda alla necessità di guardare alle conseguenze di ciò che facciamo, e per questo riteniamo centrale il tenere sempre aperta la questione etica nella ricerca scientifica.

Non entreremo qui nel merito della mancanza di rigore scientifico di molti dei presupposti su cui si fonda l’intera gestione dell’epidemia[18], o del vaccino a tecnologia ad mRNA, sulla cui sicurezza ed efficacia il mondo scientifico sta tuttora vivacemente dibattendo. Qui ci interessano maggiormente gli aspetti psico-sociali sottesi a certe pratiche.

Già Fukuyama (1992) aveva analizzato attentamente i rischi di controllo sociale insiti in una visione politica che delega alla scienza i criteri per stabilire il confine tra bene e male, giusto e ingiusto, bene collettivo ed egoismo individuale.

La marginalizzazione sociale determinata da certe politiche sanitarie ne è testimonianza.

La scienza, come ci hanno spiegato Morin (2001; 2007) o Ceruti (2018), non è per niente neutra, piuttosto ci dovremmo sempre interrogare se e come delegare al modello scientifico (matematico, statistico) la realizzazione della società desiderabile.

Bollas (2018) sostiene che la credibilità intoccabile della scienza possa essere una reazione agli avvenimenti catastrofici del secolo scorso, che hanno portato ad una progressiva perdita di fiducia nelle capacità umane di risolvere i problemi. Le conseguenze non sono irrilevanti: “avendo rinunciato a considerare noi stessi mediatori credibili della nostra esistenza”, l’essere umano è andato alla ricerca di mediatori esterni (professionisti, tecnici, App) “consentendo al nostro cervello di avvizzire nella narcosi della rinuncia al Sé” (p. 33).

Delegare alla scienza le scelte rilevanti sul piano delle vicende personali, nella convinzione della sua presunta neutralità, significa non comprendere fino in fondo il rischio che siano gli algoritmi a governarci.

Del resto, proprio la gestione di questa emergenza sanitaria è avvenuta per mezzo di molti algoritmi. Gli stessi concetti di salute e rischio, sono mutuati dall’ambito statistico-matematico: il rischio, ad esempio, non riguarda mai la singola persona ma una popolazione, è la probabilità che al suo interno accada un determinato fenomeno[19]. Nulla viene detto sulla persona, su come un fenomeno impatti nella vita di quella persona (che è esito di una storia, di convinzioni, di interpretazioni personali sulla qualità di vita e sulla salute).

“Identificarsi con questo tipo di astrazione statistica significa cimentarsi, sosteneva Illich (1976; 1977), in una “radicale algoritmizzazione di sé”: detto in altri termini un costrutto statistico rischia di sostituirsi all’esperienza sensibile, sradicando il soggetto dalla percezione e valutazione, e virtualizzando la realtà fino all’inverosimile (Cayley, 2020).

A partire da considerazioni molto simili, Bollas (2018) si chiede se queste forme di pensiero operazionalizzato, orizzontale, rivolto all’esterno e al controllo dell’esterno, non siano la prova di un soggetticidio incombente.

“Essere, entrare in relazione ed esistere ‘in prima persona’ oggi risulta forse troppo problematico. La critica postmodernista secondo cui il soggetto era un’illusione ha probabilmente rappresentato la prima oggettivizzazione filosofica del suicidio soggettivo. Ora sembra che l’allontanamento dalla generazione del significato abbia distrutto i Sé in modo diverso: li ha lasciati privi di agentività, semplici oggetti in un mondo di oggetti” (ibidem, p. 129).

Non è un caso, per esempio, che per Arendt (1958) la crisi della modernità sia intrinsecamente legata alla crisi dell’azione come strumento di pratica politica.

“Ogni automatismo, dunque, nella lettura del fatto (o del clima) espone al rischio di genericità poiché non tiene conto, appunto, dello specifico mondo interno del soggetto, della sua storia, e in ultima analisi, della ri-traduzione che ogni soggetto opera di quello stesso fatto sociale: è in tal senso che, nella lettura del fatto sociale, lo psichismo non può costituire un fatto secondario, marginale o addirittura inutile” (Mariotti, Fina, 2021; p. 16).

I modelli matematici statistici escludono dall’orizzonte di senso il significato personale, il potere e la competenza personale, a favore della burocrazia e di una amministrazione impersonale.

Spingendo tout court verso una visione operazionalizzabile dell’umano, le scienze rischiano di schiacciare nell’unità (Arendt, 1958) la pluralità della condizione umana: il riconoscimento di un unico bene vale per una società abitata da individui che funzionano secondo i medesimi meccanismi, i medesimi sentimenti, i medesimi comportamenti[20].

Le pratiche sanitarie sono sempre più intrappolate dentro i costrutti matematici di rischio e di salute, contribuendo così alla delegittimazione del “potenziale umano”.

Oggi le persone non possono più prendere consapevolmente una decisione senza avere prima consultato un tecnico, o accedere ad uno spazio “di diritto” senza un’autorizzazione (certificazioni, autocertificazioni, recentemente anche digitali).

Sempre di più, la società “regolata da algoritmi” rende la vita governata da qualcosa di impersonale laddove, al contrario, il controllo si fa personale con una penetrazione sempre più radicale nei bisogni e nei desideri.

La matematica Cathy O’Neil (2018) spiega che gli algoritmi sono un potenziale strumento di controllo dell’umano e chiarisce, con tanti esempi contemporanei, come l’algoritmo alla base di qualsiasi modello scientifico (economico, medico, educativo) sia sempre espressione di un’idea politica tradotta in operazione matematica. È proprio per tale motivo che, dal suo punto di vista, i modelli matematici  rimangono “innocui” fintanto che non vengono formalizzati e proposti come modelli di comportamento adattabili a miliardi di persone.

Quando gli algoritmi vengono “imposti” entrando in una sfera personale (definendo algoritmicamente cosa per una persona sia “bene”), non solo rischiano di diventare modelli di controllo, ma soprattutto rischiano di qualificarsi come generatori di violenza: chi non si adatta a questi modelli viene visto come irrilevante, privo di valore e comunque sacrificabile. Le esclusioni diventano, così, tollerabili proprio attraverso l’irrilevanza che lascia i soggetti “senza possibilità di appello”.

Per Guerrasi (2019), ad esempio, l’irrilevanza è l’unico modo che la nostra società possiede per tollerare la violenza insita nei modelli matematici.

La scienza medica, il cui ruolo indiscusso nella gestione dell’epidemia è intrinseco nella delega a tecnici, rischia di creare sempre più un solco rispetto alle persone reali, alla vita e al senso comunitario delle cose.

Per Kaës (2013) la società post moderna può essere considerata un “agglomerato di individui” che vivono all’interno di una cultura anonima, impersonale, e inseriti in una storia (personale e collettiva) priva di una vera e propria finalità.

L’essere umano, privato di un orizzonte di senso più ampio, vive il dramma di non potersi “fare soggetto”: relegato in una posizione di anonimia egli rimanere drammaticamente incastrato dentro “processi senza soggetto”.

Come professionisti che si occupano dell’umano, della creazione di salute pubblica dovremmo sempre chiederci cosa si celi dietro la semplice affermazione di “somministrare una cura”: quanto sosteniamo percorsi di soggettivazione? Quanto restituiamo alle persone la loro capacità di donare senso a sé e alla propria storia? Quanto, al contrario, avalliamo pratiche alienanti, culturalmente ascrivibili a quei “processi senza soggetto”?

La matematica dovrebbe essere usata con molta consapevolezza e mai dovrebbe diventare modello globale e sociale, proprio perché rischia di tagliare fuori una fetta della popolazione qualificandola, appunto, come irrilevante.

La post-modernità ha reso i professionisti degli erogatori di servizi che con la salute hanno ben poco a che vedere: mentre invece se uno psicologo o uno psicoterapeuta vengono sospesi, non si interrompe un Servizio[21] ma una cura.

Viene sospesa una relazione definendola illegittima, quando non indecorosa (da cui discende la sospensione) e illegale (da cui discende il reato di abuso della professione).

Il dolore e la rabbia che molti pazienti hanno mostrato davanti alla comunicazione della sospensione del proprio professionista attiene a tutto questo, alla violenza che crea una cesura e che con la loro salute ha ben poco a che fare.

Questi aspetti dovrebbero essere al centro del nostro confronto professionale, anche solo per contribuire ad uscire dal “silenzio etico” di questa epoca (Fina, Mariotti, 2019).

Frattura del patto sociale

La decisione di sottoporre a limitazione la libertà di un cittadino è un atto istituzionale essenziale e ineluttabile all’interno delle società contemporanee.

In virtù di ruoli e/o compiti specifici ciascuno di noi dovrà stabilire con le istituzioni che lo definiscono, ciò che può essere considerato un vero e proprio contratto da cui scaturiscono divieti/obblighi e opportunità.

Già la semplice “cittadinanza” è una categoria di ruolo che si articola in una congerie di aspettative (divieti o obblighi) o diritti (opportunità). Quanto più è specifico il ruolo, tanto più lo è anche il suo corredo.

Alcuni di questi elementi spesso non sono prescritti esplicitamente, ma vengono comunque molto sentiti e praticati per tradizione informale; essi sono capaci di incoraggiare o scoraggiare specifici comportamenti e generare conseguenze sociali che possono impedire o promuovere una corretta assunzione di ruolo.

In psicosociologia i divieti rientrano nell’ambito del cosiddetto “patto denegativo”, mentre i vantaggi in quello del “contratto narcisistico” (Kaës, 1991).

In altri termini, il patto/contratto che lega cittadino e istituzione stabilisce a cosa egli debba rinunciare e quale vantaggio egli ne possa trarre. Affinché un ruolo possa prevedere vincoli anche severi, è fondamentale che restituisca, in cambio, privilegi e possibilità precipue. Un insegnante, per esempio, dovrà astenersi da intrattenere relazioni fisiche con i propri allievi, ma avrà il potere di giudicarne e sanzionarne la condotta.

Applicando tali criteri interpretativi, possiamo desumere che l’introduzione dell’obbligo vaccinale quale patto denegativo (giacché vieta a diverse categorie di cittadini di accedere a comuni diritti), a qualsiasi livello, a qualsiasi scopo e per qualsivoglia intervallo di tempo, debba onorare il contratto narcisistico con i cittadini sottoposti all’obbligo stesso. Ciò sembra tuttavia non accadere. Il consenso informato che l’obbligato è chiamato a sottoscrivere al momento della vaccinazione è infatti una liberatoria da qualsiasi onere a carico dell’istituzione che ha imposto l’obbligo (anche dai rischi che egli corre per la propria salute, a cagione della vaccinazione medesima). L’istituzione cioè non rassicura l’obbligato, non lo rinfranca in alcun modo: non può essere infatti considerato un vantaggio narcisistico o di alcun tipo, l’accesso ai servizi e i diritti che egli possedeva prima che gli venissero sottratti; e tantomeno il diritto di essere risarcito qualora qualcosa dovesse andare storto dopo la somministrazione.

In ambito psicoanalitico già Elliot Jaques (1955) ha affermato che in ogni organizzazione sociale (e quindi anche in ogni istituzione, quale sua dimensione valoriale, affettiva ed inconscia) si realizzano i meccanismi di difesa per proteggere dalle angosce psicotiche che essa stessa produce nelle persone che le abitano. Il paradosso è solo apparente e, a ben vedere, tale principio è congruente con il costrutto di patto/contratto concepito da Kaës. L’assoggettamento dell’individuo alle istituzioni lo espone ad un sentimento di impotenza e pericolo che solo opportuni (talora primitivi) meccanismi di difesa collettivi possono contenere.

Secondo questa rappresentazione, l’intero architrave di ruoli, organigrammi, mansioni, retribuzioni, diritti e doveri, esplicita una struttura visibile e intelligibile che argina la paura di essere schiacciati dal potere dell’organizzazione/istituzione.

Dunque, a nostro avviso, la domanda da porsi è la seguente: in che modo la politica sanitaria di questi ultimi due anni ha saputo contenere le angosce e rassicurare i cittadini?

Le organizzazioni politiche e sanitarie di tutta Europa e in particolare italiane, hanno stabilito di comunicare il rischio del contagio in termini esplicitamente o implicitamente terrorizzanti, sostenendo chiaramente la responsabilità dei non vaccinati. Nonni e cari con disabilità di ogni tipo sono stati individuati come vittime di designati colpevoli.

Al di là delle molteplici argomentazioni che potrebbero mettere in discussione questa rappresentazione, essa è psicologicamente pericolosa, giacché suddivide in buoni e cattivi gli abitanti della comunità (che smette così di essere tale), inasprendo i vissuti irrazionali e provocando paura tanto nei primi, minacciati dai cattivi untori, quanto nei secondi, a cui rimane soltanto la scelta tra accettare di essere esclusi dalla comunità o sottoporsi alla vaccinazione senza nessun paracadute offerto dallo Stato.

Uno Stato che addita capri espiatori e che incoraggia la delazione contribuisce a diffondere il panico (angoscia psicotica), ma non istituisce strutture atte alla protezione dei suoi cittadini da esso, salvo primordiali arnesi difensivi improntati al controllo paranoico, alla scissione e alla proiezione. Non si assume così la responsabilità degli eventuali danni da vaccino. Inoltre rinuncia al compito primario di difesa della comunità, sottraendosi all’onere di riconoscere pubblicamente la parzialità di scelte che, qualora fossero state  vagliate, riconosciute e sostenute come tali – ovvero parziali – avrebbe permesso allo Stato stesso di mantenersi autorevole.

Dinamica del capro espiatorio

Sono stati denominati “no-vax” tutti coloro che, a vario titolo e in ragione di percorsi personali anche radicalmente diversi, hanno preso una posizione di dubbio o di rifiuto nei confronti della campagna vaccinale, ma anche delle politiche sanitarie relative all’epidemia. Paradossalmente sono finiti nella categoria anche coloro che hanno iniziato il protocollo vaccinale previsto, ma non lo hanno terminato per i motivi più vari, anche per esempio per aver riportato danni in seguito al vaccino.

I cosiddetti no-vax sono stati esposti alle dinamiche di marginalizzazione e di criminalizzazione del diverso, quando non di una vera e propria psichiatrizzazione del dissenso[22].

Girard (1982), antropologo francese scomparso recentemente, ha scritto tanto sul capro espiatorio: durante le crisi collettive (come potrebbe essere una pandemia o una pestilenza) il capro espiatorio permette al gruppo sociale di “liberarsi” della violenza, canalizzandola su un bersaglio legittimo e non pericoloso. Il capro espiatorio di fatto è innocuo, perché il suo assassinio non sarà vendicato[23].

Ma di quale violenza parla Girard? Le gravi crisi sociali sfaldano e minano la solidità del legame di comunità, svincolando quella violenza fino a quel momento regolata e contenuta grazie ai “garanti metasociali”. Attorno al “capro espiatorio” si creano, così, nuovi miti e nuove credenze, il cui fine è quello di cementificare, anche solo provvisoriamente, il patto sociale messo in crisi.

Non vi è dubbio che la recente epidemia abbia scatenato angosce profonde, abbia smantellato gli “organizzatori psichici” di lunga durata e messo in crisi istituzioni secolari, esponendo ad una violenza profonda i gruppi e le comunità.

E la violenza attivata da ansie, angosce e paure si placa soltanto attraverso un sacrificio. Il capro espiatorio riesce perfettamente in questo compito, in quanto è al contempo reietto (colpevole) e salvatore (libera la comunità dalla violenza). Ma sappiamo anche che l’istituzione di un capro espiatorio non rimette a posto le capacità di simbolizzazione della sofferenza, della mortalità, della precarietà e della ferita narcisistica.

L’impreparazione delle nostre istituzioni rispetto alla gestione dell’epidemia è sotto gli occhi di tutti, testimoniata spesso anche da una decretazione al limite dell’ossessivo. Una gestione paternalistica che scarica sugli individui singoli (ora i runner, ora i cosiddetti “negazionisti[24]”) la responsabilità della situazione. Il capro espiatorio, ultimamente identificato nel no-vax, è colui che, se escluso dalla comunità, permette alla comunità di riprendere una vita “normale”.

Non possiamo fare a meno di pensare a tutte quelle leggi che hanno restituito libertà ai vaccinati grazie alla limitazione della libertà dei non vaccinati, il cui destino è stato assolutamente irrilevante ed insignificante agli occhi dei più. La maggioranza silenziosa, liberata dal pesante fardello, non ha sottoposto la narrazione ad analisi critica, colludendo con la sua logica irrazionale.

In questo senso, il rischio più grande è che il legame sociale si regga grazie alla “menzogna del capro espiatorio”.

Il capro espiatorio attiva un sentimento di vendetta che dilaga velocemente per “contagio mimetico[25], un’emozione collettiva talmente forte da diffondersi a macchia d’olio all’interno della comunità, e interessando anche i membri meno coinvolti. La folla contagiata è pronta a seguire la prima indicazione di un colpevole additato da un leader per concentrare contro questo bersaglio tutto l’odio di cui è carica.

Uno dei miti attorno al quale ruota la dinamica del capro espiatorio è stato proprio quello del vaccino, la cui autorizzazione è avvenuta più per fede che per rigorosità scientifica.

Molti di noi ritengono che il vaccino sia stato un espediente tecnico non relazionale che ha permesso alle persone di placare specifiche angosce.

Robi Friedman in un recente convegno (2020) che si è svolto proprio alla fine del primo lockdown, ha teorizzato la presenza di una specifica matrice di gruppo definita da lui corona matrix,caratterizza da paure omicide e di contagio e  da un profondo senso di colpa. Il vaccino sembra avere mitigato la colpa relativa all’essere fonte di contagio o di essere contagiato (oltre alla paura della propria morte), poiché si ritiene che il contagio avvenga per qualche comportamento immorale o irresponsabile.

Non è un caso probabilmente che, nonostante il farmaco sia stato brevettato come vaccino per la COVID-19, esso sia stato diffuso, anche nei testi di legge, come vaccino contro il SARS-CoV-2, ovvero come prevenzione del contagio, pacificando il senso di colpa. Così il vaccino diviene la nuova religione che assolve e deresponsabilizza tutti.

Lo statuto di colpevole è un a priori e la certificazione di essersi vaccinato, le certificazioni di esenzione o di differimento rispondono alla stessa medesima logica: servono a dichiararsi innocenti, o a salvarsi dalla condanna.

Hopper (2021), all’interno di una visione più analitica, ritiene che quanto accaduto durante il periodo epidemico possa essere riletto facendo riferimento alla teoria degli assunti di base (Bion, 1961). Egli, infatti, ritiene che quando i gruppi vengono attraversati da traumi sociali, questi suscitano ed attivano delle paure psicotiche di annichilimento. In maniera più specifica, quando un gruppo è così fortemente colpito da minacce di annichilimento, mette in atto una serie di strategie che vanno dall’agglomerato alla massificazione, e che testimoniano l’attivazione del quarto assunto da lui stesso definito dell’incoesione:le istituzioni perdono la loro identità strutturale, vi è una regressione alla semplificazione, il pensiero e i sentimenti si esprimono attraverso stereotipi di massa (con evidente avversione nei confronti di tutto ciò che di individuale può essere espresso) e l’ideale del gruppo è un ideale di uguaglianza, inteso come ideale di essere “tutti la stessa cosa”. Gli stereotipi di massa esprimono anche una violenta dimensione comparativa e valutativa tipica del pensiero binario.

Il gruppo in assunto di base incoesione, ci permette di rispondere anche alla domanda su come mai in questi mesi non si sia riusciti, all’interno della nostra comunità professionale, ad avviare un confronto che possa andare oltre alla logica bipolare sì-vax/no-vax.

In questi mesi abbiamo assistito ad una semplificazione del dibattito, una proliferazione di stereotipi e di luoghi comuni al limite del ridicolo[26], la cui funzione è duplice: da un lato esercitare sui membri una pressione ad aderire e conformarsi in maniera ritualizzata ai valori e alle norme dell’organizzazione, dall’altra escludere e marginalizzare chi non si conforma.

L’establishment, che ha il potere di manipolare le norme di giudizio, tende a istituire dispositivi atti a escludere le persone che non si conformano. All’interno di questa prospettiva, sia il totalitarismo che il processo del capro espiatorio sono esiti dell’assunto di base dell’incoesione.

Nel processo del capro espiatorio, secondo Hopper (2021), le persone non conformi possono subire due destini: o vengono considerati  “subspecie”[27], “esseri non umani”, o al contrario vengono visti alla stregua di fratelli minori irresponsabili e immaturi[28]. Ricordiamo a tal proposito l’articolo “Il pasto gratis dei no vax” che esprime perfettamente questa dinamica quando descrive i no vax come persone che hanno deciso di mangiare il piatto gratis alle spalle di chi fa il proprio dovere civico e che disperdono l’impegno collettivo.

Come professionisti siamo tenuti a mantenerci dentro processi di conoscenza scientificamente orientati, che includono anche le scienze sociali, antropologiche e filosofiche.

Ci aspettiamo quindi che l’Ordine prenda posizione all’interno del dibattito scientifico, dando voce a riflessioni che non possono essere taciute, proprio per il bene della scienza e della collettività.

La dinamica del capro espiatorio è infatti molto pericolosa perché depotenzia le capacità simboliche individuali e collettive, e quindi può portare ad esiti nefasti, sia per la società nel suo complesso, sia per le persone che la compongono.

La Psicologia possiede specifiche e potenti categorie di lettura dei fenomeni sociali, e non può esimersi dal dibattito, per procedere oltre la semplificazione dell’assunto incoesione.

Tutela dei colleghi

Una delle questioni principali riguarda la ratio che ha stabilito che i sanitari siano stati i primi ad essere soggetti ad obbligo e al contempo siano, ancor oggi, gli unici per cui l’obbligo vaccinale comporti la sospensione immediata dal lavoro con privazione conseguente della propria fonte di sostentamento economico (a volte unica).

Sarebbe stato auspicabile motivare alcune scelte cosiddette sanitarie a partire da un’analisi di indicatori di rischio (se vogliamo rimanere nell’ambito del tecnicismo) che evidenziano come i sanitari siano una categoria più a rischio delle altre.

Volendo, quindi, anche far propria la discutibile differenziazione tra operatore pubblico e privato, esistono degli indicatori che rendono lo studio privato di uno psicologo o di uno psicoterapeuta più a rischio di un qualsiasi altro studio professionale? Per altro, va segnalato che la sospensione di un libero professionista, al contrario di un dipendente pubblico, comporta delle conseguenze professionali ancora più gravi, nella misura in cui solo il libero professionista, al momento del reintegro, si troverà costretto a riavviare la propria professione da capo[29].

Nonostante si continui ad affermare che la gestione delle emergenze sia improntata a logiche meramente tecnico-scientifiche, non si comprende quali siano i dati scientifici che ne supportano la ratio, soprattutto alla fine di una emergenza che è durata due anni.

Abbiamo già discusso come, “al fine di tutelare la salute pubblica”[30], la vaccinazione sia divenuta requisito professionale per l’esercizio della professione.

Se è vero che non blocca l’infezione nei Servizi pubblici (cosa evidente nella cronaca e nell’esperienza diretta di ognuno), non si capisce perché la vaccinazione sia “requisito” abilitante per chi opera nello studio privato, dove le misure di sicurezza e i dispositivi di protezione sono sempre stati garantiti secondo disposizioni di legge.

Ci chiediamo quindi, insieme a tanti cittadini che osservano sgomenti la violenza di certi provvedimenti, la motivazione per la quale l’Ordine non sia intervenuto sulla questione “requisito”, tanto da consentire di rendere illegittime, abusive e irregolari perfino le posizioni e le relazioni professionali di quei colleghi che lavorano esclusivamente online.

Se oggi la psicologia è entrata a pieno titolo tra le professioni sanitarie[31], è anche vero che molti psicologi svolgono una funzione che di sanitario ha ben poco, se con tale termine intendiamo le “attività volte alla prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione”.

Tanti psicologi non lavorano all’interno del “contenitore sanitario” e non vedono pazienti, ma nonostante questa evidenza, sono stati sospesi o costretti, loro malgrado, ad una vaccinazione non voluta.

La sospensione ha per altro delle ricadute sui rapporti lavorativi, andando a ledere in alcuni casi relazioni di fiducia e reti professionali: il lavoro di questi professionisti non si svolge mai solo su compiti e obiettivi ma sulla gestione di processi e di percorsi, anche nel caso di colleghi che si occupano di formazione.

Sarebbe stato opportuno interloquire con i legislatori per rappresentare le istanze che, anche in buona fede, possono non aver considerato in maniera corretta.

Riteniamo altresì che l’Ordine debba promuovere azioni volte alla salvaguardia della salute pubblica, anche di quella dei propri iscritti, per i quali vige la regola della colleganza[32].

Rispetto all’obbligo vaccinale diretto ed indiretto[33] vorremmo, quindi, porre all’attenzione di codesto Ordine un aspetto psicologico decisamente non irrilevante, e conseguente ad una gestione poliziesca e paternalistica dell’epidemia.

I professionisti sanitari, come tanti cittadini, sono stati oggetto di un vero e proprio ricatto vaccinale, un ricatto che lascia una traccia visibile.

Come qualsiasi metodo educativo fondato sulle umiliazioni e sulle frustrazioni, rischia di alimentare una catena invisibile di veleno sociale.

Non permettere a liberi professionisti, validi, capaci e formati, di esercitare il lavoro per il quale hanno faticato anni, è fortemente in contrasto con i principi etici[34] di ogni professione sanitaria, che dovrebbe avere al centro la salvaguardia della dignità personale[35] di tutti gli individui.

La “solidarietà sociale”, così ben evidenziata nella campagna vaccinale, entra in netto contrasto con la dimensione coercitiva della stessa, tanto che nessun medico vaccinatore eseguirebbe alcun intervento clinico senza avere prima acquisito un consenso informato[36].

Tralasciando l’assurdità logica di un consenso ottenuto sotto forma di coercizione, il bene comune non può mai ledere il rispetto della dignità personale, come è chiarito nella Costituzione Italiana (art. 32). Nel caso della vaccinazione, l’articolo in questione prevede come limite espresso ai trattamenti sanitari, quando resi obbligatori per legge, il rispetto della persona umana[37].

La sospensione dall’attività lavorativa e dalla relativa retribuzione per chi non ottemperi all’obbligo vaccinale contrasta dunque con i valori fondanti la nostra Costituzione.

Impedendo ai colleghi sospesi di esercitare la propria attività lavorativa e di percepire la relativa retribuzione, li si priva della possibilità di vivere liberamente e dignitosamente. In sostanza viene meno il rispetto della loro persona, della loro dignità, oltre che della dignità della loro famiglia, che anche (o a volte soltanto) grazie a quell’entrata economica trovava sostentamento.

E non si può fare a meno di osservare che togliere i mezzi di sussistenza attenti anche allo stesso diritto alla salute: intesa come salute fisica, psichica e sociale.

Inoltre, non va dimenticato che, come recita l’articolo 36 della Costituzione, la finalità della stessa del lavoro e della relativa retribuzione è “garantire un’esistenza libera e dignitosa” ai lavoratori stessi e alle loro famiglie.

È chiaro che molti cittadini e professionisti abbiano subito una forte pressione psicologica, che possiamo definire violenza simbolica, da alcuni definita anche oppressione istituzionale, proprio nella misura in cui sono diventati oggetti di biasimo, isolamento nei posti di lavoro, denigrazione professionale, licenziamento, interruzione di percorsi di terapia personale, interruzione di percorsi  formativi professionalizzanti e per ultimo di provvedimenti di sospensione per mancanza di requisiti all’esercizio della professione.

Il provvedimento di sospensione, nel “rispetto”[38] della legge, ha creato malessere in tutti quei professionisti che sulla professione avevano fondato e costruito un progetto personale e professionale, che sulla garanzia di un lavoro avevano sviluppato investimenti per la propria famiglia, e che hanno subito una drastica interruzione degli introiti economici in un momento per altro di difficile crisi economica dell’intero nostro Paese.

Come pensare che tutto questo, a proposito di bene comune, non graverà sul Welfare State[39]?

Questa pressione psicologica (perdere il lavoro, interrompere una carriera, minacciare un progetto di vita) può portare a situazioni di grave malessere (si guardi la letteratura sul tema a titolo esemplificativo), a condizioni di ipervigilanza e di preoccupazione costanti.

Tutto ciò non può continuare ad essere celato perché, come sappiamo da anni grazie agli studi sulle pressioni psicologiche e sulle violenze simboliche, il silenzio è il miglior alleato di questo malessere.

Il silenzio porta con sé sempre un malessere aggiuntivo, e il disconoscimento della sofferenza crea un circolo vizioso che, almeno in questo caso, speriamo possa essere interrotto, anche grazie alla nostra azione ed all’intervento dell’Ordine.

Il Consigliere Calogero Lo Piccolo scrive in un recentissimo articolo (2021): “viviamo in un sistema abusante di cui siamo tutti vittime poco consapevoli, a volte, e che spesso colludono con il sistema abusante. Conoscere se stessi oggi vuol dire individuare le personali soglie di tolleranza (…). Governare se stessi ha molto a che fare con la possibilità di individuazione di queste soglie. E sul rispetto delle stesse (…) La psicoterapia è in fondo un apprendimento dell’esperienza, ma un apprendimento che verte soprattutto sull’effetto delle soglie e il rispetto delle stesse. Per non diventare l’abusante di me stesso, o la vittima inconsapevole che collude con l’aggressore”.

Come può un professionista lavorare su questi obiettivi se istituzionalmente gli viene negata la possibilità di comprendere e rispettare le proprie soglie di tolleranza?

Sappiamo bene che la capacità di un professionista di esplorare aree di funzionamento mentale e di sostenere il paziente in un processo di cambiamento dipende dalla capacità e possibilità di esplorare il proprio funzionamento mentale.

Alla luce della fine dello stato di emergenza, delle odierne conoscenze scientifiche sull’efficacia assoluta e relativa dei vaccini e delle ricerche sugli eventi avversi, diviene necessario e urgente un intervento in tal senso di Codesto Ordine e del CNOP, a garanzia di una posizione che non può essere sbrigativamente liquidata come antiscientifica[40].

La tutela dei colleghi professionisti dovrebbe essere una priorità di questo Ordine, così come la difesa della qualità del lavoro degli stessi.

Non garantire il confronto tra colleghi entro gli Ordini professionali ha impedito di offrire al Legislatore contributi a tutela della salute pubblica e dei colleghi che hanno scelto altre forme di protezione individuale. Il malcontento così viene indirizzato agli Ordini e non più al Ministero. Quella che doveva essere un’azione necessaria nell’ambito della concertazione sociale, si sta spostando dentro le aule di Giustizia e gli studi degli avvocati, anche a causa del silenzio istituzionale degli organi sussidiari coinvolti.

Tutela dei diritti dei pazienti

Il rapporto psicologo-cliente, e ancor di più quello tra psicoterapeuta e paziente, è qualcosa di “sacro”, e quindi va tutelato.

Il fatto che una legge possa disporre, in base ad un criterio arbitrario, l’immediata sospensione di terapie, relazioni di aiuto, percorsi formativi in corso, entrando nel merito di un rapporto basato sulla fiducia (e non chiedendosi nemmeno in che tempo della relazione tale sospensione avvenga), è qualcosa che non ha precedenti.

Professionisti di qualità, etici e interpreti seri di una deontologia professionale si trovano a dover abbandonare pazienti (con l’interessamento di famiglie e di gruppalità varie), la cui salute e serenità sono già gravemente compromesse dalle vicende sociali odierne.

Sappiamo bene come questo Ordine abbia a cuore la salute dei cittadini. Lo ricorda il Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia – Dott.ssa Gaetana D’Agostino – in occasione del mancato rinnovo del contratto a 19 psicologi da parte degli Ospedali Riuniti Villa Sofia-Cervello. In una intervista in cui manifestava solidarietà e sostegno alla causa di questi colleghi, la D.ssa D’Agostino riteneva “assurde (le scelte dell’Azienda) in quanto lesive sia per una intera categoria professionale che per i pazienti e i loro familiari, che hanno visto negato il loro diritto alla salute. Dall’oggi al domani anche loro si sono trovati senza assistenza psicologica con un grave problema da affrontare e riteniamo che questa sia una visione miope dell’Azienda e speriamo che risponda al più presto a quelle che sono le esigenze dei loro pazienti e degli operatori sanitari (…). Due anni di pandemia ci hanno insegnato che occuparsi di salute significa anche occuparsi di salute psicologica”.

Condividiamo le parole della Dott.ssa D’Agostino e ci chiediamo come mai la stessa attenzione non sia stata posta nei confronti di tutti quei pazienti a rischio suicidario, con disturbo ossessivo-compulsivo, affetti da paranoia, schizofrenia, nei confronti di adolescenti autolesionisti, di pazienti borderline, donne maltrattate il cui diritto alla cura era quanto meno garantito (non avevano di certo sciolto alcun tipo di contratto con il professionista).

Perché il diritto alla cura di queste persone è stato più volte ignorato? Perché un contratto non rinnovato per scelte interne ad una Azienda è oggetto di maggiore interesse rispetto a un contratto tra un professionista e “un paziente” che viene tranciato in maniera brusca e violenta per una legge di cui, per altro, sono dubbi, lo ribadiamo nuovamente, i profili di costituzionalità?

Quando parliamo di “cura” delle persone facciamo, inoltre, riferimento al fatto che le forme di malessere di molti dei nostri pazienti rimandano profondamente al clima sociale della contemporaneità (non possiamo fare a meno di notare come le richieste di aiuto siano aumentate durante la crisi sanitaria della COVID 19).

Il soggetticidio di cui parla Bollas (2018) rimanda proprio all’idea che le persone oggi soffrono per una difficoltà di accedere a uno sguardo interno e, di conseguenza, a forme di soggettivizzazione e di ricerca di senso personale.

Le persone che si rivolgono a professionisti, oggi, soffrono perché smarriti nel mondo delle scelte, persi in una nientificazione del senso personale e soggettivo[41], annichiliti da ideali iperprestativi, che schiacciano il Sé dentro una pura logica omologativa e livellatrice. Portano un vissuto di catastrofe imminente e la sensazione angosciante di essere in balia di forze esterne ingovernabili, che fanno scivolare dalla possibilità di essere autore al sentirsi preda di un avvilente vissuto di impotenza.

I pazienti che spesso si rivolgono ai professionisti “si sentono immersi in una realtà a cui è venuta meno la processualità esistenziale indispensabile, nell’avvio del percorso di soggettivizzazione, a riconoscere la necessità dell’acquisizione di responsabilità individuale e progettuale. Si tratta di una mancanza sostanziale, che perpetua l’assenza di pensiero e abbandona il soggetto al potere della deriva di un caos identitario a cui si reagisce con forme difensive estreme” (Fina, Mariotti, 2019, p. 119).

L’eteronormatività diviene così la forma principale che rimane per potere regolare e regolarsi. Come ricorda Stanghellini (2020), oggi “la macchina-di-dentro” sta lasciando il posto alla “macchina-di-fuori”, con il rischio di una sempre maggiore delega e un’accettazione passiva di situazioni totalitarie.

A partire da una prospettiva diversa, Pigozzi (2019) segnala come il mancato processo di soggettivizzazione lasci pericolosamente spazio a quella che chiama ombra totalitaria. “L’ombra totalitaria” – sostiene – è sempre indissolubilmente legata a un’umanità narcotizzata, dormiente, ubbidiente. Nelle nostre democrazie senza pensiero critico, i ragazzi – nonostante apparenti proteste – sono docili e ubbidienti, psichicamente allevati per essere sudditi” (p.160).

Le persone che chiedono un aiuto sono alla ricerca di relazioni validanti, volte alla soggettivizzazione: ricercano una relazione all’interno della quale possano contrastare il proprio sentirsi schiacciati da logiche anonime, impersonali, di oggetto tra oggetti. La relazione terapeutica svolge una funzione essenziale in quanto permette una visione di sé competente, sostiene scelte “coraggiose”, allena all’ascolto di sé in rapporto agli altri. Detto altrimenti, consente di sviluppare una competenza meta che aiuta a pensare ciò che sovradetermina, di scegliere una posizione soggettivizzante ed autentica nel mondo, che dia voce ai “nuclei viventi rimasti in attesa” (Modell, 1986).

Trovare uno spazio per dare senso a tutto questo è fondamentale: la presenza di un contenitore vivo, capace di animare gli aspetti vivaci e creativi della mente all’interno di una relazione solida e significativa spesso è uno dei primi passi per avviare un reale processo di cambiamento.

Già molte ricerche individuano nella “relazione terapeutica” un fattore aspecifico indispensabile per qualsiasi processo di cambiamento: relazioni che permettono di compiere “esperienze emozionali correttive” (Alexander et al., 1946).

In effetti, proprio la comparsa nel dialogo clinico di strutture e dinamiche mentali relative all’attaccamento, è condizione che potenzialmente permette esperienze relazionali correttive nel paziente, di regola accompagnate dallo sviluppo delle capacità metacognitive (Liotti e Monticelli, 2014).

Lo stesso Bowlby (1996) ha sottolineato come la relazione terapeutica possa costituire un importante fattore di cambiamento dello stile di attaccamento, consentendo al paziente di passare da uno stile insicuro a uno stile sicuro.

In questo processo, il compito del terapeuta è anche quello di agire come una figura di attaccamento, creando una base sicura che consenta al paziente di procedere nell’esplorazione delle proprie esperienze e dei propri vissuti di attaccamento, favorendo esperienze emozionali correttive capaci di disconfermare i modelli operativi interni insicuri.

Quella logica che permette di tranciare con estrema facilità una relazione significativa costruita con impegno e innumerevoli sforzi personali, quanto può essere replicante di questo “sentirsi oggetto tra gli oggetti”? Quanto la possibilità di sospendere un professionista in base ad un criterio arbitrario diviene replicante di una logica che permette di pensare che le relazioni siano parimenti discontinue e sostituibili? Quanto una situazione così descritta va a ledere, come mai successo fino ad ora, il diritto dei pazienti alla cura e alla scelta del curante?

Non possiamo fare a meno di chiederci quanto sia realmente tutelante per questi pazienti, che presentano delle vulnerabilità emotive di una certa rilevanza, interrompere una psicoterapia senza nessuna valutazione dei rischi.

Molti pazienti, a seguito della comunicazione dell’interruzione sine die[42] dei propri “legami” terapeutici, hanno manifestato rabbia, disorientamento, la sensazione di schiacciamento e di quell’anonimia che abbiamo più volte segnalato in questo documento.

Proprio nel luogo dove stanno apprendendo e scoprendo il valore della propria diversità (al di là dei dispositivi psichici omologanti e annichilenti il sé) vivono, di nuovo, l’esperienza di non essere stati pensati e garantiti.

L’esperienza di dolore di queste persone è stata talmente forte da avere toccato livelli di sfiducia istituzionale molto forti, sensazioni di angoscia, di abbandono e la sensazione che sia la persona, che la stessa relazione, venissero nuovamente inglobate nell’acquiescienza, nell’omologazione, nel “divieto a pensare” in una visione esclusivamente replicante dell’umano.

Va, inoltre, segnalato come la stessa comunicazione ai pazienti della propria sospensione sia avvenuta al di fuori di un setting/contenitore terapeutico (che sappiamo essere il “dove” si colloca l’intervento). Il setting, non lo dovremmo ricordare, è ciò che circoscrive, caratterizza e definisce l’attività clinica.

L’integrità del setting permette di costruire un solido contenitore interno che consente l’elaborazione e la simbolizzazione dell’esperienza vissuta.

Winnicott (1970; 1975) usa il termine setting per indicare quel contesto relazionale che, in quanto area transizionale, permette di pensare i fenomeni ed i sintomi, di dare loro significato e di creare nuove possibili connessioni: come può essere gestita la rabbia, la delusione, la riattivazione di parti traumatiche anche di tipo transferale, se il professionista è sospeso e quindi non autorizzato a “trattare” il proprio “ex paziente”, e il setting è stato dissolto per legge?

La stessa comunicazione della sospensione e relativa motivazione, in alcuni casi si è configurata come self-disclosure inappropriata (soprattutto emotiva: la sospensione ha un chiaro impatto emotivo sul professionista) che sappiamo essere correlata con una rottura dell’alleanza terapeutica.

Se è vero che il processo terapeutico procede per rotture e riparazione dell’alleanza (Costantino, Castonguay e Schut, 2002), è altrettanto vero che i pazienti che hanno sentito nella comunicazione una rottura dell’alleanza terapeutica si sono ritrovati soli nel potere dare senso a quanto accaduto al terapeuta e alla stessa relazione.

In maniera ancora più specifica possiamo intendere, in accordo con De Bei, Colli e Lingiardi (2007) che “il processo terapeutico” possa essere considerato “come il tentativo di costruire (alleanza terapeutica) una relazione sicura (attaccamento) attraverso una serie relativamente identificabile di vicissitudini (rotture, riparazioni), caratterizzate da dinamiche che coinvolgono la soggettività dei partecipanti (transfert, controtransfert)”.

Non possiamo non chiederci se l’Ordine degli Psicologi abbia pensato a queste conseguenze, non banali, di una sospensione avvenuta non per mancanza di titoli (uno psicologo che fa psicoterapia, ad esempio) ma per un criterio non specifico stabilito dentro una stanza ministeriale.

Sarebbe opportuno che l’Ordine prendesse una posizione anche in merito alla tutela delle persone che hanno liberamente scelto la persona con cui avviare un processo di cambiamento personale (per caratteristiche umane del terapeuta, per la sua personalità e il suo modo di partecipare alla relazione, per caratteristiche di setting).

La comunicazione della sospensione del proprio terapeuta ha accentuato le angosce abbandoniche e le rabbie, aumentando la sfiducia nelle istituzioni e nel mondo scientifico.

E proprio in un momento storico in cui la sfiducia nelle istituzioni è alle stelle, dovremmo seriamente chiederci se la scelta di non rappresentare e “difendere” i percorsi di cura tuteli veramente l’importanza e l’immagine sociale della nostra professione.

I soggetti che si rivolgono ad un professionista della psicologia, in senso ampio, presentano aspetti molto delicati, la cui attenzione e tutela dovrebbe essere un impegno di tutta la comunità professionale.

Non siamo soltanto in assenza di alcuna evidenza scientifica che vuole uno studio professionale privato di natura psi (caratterizzato da misure igieniche previste dalla legge, non affollato, confortevole) luogo pericoloso per i soggetti “fragili”, ma è anche necessario chiedersi a questo punto cosa “abbiamo in mente” quando parliamo di soggetto fragile: immunodepresso? malato? malato di cosa?

Ci chiediamo e chiediamo come mai sia stato così facile accettare questa visione di fragilità che è una definizione chiaramente mutuata dalla medicina “del rischio”, a discapito di una “fragilità” psicologica più legata ad una vulnerabilità soggettiva, all’insicurezza nelle relazioni, alla mancanza di fiducia nel prossimo o nel futuro, a relazioni maltrattanti, a sensazioni di annichilimento e confusione.

Come mai nella discussione è stata prevalente la visione di una “fragilità” non chiaramente definita neppure da un punto di vista medico, e non la tutela delle “vulnerabilità psicologiche” e dei bisogni psicologici delle persone che si rivolgono ad un professionista?

Il presupposto iniziale su cui si è basato l’obbligo vaccinale era quello di “proteggere i fragili” e su questo hanno aderito gran parte dei colleghi. Ma questo ipotetico paziente fragile da proteggere è forse meno capace di comprendere quale sia il proprio interesse, è meno competente a comprendere se le condotte di un professionista ledono la propria salute o ne mettono a rischio l’incolumità fisica?

Come è stato possibile che il mondo professionale abbia accettato che la somministrazione di un vaccino potesse diventare valore superiore al diritto del paziente a mantenere una relazione significativa, il cui senso terapeutico è stato dimostrato dalle ricerche sul tema (Safran e Muran, 2006)?

È plausibile pensare che l’essere professione sanitaria, come è stato più volte ricordato in questi mesi, abbia portato a mutuare un linguaggio medico all’interno della nostra comunità professionale, senza una riflessione profonda su cosa questo comportasse?

“Un miope utilitarismo ci ha indotto a pensare che la nostra vita fosse una buona vita a condizione che non ci facessimo troppe domande. Con un gioco di prestigio collettivo, l’attenzione è stata diretta verso la fede in alcune abilità selettive, quali la capacità di pensare in termini scientifici e la facoltà di inventare nuove tecnologie” (Bollas, 2018, p. 32).

Riteniamo che l’essere diventati professione sanitaria non debba farci dimenticare la tradizione dalla quale veniamo e neppure ripiegare in letture mediche del problema. Decidere la sospensione immediata di una relazione di cura, presumibilmente anticostituzionale per altro, è ledere il diritto della persona all’autonomia nella scelta, rendendola oggetto passivo di una “semplice” prestazione sanitaria; è allontanarsi da una visione competente, autonoma e autodeterminante del cliente che si rivolge al professionista. La libertà del cliente cede alla passività del malato. 

Il requisito “vaccino” sarebbe, così, intrinsecamente legato ad una visione passivizzante, immunizzante e medicalizzata della persona che si rivolge a noi professionisti. L’introduzione di un trattamento sanitario (la vaccinazione) come requisito necessario per lo svolgimento di una professione dovrebbe quindi essere al centro di un dibattito interno che al contrario sembra non esserci.

Appellarci a un tecnicismo scientifico ha come pericolosa conseguenza di neutralizzare il confronto professionale e politico-professionale su temi che hanno una rilevanza per certi versi epocale.

L’obiezione di coscienza attiva è quindi, oltre che un atto di autotutela giuridica e sanitaria, anche una forma di partecipazione consapevole e responsabile del cittadino alla vita pubblica: chi la esercita non persegue unicamente uno scopo personale ma si fa carico in prima persona di un’azione di giustizia civile e di tutela dei diritti costituzionali e umani.

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[1] Non è obiettivo del presente documento mettere in evidenza le contraddizioni normative (per cui diversi Ordini hanno applicato “sanzioni diverse”) e le incongruenze logiche della decretazione successiva a marzo 2020 (inizialmente nel pieno della mortalità si poteva lavorare perfino in presenza, oggi neppure online).

[2] La definizione di “vaccino” è stata recentemente modificata nei documenti ufficiali delle principali istituzioni sanitarie, proprio mentre i farmaci che adesso chiamiamo “vaccini” affrontavano l’iter di approvazione.

Il Center for Disease Control and Prevention (CDC), ossia l’ente governativo statunitense deputato al controllo sulla sanità pubblica e a pronunciarsi, insieme alla Food and Drug Amministration (FDA), sulla sicurezza dei vaccini, ha recentemente modificato la definizione di vaccino.

Se in precedenza esso veniva definito “un prodotto che stimola il sistema immunitario di una persona a produrre immunità a una malattia specifica, proteggendo la persona da quella malattia”, a partire dal settembre del 2021 viene definito vaccino: “una preparazione che viene usata per stimolare la risposta immunitaria del corpo contro le malattie” (link consultabili alle due versioni: https://web.archive.org/web/20210812210635/https://www.cdc.gov/vaccines/vac-gen/imz-basics.htm, https://www.cdc.gov/vaccines/vac-gen/imz-basics.htm).

Com’è evidente, si tratta di una differenza non da poco: secondo la nuova definizione un farmaco, per essere denominato “vaccino”, deve essere un preparato in grado di “stimolare” una risposta immunitaria, eliminando il precedente requisito per cui doveva “produrre immunità” (nel dizionario Garzanti: “una condizione di refrattarietà di un organismo a una malattia infettiva”).

Come segnalato da alcuni organi di stampa (L’Indipendente, ad esempio) e confermato dagli stessi documenti online degli Enti suddetti, è interessante notare che «la modifica della definizione di vaccino da parte dell’ente statunitense sia avvenuta in corrispondenza temporale con l’approvazione definitiva del vaccino anti COVID-19 prodotto da Pfizer-BioNTech. Nel comunicato ufficiale di approvazione dello stesso, pubblicato dalla FDA il 23 agosto, si legge che il vaccino sarà commercializzato “per la prevenzione della malattia COVID-19”. Un risultato probabilmente in linea con la nuova definizione di vaccino nel frattempo modificata dal CDC, ma che non avrebbe soddisfatto la precedente definizione, secondo la quale avrebbe dovuto produrre “immunità”» (https://www.lindipendente.online/2021/09/08/esclusivo-gli-usa-hanno-modificato-la-definizione-di-vaccino-durante-lapprovazione-di-pfizer).

Non useremo qui, invece, il termine “pandemia”, utilizzando il più generico epidemia, per motivi analoghi, che cioè riguardano una questione altrettanto controversa, sulla quale vi è ancora ampio dibattito. Più di dieci anni fa, nel 2009, nel corso dell’epidemia di influenza denominata H1N1 (anche detta “suina”), l’OMS cambiò la definizione di “pandemia”: quella originaria era “malattia che si diffonde molto velocemente e causa un gran numero di malati gravi e di morti”, la successiva diventò “un’epidemia che si verifica in tutto il mondo, o su un’area molto vasta, che attraversa i confini internazionali e che di solito colpisce un gran numero di persone”. Apparve subito evidente che la nuova definizione, non facendo riferimento alla gravità della malattia o alla letalità, non permetteva più di distinguere tra influenza pandemica ed influenza stagionale. Ricordiamo allora solo brevemente lo scandalo che investì l’OMS negli anni a seguire, riconosciuta colpevole dalla Commissione Sanità dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa di aver generato un indebito allarme e causato un danno ingente sia alle casse degli Stati europei, che alla salute dei cittadini indotti a vaccinarsi senza necessità o benefici. Per un approfondimento, il famoso documentario della tv svizzera RSI: www.rsi.ch/la1/programmi/informazione/falo/tutti-i-servizi/Il-fantasma-della-pandemia-1876920.html

Ancora, una simile operazione di modificazione semantica sostanziale e non meramente formale, è stata attuata recentemente per il termine “immunità di gregge”, che fino al 9 giugno 2020 il sito dell’OMS riportava essere “la protezione da una malattia infettiva che si realizza quando una popolazione è immunizzata tramite vaccinazione o immunità sviluppata tramite precedente infezione”, ma che una modifica ad opera del direttore generale Tedros Ghebreyesus, dal 13 novembre 2020, ha trasformato in “un concetto usato per la vaccinazione, in cui la popolazione può essere protetta da un certo virus se viene raggiunta una certa soglia di vaccinazione […] e non attraverso l’esposizione ad esso” (www.who.int). In sostanza, scompare uno dei concetti più noti e condivisi della medicina, quello di immunità naturale.

[3] Una bizzarria del D.L. 172/21 prevedeva che i professionisti sprovvisti della dose di richiamo possedessero un  green pass attivo ed utile per la vita sociale: il soggetto poteva  recarsi in qualsiasi luogo di aggregazione. Al contempo però lo stesso GP non consentiva loro di esercitare la professione all’interno del proprio studio privato. I guariti da COVID-19 vivono un’analoga situazione paradossale.

[4] Altra ambiguità a cui certa decretazione ci espone è la seguente: può convivere all’interno della stessa istituzione il mandato di controllo e il mandato di tutela?

[5] Per un ulteriore chiarimento di cosa si intenda per senso plurale della condizione umana si rimanda al testo di Arendt “Vita Activa” (1958).

[6] Data l’importanza del D.L. 44/21 e delle sue ricadute sulla vita personale e professionale dei colleghi iscritti, siamo certi che i rappresentanti del nostro Ordine siano a conoscenza delle innumerevoli sentenze dei TAR italiani riguardo al profilo di incostituzionalità del decreto.

[7] La sospensione dall’Ordine è il penultimo provvedimento disciplinare in ordine di gravità.

[8] In contrasto, per altro, con gli articoli 3, 4, 32, 33, 34 e 97 della Costituzione Italiana.

[9] Così il senatore Alberto Bagnai nell’interrogazione al Ministro della Salute del 1 aprile 2022: “il consiglio di giustizia amministrativa della Regione Sicilia, nella sua ordinanza n. 351 del 2022, cita espressamente «la inadeguatezza della farmacovigilanza attiva e passiva» fra i motivi di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 del decreto-legge n. 44 del 2021, nella parte in cui questo prevede l’obbligo vaccinale per il personale sanitario. Questo perché, secondo la Corte costituzionale, l’obbligatorietà di un vaccino è legittima solo se, tra l’altro, si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute del paziente, fatte salve le conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili. Ma in assenza di una farmacovigilanza adeguata, questa valutazione è in re ipsa preclusa. […] il tema del bilanciamento tra il diritto alla salute e quello al lavoro è oggetto di un numero crescente di ordinanze dei TAR, che deprecano la logica ricattatoria sottostante al decreto-legge n. 44 del 2021 […] schierandosi, i tribunali, a difesa dell’articolo 1 della Costituzione”.

[10] Il termine “ambiguità” fa riferimento alla teorizzazione di Bleger e alla tradizione della Scuola Psicoanalitica Argentina.

[11] “Il non saperci fare con il linguaggio è un segno di disinvestimento nella lingua pubblica” (Pigozzi, 2019, p. 168). “Chiamare le cose con il loro nome” significa poter andare al fondo delle conseguenze estreme di una propria posizione e potersene prendere consapevolmente la responsabilità.

[12] “C’è gente che ha fatto una scelta che la mette fuori dalla comunità” (Myrta Merlino, “L’Aria che tira”, puntata del 6 dicembre 2021). Con questa frase la giornalista fa eco a diverse dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi. Si veda inoltre, più avanti, il paragrafo sul capro espiatorio.

[13] “L’Appropriarsi del mondo è un appropriarsi di se stessi, la presa di posizione verso l’esterno è una presa di posizione verso l’interno, e il compito posto all’Uomo […] è sempre un compito oggettivo da padroneggiarsi verso l’esterno, quanto anche un compito verso se stesso. L’Uomo non vive, bensì conduce la sua vita  (Gehlen, 1940, pag. 78).

[14] Segnaliamo anche come certi alti ideali rischiano di creare forme di “sparizione di sé” e di “biancore” (Le Breton, 2016).

[15] Oltre ai già menzionati procedimenti relativi ai profili di costituzionalità delle normative italiane, questo Ordine sarà altresì adeguatamente informato sulla legislazione europea e internazionale rispetto alla somministrazione coatta di farmaci sperimentali (Oviedo,1997; Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, (2000/C 364/01); UNESCO, 2005; Lisbona, 2009; Regolamento UE nr. 953/2021).

[16] La legge 56/89 istituisce gli Ordini Psicologici e regolamenta l’esercizio dell’attività psicoterapeutica. All’interno dei diversi Ordini Regionali e Provinciali confluiscono una serie di professionisti che erano già rappresentati da associazioni e società scientifiche. L’obiettivo principale della legge era quello di tutelare i cittadini da eventuali abusi o da prestazioni senza garanzie. I provvedimenti disciplinari sono regolamentati dagli articoli 12, 26 e 27. L’art. 26 prevede le sanzioni disciplinari per gli iscritti che si rendano colpevoli “di abuso o mancanza nell’esercizio della professione o comunque si comporti in modo non conforme alla dignità e al decoro professionale”. A seconda della gravità sono previste tutta una serie di sanzioni disciplinari che vanno dal semplice avvertimento alla radiazione. La sospensione è la penultima in termini di gravità. La sospensione per mancata vaccinazione, però, non trova riscontro né all’interno del nostro Codice Deontologico né nella stessa legge.

[17] Cfr. Ordinanza CGA Regione Sicilia del 17 marzo 2022.

[18] Alcuni esempi delle questioni più controverse sono i test PCR (dichiarati non diagnostici da più di una istituzione medico scientifica e nonostante ciò, nella maggior parte dei casi, condizione sufficiente per diagnosi di COVID-19), l’utilizzo delle mascherine e l’imposizione dei lockdown.

[19] Tale presunzione ha delle importanti ricadute sulla nostra pratica, ad esempio, preventiva. Per Sala (2009) sarebbe più corretto definire preventiva qualsiasi azione che abbia come obiettivo primario l’attenzione all’ambiente e un discorso politico di riorganizzazione e di sviluppo non solo economico. Al contrario la prevenzione primaria intesa come realizzazione di programmi su vasta scala può essere più correttamente intesa come diagnosi precoce. Una pratica preventiva volta all’individuazione della malattia ove ancora non è manifesta rischia di creare delle nuove figure di malati: pre-malati (soggetti a rischio), forse-malati (individui predisposti), sani preoccupati (che si credono o sono indotti a credersi malati). Il graduale disinteresse per l’attenzione all’ambiente, infatti, fa sì che la malattia, così come il rischio di malattia, diventi responsabilità del singolo (che spesso si muta nella colpevolizzazione). L’eccessiva spinta alla predizione clinica, quindi, deresponsabilizza sia la politica tout court che la politica professionale, e ribalta la socializzazione della medicina in una crescente e invadente medicalizzazione della società.

[20] Ne L’età dello smarrimento Bollas (2018) riflette su come l’operazionalismo scientifico sia con il tempo diventato un dispositivo per eliminare la differenza e modellare un mondo di esseri umani indistinguibili. La paura che spesso i pazienti riferiscono in seduta è proprio quella di essere diversi: “non la pensano tutti come la penso io?”, chiedono in cerca di una rassicurazione.

[21] In quanto “erogatore di servizi”, il professionista psicologo viene appiattito dentro una logica consumistica, in cui sia il cliente che l’erogatore sono facilmente sostituibili.

[22] Diversi ricercatori hanno indagato presunte problematiche psicopatologiche dei cosiddetti “no vax”, senza mai articolare la descrizione del contesto storico, culturale e relazionale, e postulando a priori il disagio, sempre precedente e mai conseguente alle somministrazioni. Tralasciamo in questa sede le considerazioni epistemologiche e metodologiche sulla validità di tali ricerche e le osservazioni sulle responsabilità etiche di tali ricercatori, che pure sarebbero doverose.

[23] Il silenzio compiacente nei confronti di chi veniva escluso dalla vita lavorativa e sociale ne è testimonianza. Probabilmente, nei confronti di qualsiasi altra minoranza, ciò avrebbe provocato scalpore e sdegno.

[24] Si è giunti a tacciare di negazionismo chiunque si faccia domande sul virus, sui dati scientifici che hanno permesso di identificarlo e distinguerlo da altri coronavirus, o sulla validità dei test diagnostici per rilevarne la presenza nella popolazione, anche quando tali domande vengano avanzate da voci autorevoli e titolate. Il termine scelto, per di più, svolge la funzione di affibbiare tout court, a chiunque si intesti tali questioni, un giudizio simile a quello destinato al negazionismo dell’Olocausto, di fare cioè un “uso spregiudicato e ideologizzato di uno scetticismo […] portato all’estremo” (https://www.treccani.it/enciclopedia/negazionismo), e pertanto da stigmatizzare radicalmente senza ulteriori approfondimenti.

Si noti analogamente, come in tutto il mondo ogni sguardo critico rispetto alla gestione sanitaria e politica o anche ogni domanda sull’origine naturale o ingegnerizzata del virus, siano stati sovente tacciati sommariamente del termine dispregiativo complottismo.

[25] Ricordiamo per onere di cronaca, alcune esternazioni che personaggi pubblici hanno reso su canali social e di stampa: Fosse per me costruirei anche camere a gas; Campi di sterminio per chi non si vaccina; Verranno chiusi in casa come sorci… Lockdown solo per i novax; Caccia ai novax… Staniamo i novax…; I rider devono sputare nel loro cibo; Mi divertirei a vedere i no vax morire come mosche; Madonna come vorrei un virus che ti mangia gli organi in dieci minuti riducendoti a una poltiglia verdastra che sta in un bicchiere per vedere quanti inflessibili no-vax restano al mondo; I cani possono sempre entrare, solo voi come è giusto rimarrete fuori; …il COVID mi ha cambiato. Provo un pesante odio verso i no vax con cui al momento non ho voglia di dialogare, ma al massimo di stirarli in auto.

[26] Si rammenti la grottesca ridicolizzazione fatta dal Fiorello sul palco di Sanremo, che raccoglieva la banalizzazione corrente secondo cui “i no vax temono che il vaccino li trasformi in antenne 5G”.

[27] In questo senso, le persone sono entità viventi che non posseggono caratteristiche umane e sono paragonate a conigli, ratti, topi, parassiti. Proprio per questo, le persone percepite come capri espiatori sono percepite come oggetti di cui disfarsi.

[28] E che per il loro comportamento rischiano di disperdere il contributo prodotto dai fratelli maggiori, responsabili e coscienziosi nel risolvere la situazione.

[29] Non siamo a favore della sospensione del dipendente pubblico, ma segnaliamo la forte discriminazione all’interno della norma tra un dipendente pubblico e il libero professionista.

[30] Ricordiamo che la salute non può mai essere considerata solo ed esclusivamente nell’accezione medica, prescindendo dalla soggettività dell’individuo, dai suoi valori, dalle sue paure, dalle sue convinzioni e dalla sua idea di salute e di atteggiamento nei confronti della morte.

[31] Era solo il 2009, molti anni prima della legge 3/18, quando Sala evidenziava che “fare psicologia per la sanità significa anche costruire un’occasione per ripensare i rapporti tra medicina e psicologia” (p. 138).

[32] Tutti gli psicologi iscritti all’Ordine hanno il vincolo del rispetto del Codice Deontologico: il vincolo riguarda anche chi ricopre cariche istituzionali. “I rapporti fra gli psicologi devono ispirarsi al principio del rispetto reciproco, della lealtà e della colleganza. Lo psicologo appoggia e sostiene i Colleghi che, nell’ambito della propria attività, quale che sia la natura del loro rapporto di lavoro e la loro posizione gerarchica, vedano compromessa la loro autonomia ed il rispetto delle norme deontologiche” (art. 33). Riteniamo che la minaccia della sospensione, così come la sospensione stessa, siano in contrasto con molti principi del nostro Codice Deontologico, per primo quello sull’impegno alla colleganza.

[33] La ratio della legislazione sul green pass è obbligare surrettiziamente le persone a vaccinarsi.

[34] Si evidenzia anche come alcuni passaggi della legge possano essere in chiaro contrasto con gli articoli 3, 4, e 6 del Codice Deontologico.

[35] Molte delle comunicazioni ufficiali hanno trattato in modo alquanto sbrigativo ed incompleto l’art. 32, lasciando fuori il periodo sulla tutela della dignità umana. Per il suo impatto etico, si potrebbe perfino sostenere che esso potrebbe diventare un articolo di indirizzo per tutte le professioni sanitarie e socio-sanitarie.

[36] Inoltre, per legge, la vaccinazione dovrebbe essere subordinata ad una prescrizione, eventualità che è sempre stata disattesa nel corso della campagna vaccinale. Abbiamo avuto modo di assistere invece all’odissea di professionisti che si sono visti negare dal proprio Medico di Medicina Generale la certificazione che gli avrebbe consentito, per lo meno in via privata, di eseguire gli esami utili a rintracciare eventuali situazioni di rischio.

[37] Cfr. Ordinanza del Consiglio Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia del 17.03.2022.

[38] Ribadiamo, in nota, come il “rispetto della legge” preveda il rispetto di tutte le leggi che abbiano valenza giuridica all’interno del territorio italiano, da quelle costituzionali ai diversi trattati e convenzioni internazionali.

[39] Lo stesso David Lazzari – Presidente del CNOP – in una recente intervista, a seguito dell’evidente aumento di casi di suicidio a causa della pandemia (noi diremmo della gestione della situazione epidemica) parla della creazione di una task force per la prevenzione degli stessi. La perdita del lavoro connessa all’introduzione del green pass e all’obbligo vaccinale è un dramma che nell’articolo viene segnalato come problema prioritario. Dice Lazzari: “Qualche anno fa ci fu l’impennata di suicidi tra i piccoli imprenditori, ed allora si rese necessario intervenire con politiche appropriate. Oggi noi temiamo che ci sia una recrudescenza di questo genere”. Noi teniamo a precisare che anche uno psicologo soggetto a obbligo vaccinale (con conseguente perdita di lavoro a seguito di una sospensione) possa ritenersi a rischio di sviluppare un malessere così consistente.

[40] Numerose ricerche scientifiche supportano certe affermazioni (https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(21)00768-4/fulltext).

[41] “Niente” è un romanzo scritto da Teller nel 2000. Si racconta di un gruppo di compagni alle prese con la ricerca drammatica di un senso, di adulti sempre più disimpegnati nella costruzione di un’etica intersoggettiva fondata e ancorata nella relazione: il precipitare del senso nella pura funzione di qualcosa (Byung-Chul Han, 2017) aliena le persone dalla possibilità stessa di narrare la propria storia, di sviluppare uno sguardo interno, di creare distinzione e di prendere posizione.

[42] Ricordiamo che il DL 24/22 ha stabilito l’obbligo di vaccinazione per i sanitari fino al 31.12.2022. La legge, così, rischia di creare un ulteriore precedente: secondo la legge 56/89 il provvedimento disciplinare della sospensione non può mai essere superiore ad un anno. Essendovi colleghi sospesi già con il DL 44/21, rischiamo di trovarci davanti a sospensioni che possono superare l’annualità senza che nessun rappresentante istituzionale si stia occupando di questa incongruenza.

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Analisi del “documento sull’obbligo vaccinale“ a cura del CNOP

Abbiamo esaminato con attenzione il documento sull’obbligo vaccinale, pubblicato sul sito del CNOP e inviato agli iscritti.

Il documento è stato “approvato all’unanimità” nella riunione del Consiglio Nazionale del 24 giugno.

Appena tre giorni prima, una nostra delegazione aveva incontrato alcuni rappresentati del Consiglio della Sicilia. In quella occasione, abbiamo presentato ai colleghi il nostro documento, con l’obiettivo dichiarato di “condividere delle letture di carattere psicologico e psicosociale sulle conseguenze di quanto sta avvenendo in Italia rispetto alla gestione sanitaria, ma ancor più sui danni a breve, medio e lungo termine che ha prodotto l’obbligo vaccinale, sia sulla salute individuale che collettiva” (leggi il resoconto dell’incontro).

L’azione Interlocuzione all’Ordine è stata ideata insieme a colleghi di tutta Italia, molti dei quali, prima di noi, avevano già avuto occasione di confrontarsi con i loro rappresentanti regionali.

Con questi incontri intendiamo rendere il nostro leale e pacifico contributo in favore dell’indipendenza, dell’autonomia e della responsabilità nell’esercizio della professione; raccogliere e sviluppare le conoscenze scientifiche in ambito psicosociale; rafforzare la tutela dei diritti dei professionisti iscritti e dei clienti/pazienti.

È nostra intenzione ridurre la distanza tra gli organi dirigenziali e una parte consistente di colleghi, le cui istanze e considerazioni sono raccolte soltanto dalla nostra associazione.

Purtroppo non possiamo fare a meno di notare la generale ambiguità del comunicato del CNOP, e la perniciosità di troppi passaggi che tendono a proporre una visione “ufficiale” di temi complessi e articolati, rendendo paradigmatico e assoluto ciò che invece andrebbe discusso serenamente in seno alla comunità scientifica di cui facciamo parte.

Permane la triste impressone che il Consiglio rischi inconsapevolmente di aggravare la spaccatura interna tra colleghi, continuando ad ignorare la discussione critica avviata in questi mesi attraverso un dialogo pacifico e rispettoso.

Rinnoviamo l’invito a tutti i colleghi a tenere in considerazione le riflessioni che abbiamo sviluppato nel nostro documento e che abbiamo sintetizzato in sette paragrafi:

  1. Ambiguità come marker culturale della moderna società occidentale;
  2. Requisito professionale e abuso della professione;
  3. Scienza e responsabilità;
  4. Frattura del patto sociale;
  5. Dinamica del capro espiatorio;
  6. Tutela dei colleghi;
  7. Tutela dei diritti dei pazienti.

Riteniamo che i punti precedenti possano costituire spunti utili per interpretare autonomamente il comunicato del CNOP.

Infine ribadiamo l’impegno assunto durante il nostro primo incontro con l’OPRS, di sviluppare un’ulteriore proposta di confronto, che coinvolga tutti gli iscritti animati da spirito non dogmatico, democratico e collaborativo.

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Resoconto sull’incontro presso la sede dell’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana

Vi proponiamo un breve resoconto sull’incontro che si è tenuto il 21 giugno 2022, presso la sede dell’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana.

La delegazione di #DSP era composta dal Presidente Monica Perricone, da Roberta Campo, Gabriele Mignosi, Girolamo Schiera.
Per l’Ordine erano presenti il Presidente Gaetana D’Agostino e ben otto Consiglieri, Panebianco, Sidoti Olivo, Barretta, Adragna, Sciacca, Infurchia e Lo Piccolo.

Abbiamo avuto a disposizione un tempo congruo per esporre ai Consiglieri la nostra posizione, raccolta e sviluppata all’interno del documento.
Monica Perricone ha rotto il ghiaccio, allentando l’imbarazzo e una sottile tensione iniziale (in parte ci conosciamo e aleggiava il timore di un potenziale scontro).
Ha sviluppato una lunga, appassionata e puntuale presentazione dell’associazione e del progetto #DSP, dell’estensione nazionale del coordinamento dell’azione, e ha introdotto il tema principale dell’incontro: iniziare a ragionare insieme sulle conseguenze psicosociali dell’attuale situazione normativa.

Se inizialmente i Consiglieri mantenevano un atteggiamento di cauta e silenziosa attesa, al termine del primo intervento, avevamo conquistato la piena attenzione dei nostri interlocutori. Così Roberta ha esposto i nuclei fondamentali del documento, impiegando una dialettica precisa e pulita, arricchita da un’amabile coloritura emotiva e personale.

La discussione si è attivata in un clima di confronto, e di interesse sempre maggiore da parte dei nostri interlocutori. Le risposte iniziali (che potremmo riassumere così: l’Ordine non poteva esimersi dall’eseguire le direttive del Ministero e del Governo) ci hanno confermato l’impressione che le nostre riflessioni fossero davvero importanti.

Subito ci siamo focalizzati sulle questioni principali dell’incontro, concordando di adottare un punto di vista più ampio e di ordine superiore, senza scivolare sulle vicende personali dei singoli, o sulla banalizzazione (pro-vax/no-vax).

Gabriele fino a quel momento rimasto silenzioso e attento, ha preso parola per sottolineare, con limpida eloquenza e precisione, che la “questione vaccinale” è solo un dettaglio parziale e di superficie che coinvolge una parte di colleghi, ma che la vera minaccia che interessa tutti è l’aver introdotto dall’esterno ed ex abrupto un requisito che può impedire a un professionista, solidamente preparato e deontologicamente corretto, di continuare a esercitare il proprio lavoro in scienza e coscienza.

Quando ci è sembrato di aver raccolto un sincero interesse per il nostro ragionamento, Girolamo si è fatto portavoce delle nostre richieste:
1) che l’Ordine promuova e assicuri l’indipendenza, l’autonomia e la responsabilità nell’esercizio della professione, e che concorra con le Autorità locali e centrali nell’elaborazione dei provvedimenti legislativi che riguardano l’Ordine stesso, per la tutela degli iscritti, e a vantaggio della salute pubblica;
2) che #DSP (in rappresentanza dei colleghi che condividono i contenuti espressi nel documento) venga coinvolta in maniera esplicita, pubblicando ad esempio una comunicazione sul sito dell’OPRS, così che l’Ordine funga da collettore delle istanze dei tanti colleghi che, ad oggi, hanno trovato ascolto soltanto nella nostra associazione;
3) che venga avviata una discussione a partire dal documento che i Consiglieri hanno ricevuto, con la promessa che vi avrebbero dedicato il loro tempo;
4) che venga istituito un tavolo di lavoro sulle conseguenze psicosociali delle attuali politiche sanitarie.

L’incontro si è concluso con l’invito, da parte dei Consiglieri, a produrre una proposta più concreta sul da farsi (un seminario, ad esempio), affinché finalmente si riattivi una delle più importanti funzioni di pertinenza dell’Ordine: studio e ricerca, raccolta, proposta e discussione di temi specifici, da parte di tutti i colleghi competenti e interessati.

Siamo soddisfatti perché abbiamo ottenuto un risultato certamente positivo che, siamo sicuri, riusciremo a consolidare nell’imminente futuro.
E lo siamo doppiamente perché abbiamo avuto la conferma che sta dando i primi frutti maturi il lavoro di preparazione che abbiamo iniziato da poco meno di un anno, il cui metodo ogni lunedì cerchiamo di perfezionare con passione, impegno, disciplina e grande piacere.

Politiche professionaliAzioni

Interlocuzione all’Ordine

L’azione “Interlocuzione all’Ordine” nasce dalle riflessioni di alcuni colleghi sulla necessità di richiedere una interlocuzione/audizione con coloro che all’Ordine regionale degli Psicologi rappresentano tutti noi come professionisti, in relazione alle decisioni del governo che in questi due anni hanno stravolto la nostra vita e attività professionale.

Con il presente documento intendiamo condividere alcune letture di carattere psicologico e psicosociale sulle conseguenze delle modalità di gestione sanitaria in Italia, e sui danni a breve, medio e lungo termine che ha prodotto l’obbligo vaccinale, sia sulla salute individuale che collettiva.

Il documento, suddiviso in punti, è il frutto di un confronto costante con colleghi di tutta Italia, che hanno deciso di raccontare il malessere all’interno alla professione, pensarlo e rileggerlo alla luce di una riflessione di più ampio respiro.

In aggiunta ai colleghi psicologi, riteniamo che uno degli interlocutori privilegiati sia l’Ordine professionale, in quanto Organo pubblico di tutela della professione, e che assume l’importante funzione di innalzarne il valore sociale.

Leggi il documento completo che presenteremo all’Ordine degli psicologi e aderisci compilando il modulo sottostante.

Aderisci alla raccolta firme contrassegnando la spunta al termine del form, altrimenti lascia i tuoi dati per restare in contatto con la nostra associazione.