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Politiche professionali

La revisione del Codice Deontologico: una riflessione critica

La proposta di revisione del nostro Codice Deontologico, approvata dal Consiglio Nazionale dell’Ordine ad aprile di quest’anno e resa pubblica il 21 del mese di giugno, si trova adesso prossima al giudizio referendario, che avrà luogo dal 21 al 25 settembre 2023, con modalità di voto online.

La nostra collega e socia Roberta Campo, con la passione e la raffinata capacità di analisi che le sono proprie, ci offre alcune riflessioni maturate in questi mesi estivi sulla proposta di revisione. Si addentra nell’architettura dell’impianto della proposta deontologica, ci restituisce la cornice di contesto entro cui si sviluppa, ne chiarisce la struttura, individuandone i pilastri portanti e segnalandoci anche alcune assi pericolanti.

La comunità degli psicologi italiani è chiamata al referendario e dicotomico esprimersi per un sì o per un no su questioni davvero ampie, che richiedono un grande tempo di elaborazione e un dibattito congruo, per le conseguenze che hanno sul ruolo e sull’agire professionali.

Ed è a tal fine che vi invitiamo calorosamente, dunque, a leggere e studiare insieme a noi la proposta di revisione attraverso l’articolo di Roberta, a condividere con noi le vostre riflessioni.

E a partecipare al convegno che stiamo organizzando per sabato 16 settembre a Palermo, sul quale daremo presto tutti i dettagli.

Il 28 Aprile del 2023 con deliberazione n. 14 il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) approva all’unanimità la proposta di revisione del “Codice Deontologico delle psicologhe e degli psicologi”.

Il passaggio successivo, così come istituito dalla legge 56/89, sarà il giudizio referendario, previsto per metà settembre. Se dovesse essere approvata, la proposta entrerebbe in vigore e sarà vincolante per tutti gli iscritti agli Ordini e sarà la base a partire dalla quale avverranno tutte le successive modifiche.  

Prima di entrare nel merito della revisione del Codice Deontologico mi sembra opportuno fare alcune premesse che possono aiutarmi a inquadrare lo specifico taglio di lettura attraverso cui ho analizzato alcune delle attuali proposte di modifica. È chiaro che non debbano necessariamente essere condivise, o condivise in toto: credo piuttosto che possano servire per avviare futuri dibattiti rispetto al dove vogliamo andare come psicologi.

L’articolo non vuole essere esaustivo di tutte le revisioni intervenute sul codice, ma si propone come una riflessione in merito a quei cambiamenti di carattere etico/deontologico che vanno verso una progressiva professionalizzazione e sanitarizzazione. Di questo processo dovremmo essere ben consapevoli, perché sta cambiando dall’interno la nostra pratica professionale.

Il Codice Deontologico fa parte di quella disciplina giuridica che si chiama diritto disciplinare e in virtù di questa specificità occupa una precisa posizione nella gerarchia delle fonti del diritto (e a quelle si deve potere ispirare).

Il codice, quindi, non è solo una bussola per la “migliore regola deontologica”, ma è prima di tutto un “dovere, declinato in termini giuridici, per consentire l’applicazione di un’espressa sanzione in caso di violazione” (Parmentola, 2018, p. 39), “costringendo” il professionista al rispetto della norma ivi prescritta.

Perché la revisione del Codice deontologico?

La revisione del Codice Deontologico è un atto dovuto dal CNOP, così come definito dal legislatore con la legge 56/89. L’attuale revisione, quindi, non è un fatto straordinario, ma un compito specifico: la legge prevede che ogni nuovo consiglio dell’Ordine possa monitorare l’eventuale necessità di aggiornamenti nel Codice per intervenuti cambiamenti legislativi, normativi e scientifici, o per un diverso sentire comune all’interno della comunità professionale.

Probabilmente sarebbe stato auspicabile un coinvolgimento maggiore della comunità di colleghi ma, dal mio punto di vista, il “prodotto” finale sarebbe cambiato poco: la revisione è stata presentata come un puro atto tecnico, “formale” e neutro, di adeguamento all’ordinamento giuridico. 

Se, però, è un atto dovuto revisionare il codice, altrettanto dovuta sarebbe stata una riflessione a vertice epistemologico su come l’ordinamento giuridico, la tecnologia e la cultura della cura possano di volta in volta “cambiare” e trasformare gli oggetti e i soggetti della psicologia (Parmentola, 2023). Sarebbe stato quantomeno opportuno avviare un pensiero su come i cambiamenti normativi, culturali e tecnologici stanno “ri-ordinando” il nostro modo di fare comunità, e comunità professionale. 

Non posso fare a meno di notare il “silenzio” generale, l’assenza di dibattito all’interno dei nostri Ordini regionali a fronte di un evento così importante come la revisione di un Codice Deontologico.

Il rispetto formale delle “regole del gioco” può, da sé, garantire la bontà di questa revisione del Codice?

Il rispetto delle “regole” può essere visto, a mio avviso, come una sorta di “peccato originale” che attraversa l’intero articolato: questa revisione sembra essere, infatti, figlia di quella cultura legalista (fatta di consensi informati, di protocolli e di buone prassi) che vede nei regolamenti, sovradeterminati e nel rispetto delle regole, la garanzia etica al principio di legittimità.

Così, fare le cose “da regolamento” (secondo la legge), seguire i vari protocolli stilati dal CNOP nei diversi ambiti (uno per tutti il protocollo MIUR-CNOP), adeguarsi alle buone prassi, considerare solo la medicina evidence-based, fa dello psicologo non solo una brava persona ma anche un buon professionista.

Ma la legalità, ed è questo il punto su cui proverò a concentrarmi nel corso di questo lavoro, può davvero sostituire la riflessione sul principio di legittimità di qualcosa?

Il primo cambiamento riguarda l’adeguamento, tecnicamente corretto, al linguaggio di genere. Abbiamo così “Il Codice Deontologico delle psicologhe e degli psicologi” e la sostituzione del termine soggetto con il più neutro e adattabile termine di “persona”.
La revisione adegua il lessico anche alla legge sulla responsabilità genitoriale (D.Lgs. 154/2013) e introduce l’attenzione all’ambiente come vincolo etico.

Le revisioni più significative, però, riguardano l’adeguamento del codice alla logica sanitaria così come previsto delle leggi 219/17 sul consenso informato e 3/18 sul riordino delle professioni sanitarie. Leggi che si sostengono a vicenda e animano il nuovo ethos professionale sanitario fondato sulla sussidiarietà e sulla salute come tema universale (Lazzari, 2022)).

Da una prima lettura sembrerebbe che il senso generale dell’articolato rimanga più o meno inalterato; una lettura più attenta ci consegna, al contrario, una deontologia che sagoma il nuovo ruolo professionale dello psicologo all’interno del più complessivo Sistema Salute (Sala, 2009; Campo, 2022b).

Intendo per Sistema Salute quell’insieme di organizzazioni, istituzioni, risorse, persone e procedure necessarie ad assicurare e fornire servizi per il mantenimento e per la tutela della salute della popolazione. Il “prodotto” offerto da questi servizi (la salute) deve garantire degli specifici standard che possano consentire, tra le altre cose, il controllo di qualità. 

Le leggi 219/17 e la 3/18 avrebbero la funzione di garantire una maggiore tenuta del Sistema Salute (fatto di soglie di accesso, di giustizia distributiva, di esigibilità del diritto alla salute).
Il cambiamento del codice deontologico è ciò che permette di mettere a terra il processo immaginato nelle sedi deputate (Europa, Governo, vari Summit…), e deve potersi tradurre in comportamenti concreti che permettono di cambiare nella direzione in cui si desidera che si cambi, altrimenti l’operazione rischia di rimanere monca (Lorenzin, 2021). 

È innegabile l’importanza di una rete sanitaria per la salute della popolazione, ma sarebbe anche importante chiederci se la direzione verso la quale ci si sta chiedendo di andare implichi davvero un miglioramento nella tutela dell’utenza, dei professionisti e della comunità stessa.

Se da un lato è vero che non possiamo ignorare le leggi dello Stato né come cittadini né come professionisti, dall’altro è altrettanto vero che dovremmo continuare a mantenere uno sguardo critico sulle cose.

Un aspetto della psicologia, non tutta a dir la verità, con cui sono sempre stata a mio agio è il suo voler mantenere uno sguardo “non politicamente corretto” sulle cose, andando a guardare tra le pieghe dei processi.

Professioni, utilità e responsabilità sociale

La psicologia come professione ha un’origine relativamente recente: è la legge 56/89 a istituire per la prima volta gli Ordini a livello nazionale e regionale. 

La storia della nascita della psicologia come professione si accompagna a un cambiamento più generale nella sensibilità politica del tempo, in merito ai temi di “pertinenza” psicologica e di salute. 

La nascita degli Ordini è stata accolta da molti protagonisti e testimoni come una vittoria in quanto ciò avrebbe consentito un maggiore monopolio e una sistematizzazione delle conoscenze, dei metodi e delle tecniche psicologiche, di conseguenza, uno sviluppo più rapido e ordinato della professione.

Il Codice Deontologico divenne lo strumento principale per sagomare l’identità del professionista ideale (Calvi, 2020) da presentare alla società. 

L’ordine professionale è un Ente Pubblico che deve poter perseguire (e far perseguire ai professionisti) l’interesse pubblico: lo Stato delega in parte le proprie funzioni e per tale motivo esercita un controllo su come queste vengono rappresentate. Da parte sua, lo Stato si impegna a predisporre e mantenere strutture sociali di presa in carico e/o di prevenzione dei comportamenti a rischio, organizza e finanzia campagne di sensibilizzazione e di promozione di valori e di quei comportamenti utili alla stabilità sociale ed economica del Paese.

Riconoscere il valore sociale della tutela e del mantenimento della salute mentale tra la popolazione fa sì che sempre più la salute psicologica si qualifichi come questione pubblica, non più privata.

I nostri Ordini si assunsero fin da subito questo obiettivo tanto che nel nostro Codice Deontologico è ben espresso il concetto di responsabilità sociale dello psicologo. 

Gli anni a cavallo della nascita degli Ordini erano anni difficili; non si era ancora pienamente usciti dalla minaccia del terrorismo nostrano e le strade erano ancora macchiate dalla violenza mafiosa: lo psicologo poteva rivestire un ruolo determinante in quanto esperto delle interconnessioni tra salute psicologica e fatti sociali. Di fatto, l’expertise professionale poteva concorrere alla ripresa di un Paese in difficoltà, e al suo sviluppo morale, sociale ed economico. 

Proprio con la finalità pubblicistica dell’Ordine, però, si introduce un’asimmetria tra chi richiede un intervento e il professionista; vi è sicuramente la responsabilità del professionista all’interno della relazione, ma vi è anche una responsabilità davanti alla comunità politica e sociale.

Vediamo che significa.

Con la professionalizzazione del lavoro psicologico si è introdotto un terzo nella relazione clinica (Sala, op. cit.): il professionista inizia ad avere un committente non immediatamente visibile e a cui bisogna dare una risposta.

Sottratta all’ambito privatistico, la salute diventa qualcosa che può essere gestita solo grazie alla presenza di un professionista che di salute se ne intenda e che si faccia interprete di un lavoro che abbia finalità “civiche”.

Secondo D’Elia la funzione sociale dello psicologo si realizza ogni qualvolta riusciamo ad andare oltre al mandato privatistico con il cliente; significa sentire di ricevere una committenza, ogni volta che incontriamo qualcuno, “dalla società e dal disagio condiviso socialmente” (D’Elia, 2019). Questo è ciò che impedisce alla relazione professionale di essere un semplice incontro tra persone impegnate nel “prendersi cura della relazione”, e che permette allo psicologo di diventare interprete – all’interno del setting – della componente sociale.

Anche il professionista che lavori in ambito privato dovrebbe riuscire a mettere al centro il proprio mandato pubblico e sociale: la responsabilità sociale è quell’orientamento valoriale che fa sentire l’importanza del proprio contributo alla società, e che si dovrebbe qualificare nel motivare le persone a mettere in atto comportamenti civici e di alto spessore morale per il bene comune.

Detto altrimenti, con l’introduzione della finalità pubblicistica, il professionista ha iniziato a rintracciare obiettivi di lavoro che sono al di fuori della relazione con il paziente e che si configurano come aspetti morali che entrano nella relazione.

Perché, altrimenti, uno psicologo dovrebbe interessarsi a priori (cioè al di fuori della relazione) del fatto che un paziente non creda nell’emergenza climatica? Perché questa convinzione dovrebbe diventare oggetto di chi si occupa di salute mentale? Solo sulla base della propria responsabilità nei confronti della società: l’assunto sociale è che chi non crede nell’emergenza climatica sicuramente mette in atto comportamenti non civici, al limite della devianza, che denotano un cattivo funzionamento mentale.

Credo che – in quanto psicologi – sia importante poter questionare con la persona che abbiamo davanti, il proprio “non credere nell’emergenza climatica” (qualsiasi comunicazione ha valore nella relazione), ma credo anche che dobbiamo stare molto attenti a non considerare problemi di “salute mentale” alcune posizioni non conformi a livello sociale. Restituire alla persona il senso di un comportamento, o il senso di una certa comunicazione all’interno della relazione è molto diverso dal “trattare” o educare la persona al corretto comportamento civico.

Nessun professionista, oggi, potrebbe mai pensare che la relazione clinica si dispieghi in un vuoto sociale, ma diventare interpreti in questo modo della componente sociale sta portando a far diventare la nostra professione uno strumento di attivismo politico.

Il rischio insito nella funzione pubblicistica della professione introduce un nuovo rapporto di forze e di potere tra chi “cura” e chi “viene curato”; un rapporto che vede il primo favorito in quanto un soggetto terzo – lo Stato – interviene nella relazione e nella definizione stessa dell’oggetto di lavoro.

Nonostante da più parti venga sottolineata la funzione di responsabilità sociale, i professionisti hanno fatto fatica a uscire dall’ambito privato. La motivazione è stata rintracciata nell’insufficiente collocazione pubblica della professione.

L’attuale riforma sulle professioni sanitarie vuole, così, valorizzare proprio questa funzione sociale dei professionisti della salute, e quindi anche dello psicologo, potenziando e ridefinendo la collocazione pubblica delle professioni sanitarie. 

La recente legge 3/18, che riconosce agli Ordini la funzione sussidiaria dello Stato, tende a sagomare in maniera ancora più netta la figura di un professionista a tutela dell’ordine pubblico, del mantenimento del PIL e della tenuta stessa delle politiche governative (Lazzari, 2022). 

Averci istituito della funzione di Enti Sussidiari significa diventare garanti di un Bene definito a livello statale e aumentare in maniera ancora più significativa l’asimmetria nelle relazioni di “cura”.

Questo cambiamento normativo trova il proprio fondamento all’interno di una visione politico-economica che definisce la salute come Bene Meritorio.

I “beni meritori” sono una tipologia molto particolare di Bene che viene definito e amministrato dallo Stato. Esso si fa interprete della tutela della Salute, e in quanto tale ha il potere di regolamentare i comportamenti che ritiene indispensabili a tutela della popolazione (pensiamo al ruolo delle leggi che istituiscono fondi di finanziamento per specifici programmi di intervento o di promozione).

In questa accezione, non è importante che la popolazione senta l’importanza, il valore o il bisogno di un intervento. Lo Stato sa meglio dei propri cittadini cosa sia meglio per loro, in un’ottica paternalistica.

Lo Stato, grazie a una consulenza tecnico-scientifica, riesce a mappare i “bisogni di salute” e si intesta il compito di soddisfarli, a prescindere dal fatto che le persone sentano la necessità di quel bisogno specifico. Ciò che fa discrimine non è che la popolazione avverta in qualche modo quel bisogno, ma la valutazione politica del beneficio che se ne può trarre. È possibile così imporre una vaccinazione di massa per la tutela della salute, così come proibire un determinato comportamento (come il fumo nei luoghi pubblici). I cittadini e la popolazione possono non sentire né l’urgenza né l’importanza di un bene meritorio ma tutti devono provvedere al mantenimento di quel bene.

L’epidemiologia, fatta di algoritmi espressi in fattori di rischio e fattori di protezione, permette ai tecnici della salute di comprendere e definire i “bisogni di salute” e i “bisogni di psicologia” della popolazione; di predisporre, conseguenzialmente, programmi di prevenzione e promozione: imparare a riconoscere questi bisogni è il primo passo per stare in salute. 

Parlare di Salute in questi termini comporta inevitabilmente uno sbilanciamento della “cura di sé” dalla persona al professionista, in quanto la persona non può sapere mai, se non quando una malattia si manifesta, se è sano oppure no, se è asintomatico oppure no. Solo il professionista, in possesso delle conoscenze scientifiche e tecniche può valutare e indirizzare la persona verso le scelte decisionali più opportune rispetto al proprio “bisogno di salute”.

La salute, ricorda Sala (op. cit.), rischia di diventare una dichiarazione medica e non un “sentire” della persona, un sentire dal quale si rimane inesorabilmente lontani. È sempre più lontano il tempo in cui la persona era una “esperta di sé”, seppur in difficoltà.

È chiaro che, in questo sbilanciamento di competenze (e di potere), il professionista ha una responsabilità enorme: da qui deriva la richiesta di una maggiore professionalizzazione nei confronti di chi lavora nel campo sanitario.
Il lavoro sulla professionalizzazione della formazione e del professionista è un punto cardine di questo sistema: i professionisti devono garantire un range di competenze omogenee e standardizzate (certificate), ma soprattutto basate sulle “evidenze scientifiche”. 

Se lo Stato si intesta in maniera così totalizzante la tutela della salute, prioritaria diventa la definizione di protocolli che possano “certificare” la correttezza “formale” delle procedure e dei protocolli. 

Purtroppo, a mio avviso, stiamo pagando il privilegio “professionale” con una progressiva perdita di autonomia e libertà da parte dello psicologo.

La cultura psicologica del “professionista sanitario”

Fino a qualche tempo fa per “sanitario” si intendeva un ambito di applicazione del professionista psicologo. Con “sanitario” oggi si intende un processo di professionalizzazione che in maniera inequivocabile comporta, come abbiamo visto, uno sbilanciamento del potere che i professionisti hanno nei confronti dei propri clienti

Alla progressiva normazione del lavoro psicologico descritto nel paragrafo precedente, ha fatto eco, in questi ultimi anni in particolare, una “cultura” psicologica che fa della Salute Psicologica un fatto specialistico e tecnico (Lazzari, 2023). Credo, tuttavia, che dovremmo continuare a riflettere sul potenziale effetto dis-abilitante della gestione professionale e specialistica della salute mentale (Sala, 2009; Illich, 1977; Campo, 2022b).

Promuovere la cultura psicologica significa di fatto educare la popolazione a riconoscere quei “bisogni psicologici” che sono alla base di una “buona cura di sé”, al servizio del proprio benessere personale.

Ritorna però una domanda: cosa sono questi “bisogni psicologici”? da chi vengono espressi? su quale base? in virtù di cosa? è possibile ancora riflettere su cosa si intenda per bisogni psicologici al di fuori della scienza epidemiologica?

A me sembra che questi “bisogni psicologici”, di cui lo psicologo si intesta il soddisfacimento, siano vincolati quasi esclusivamente a criteri di carattere tecnico-scientifico che permettono di inquadrare correttamente problema sociale nonché le procedure idonee a risolverlo: se il problema è una depressione post-partum, è sicuramente necessario individuare l’ambito di intervento elettivo per prevenirne l’insorgenza e definire le linee guida di intervento ritenute più efficaci.

La stessa psicoterapia sta prendendo la forma di un “bisogno psicologico” da soddisfare. Messi così, i bisogni psicologici si definiscono per un “problema pubblico” (come una depressione) da risolvere grazie all’intervento dello psicologo che si muove su base tecnico-scientifica.

Sono una psicoterapeuta e so bene quanto possa essere utile, a chi soffre per una depressione, trovare un sostegno e una relazione di cura, ma non ho mai pensato che l’intervento terapeutico sia l’unico modo per “gestire” una sofferenza di questo tipo. È chiaro, la psicoterapia è il modo elettivo per “gestire” un sintomo, ma non è l’unico. Spesso, ad esempio, si arriva alla psicoterapia quando tutto il resto è risultato non efficace. E forse è anche normale che sia così. È vasta, inoltre, la letteratura che si interroga su quei fattori aspecifici ed extraterapeutici che intervengono sulla “guarigione” (eventi fortuiti, remissione spontanea, supporto sociale, età) (Mandolino, Iossa Fasano, Cardamone, 2020; Fava, 2004;  Acharya, Agius, 2017) e la cui funzione rimane troppo spesso sottovalutata e ignorata da parte di noi professionisti.

Rendere la salute un fatto specialistico, significa dire che davanti a un momento difficile, una crisi, un lutto o qualsiasi altro evento doloroso, gli amici non bastano, né basta la famiglia, né l’ascolto attento ed empatico del prete di fiducia. L’intervento tecnico prende il posto di un sapere più antico e depositato all’interno delle relazioni significative, e la tempestività prende il posto dell’attesa (Campo, 2022b).

Così, lo psicologo non entra in campo quando si manifesta una difficoltà, quando “qualcosa non sta funzionando”, ma prima, per aiutare a riconoscere tempestivamente i segnali di una possibile cronicizzazione di una crisi. Basti pensare alle richieste di intervento da parte di quei genitori preoccupati che affidano a un consulente la gestione dello sviluppo (quasi sempre fisiologico in realtà) dei propri figli. Sempre più spesso la consulenza del professionista viene invocata per valutare se le modalità con cui si sta affrontando un problema siano quelle corrette. Come fa del resto una persona comune a comprendere se il modo in cui sta affrontando una perdita è quello giusto o se sfocerà in una grave depressione, se non grazie alla presenza di un professionista che lo aiuta a riconoscere i propri “bisogni psicologici”? 

Perfino gli studenti reclamano a gran voce la presenza dello psicologo scolastico non tanto per essere aiutati qualora si presentassero dei problemi, ma perché devono essere aiutati e supportati a imparare a prendersi cura di sé per stare bene. Come se ci fosse un manuale che possono acquistare per imparare a stare bene!?

Mi si potrebbe obiettare: ma abbiamo sempre lavorato così, qual è il problema? Altrimenti come potremmo mettere a punto qualsiasi programma di prevenzione?

L’affermare che lo abbiamo sempre fatto non implica sospendere una riflessione su cosa stiamo facendo e su come lo stiamo facendo. Abbiamo più di trent’anni di storia della professione alle spalle per poter iniziare a fare un bilancio dell’esperienza maturata in questo periodo.
Trent’anni sono un periodo abbastanza lungo per potere iniziare a fare il punto della situazione? e soprattutto per chiederci se siamo ancora disponibili ad andare verso una definizione “sanitarizzata” della nostra professione? o per chiederci se questa sia l’unica direzione verso la quale è possibile andare?

Dal mio punto di vista, questa onnipresenza del professionista psicologo rischia di qualificarsi nei termini di una vera e propria “sorveglianza sanitaria”: un sistema che si attiva nell’ordine della tutela della salute è un sistema che lavora all’interno di un regime di protezione quando non di approccio alla cura di tipo protezionistico.

Mi chiedo se sia questa la cultura psicologica da promuovere, a cui fa riferimento la revisione dell’art. 21 dell’attuale codice deontologico.

Una cultura che rischia di alimentare posizioni fobiche, ipocondriache, ossessive, isterico-paranoiche (Mignosi, 2023) nei confronti del proprio corpo, della propria mente, di ciò che è “umano”.

Come possiamo continuare a fidarci del nostro corpo e della nostra capacità di ascoltarci quando la “cura” del corpo e della mente è un puro atto specialistico? Quanto non colludiamo con la promozione di una cultura eteronoma, che veicola l’idea di una rassicurazione, di un “appoggio” solo ed esclusivamente all’esterno, da noi e dal campo delle nostre relazioni significative? Quanto favoriamo richieste di protesi tecniche e tecnologiche? Così, al rapporto diretto rischia di sostituirsi il rapporto mediato dalla presenza di un professionista.

All’interno di questo paradigma culturale della cura, sempre meno lo psicologo può prendere la posizione di “osservatore” che, pur nella sua funzione pubblica originaria, ha sempre cercato di tenere. Diventare parte integrante del sistema, anche quando è il sistema che “fa ammalare”, ci rende sicuramente una professione meno autonoma e meno libera, e forse ci espone maggiormente a un rischio collusivo di cui dovremmo essere quantomeno consapevoli.

Come sarà possibile, all’interno di questa prospettiva, mantenere uno sguardo epistemologico su come costruiamo gli oggetti e i soggetti della psicologia? di quali pratiche professionali saremo interpreti se il nostro ruolo è di sussidiarietà alle politiche governative? dal mio punto di vista è una perdita di autonomia importante e significativa: anche quando ci riteniamo autonomi nella definizione dei nostri oggetti di lavoro, in realtà lo siamo molto meno di quanto pensiamo. Certo, non siamo mai pienamente autonomi nella costruzione della realtà, ma proprio per questo è importante potere continuare a “pensare ciò che ci pensa”; il rischio è di rimanere, anche noi, dipendenti da logiche eteronome rispetto al nostro lavoro.

In una prospettiva in cui la Salute è definita “altrove” (senza la partecipazione dei cittadini o dei pazienti) e amministrata da specialisti della salute, che fine fa il soggetto?

Se il professionista è colui che “sa”, che possiede le competenze per aiutare le persone a stare in Salute, che sa cosa è giusto fare per qualsiasi problema (per cui sono sempre pronte nuove definizioni a cui corrisponde una tecnica che ci aiuta a liberarcene) quale competenza di sé rimane al soggetto?

Il codice deontologico delle psicologhe e degli psicologi

La revisione del codice deontologico prevede l’introduzione di una premessa etica che non sarà oggetto di quesito referendario. Inoltre, tutti gli articoli sono stati titolati in modo da rendere più fruibile il senso dell’articolo stesso.

La Premessa Etica

La Premessa Etica accompagnerà il nuovo Codice Deontologico e sarà vincolante per tutti gli iscritti all’Ordine; nonostante ciò, questa non sarà oggetto di quesito referendario. Non se ne comprende bene il motivo.
Questa Premessa Etica è liberamente ispirata al metacodice EFPA (Federazione Europea delle Associazioni di Psicologi) che fornisce le linee guida per i contenuti dei Codici Etici delle Associazioni che ne fanno parte (Ruberto, 2023). Per questo motivo è ipotizzabile che non abbia bisogno di una riflessione pubblica né tanto meno di una approvazione, ma chiaramente rimaniamo nel campo delle ipotesi.

Più volte i rappresentanti dell’attuale CNOP (Ruberto 2022, 2023; Lazzari, 2022) hanno segnalato la necessità di una Premessa Etica; una valida deontologia professionale deve poter definire con precisione i principi etici da introiettare per cucire correttamente il proprio abito deontologico e favorire l’acquisizione delle corrette procedure di pensiero.

La Premessa Etica, che accompagna la revisione del Codice delle psicologhe e degli psicologi, tratteggia e sagoma un professionista che fonda la propria etica professionale sulla scienza e sulla tecnica. Secondo Parmentola (2022), uno dei primi estensori, il vertice etico dovrebbe potersi dispiegare sul vertice scientifico e darsi nell’appropriatezza tecnico-scientifica: la responsabilità verso le persone e la società àncora lo psicologo in un discorso di competenze, per cui i ragionamenti dovrebbero attenersi a ciò che viene ritenuto essere valido e scientifico, i riferimenti scientifici dovrebbero rispettare un certo standard per essere attendibili e i curricula professionali dovrebbero essere certificabili.

Secondo i revisori, la capacità di costruirsi una propria pratica professionale deontologicamente orientata deve rifarsi necessariamente e prioritariamente a conoscenze scientifiche accreditate che ne possano garantire l’attendibilità.

Non posso fare a meno di ricordare come la storia dell’uomo testimoni di pratiche che, ammantante dall’aura della scientificità, si siano rivelate essere inefficaci quando non pericolose.

Pur non di meno, la revisione sostiene la figura di uno psicologo che per potere essere etico deve essere molto tecnico.

Questo accento sulla tecnica espone lo psicologo alla gestione di un altro tipo di responsabilità, di carattere più professionale. Come ci ricorda il metacodice EFPA il sapere tecnico si configura come una forma di potere.

Il sapere tecnico tende a creare una diseguaglianza di conoscenze, e quindi di potere, che il professionista detiene nei confronti delle persone. Più è ampia questa diseguaglianza di conoscenze all’interno della relazione, maggiore è la responsabilità dello psicologo.

Quindi, la competenza professionale si configura come un potere che viene assegnato al professionista nei confronti delle persone che a lui si rivolgono, che dovrebbe essere amministrato con grande professionalità. L’uso tecnico della conoscenza sembra volersi proporre come un uso “buono” di questo potere.

Questo aspetto “tecnico”, poco presente nella prima estensione del codice, oggi diviene la premessa con la quale formulare la migliore regola professionale.

Vincolare lo psicologo a una formazione valida è indispensabile, ma questa premessa etica sembra andare oltre. Sembra essere, infatti, un tentativo per normare la responsabilità del professionista nei confronti degli utenti e dei committenti, definendo con chiarezza in che modo è possibile esercitare o non esercitare la propria influenza (art. 3). La Premessa Etica sembra voler stabilire, una volta e per tutte, i confini tra ciò che è scientifico e morale, e ciò che è riferibile al campo della “superstizione” e della “irrazionalità”.
La tecnica, infatti, risponde all’esigenza di qualificare il nostro lavoro in quanto professione scientifica e sanitaria, ed espressione di un potere buono. 

La revisione del Codice vuole proporre quindi degli ethical standard, oggettivabili, standardizzati e condivisi per costruire la propria regola professionale. Gli ethical standard sono, però, prima di tutto dei technical standard: la loro introiezione permette di sagomare professionisti moralmente e tecnicamente validi. La garanzia di un potere neutro e non arbitrario sembra risiedere proprio nel discorso scientifico.

La coscienza del clinico che si muove “caso per caso” sembra essere ridotta all’osso e derubricata a qualcosa di arbitrario.

Prima, ciò che muoveva la coscienza del clinico era un’etica fondata sulla relazione, sul rispetto e su un continuo lavoro su di sé capace di tenere dentro il ragionamento sugli assunti epistemologici e sulle premesse culturali del periodo. Questo costante lavoro permetteva al clinico di assumersi la responsabilità di ciò che faceva all’interno della relazione.

A mio avviso, una riflessione etica non dovrebbe cercare fuori degli appigli oggettivabili, ma cercare di fondarsi dentro un discorso interpersonale ed epistemologico sul potere.

Gli standard etici, invece, sembrano rispondere alla ricerca di un “valore” al di fuori della relazione.

Il vecchio professionista sagomato “con scienza e coscienza” lascia il posto al professionista per il quale la “scienza è coscienza”: i ragionamenti clinici, la libertà e l’autonomia lasciano il posto alle conoscenze tecnico-scientifiche.
Sicuramente la scienza risponde a un bisogno di sistematizzazione dell’insieme di conoscenze che è riuscita ad acquisire nel corso dei secoli, ma non si può pensare di sostituire l’esperienza reale con quel paziente reale, che fonda una deontologia pensata “caso per caso”.

Spinsanti (2020) evidenzia come l’attuale ricorso al modello scientifico comporti un sempre più ridotto grado di libertà del clinico rispetto alla possibilità di interrogare il proprio sapere secondo le contingenze del caso.

Il tentativo di definire gli standard etico/scientifici rischia di far fuori quella componente soggettiva del professionista che, operando in scienza e coscienza, rende non standardizzabile la misura deontologica. Il dato soggettivo, che fino ad oggi era legato alla coscienza del professionista e ai suoi ragionamenti clinici, rischia di non trovare spazio all’interno dell’attuale revisione.

Così sembra essere conferita una posizione di superiorità alla Scienza rispetto a tutte le altre fonti di conoscenza, perfino quella derivante dalla persona che incontriamo. È da verificare sul campo, chiaramente, se questa posizione di superiorità garantisca la migliore regola deontologica. Secondo Spinsanti (ibidem) il rischio che attualmente corre la professione medica è di vedere aumentata la propria subalternità alla “politica politicante”, quella politica che ci chiede di diventare erogatori di protocolli ben lontani da una reale preoccupazione per la salute dell’altro.

Il vertice introdotto nell’attuale revisione apre, infatti, ai protocolli, alla medicina evidence based, ma anche alla medicina difensiva.

La stessa revisione dell’articolo 22 sulle “condotte non lesive” prescrive l’ancoraggio professionale alle linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali. 

Il concetto di standard, necessario quando si tende a un maggiore controllo sulla qualità dei servizi e del trattamento erogato, ci espone anche a una visione professionale appiattita sulla performance e sulla semplice valutazione di una performance. La logica performativa e valutativa è ciò che spinge molti clinici a chiudersi dentro una medicina difensiva, scegliendo di proporre solo quei trattamenti che garantiscano l’impunità davanti alla legge.

Le linee guida, secondo Spinsanti (op. cit.) non dovrebbero avere una rilevanza giuridica.

Con l’attuale revisione, il Codice Deontologico sembra volere indicare, come più volte suggerito da Stampa (2019), la strada della legalità di una determinata condotta.

Ma il discorso sulla legalità non risolve il discorso sulla legittimità di una professione così standardizzata. Questa revisione rende sicuramente il Codice più adatto a interfacciarsi con il nostro sistema giuridico fondato sul principio della legalità e del giusto processo (qualora ci dovessero essere dei procedimenti disciplinari, civili e/o penali) ma meno adatto a rispondere alle questioni etiche alla base della professione.

Il principio della legalità (cosa fare per non incorrere in sanzioni) e della regola (certificazioni, standard, qualità) sembra essere penetrato con troppa facilità all’interno delle riflessioni sul Codice Deontologico.
La riflessione sulla legalità di un’azione non può prendere il posto della riflessione su ciò che è lecito e legittimo.
Si rischia, così, di scambiare la legittimità (ad esempio lavorare senza essersi vaccinati) con la legalità (ad esempio obbligo e sospensione per illecito deontologico).
L’etica dovrebbe rispondere alla domanda di ciò che è lecito o non lecito fare mentre, a livello culturale, sembra esservi un appiattimento dell’etica sulle leggi.

Davvero possiamo dire che la pratica fondata su “scienza e coscienza” sia arrivata al suo tramonto naturale? davvero lo standard (un valore numerico, esterno e arbitrario) può garantire da solo la validità, la correttezza, la legittimità di un determinato trattamento posto in essere da un professionista?

Basta affidarsi alla tecnica per essere sicuri di non usare indebitamente il potere assegnato allo psicologo?

Pensare che la Scienza sia “esatta” è abbastanza opinabile, soprattutto alla luce delle conoscenze e delle riflessioni epistemologiche attuali (Ceruti, 2018). La scienza è un prodotto della riflessione e della pratica umana, e come tale andrebbe sottoposta a una costante interrogazione di carattere epistemologico.

Già nel 2005 Ioannidis poneva un dubbio sull’attendibilità delle ricerche scientifiche: secondo lo scienziato la maggior parte delle ricerche pubblicate e accreditate non riescono a rispondere ai criteri di replicabilità alla base del metodo scientifico.
Qualche anno dopo (2017), insieme a un gruppo di ricercatori, Ioannidis pubblicava il Manifesto per la scienza riproducibile, denunciando gli innumerevoli conflitti di interesse nel campo delle sperimentazioni scientifiche, spesso sovvenzionate dal lobby e case farmaceutiche.
E non possiamo negare le pressioni che i ricercatori ricevono per pubblicare contributi scientifici e mantenersi, anche loro, dentro certi standard professionali.

Ma, anche se volessimo ammettere una presunta neutralità alla scienza, sarebbe etico delegare in toto alla scienza le scelte che ci riguardano e che riguardano la nostra salute?

Sicuramente questo approccio proposto dai revisori si sposa con la visione della Salute come un fatto specialistico che dai tecnici della salute deve essere amministrato. Solo uno specialista scientificamente e tecnicamente preparato usa il proprio potere in maniera etica e deontologica. La certificazione ECM, per fare un esempio, dovrebbe garantire di trovarsi in presenza di un professionista deontologicamente orientato. 

Nel tentativo di rifondare la deontologia in termini tecnico-scientifici, questa premessa etica rischia di appiattirla all’interno di una dimensione tecnico-amministrativa della salute e della malattia. Non posso fare a meno di notare come sia sparito qualsiasi riferimento al diritto all’autodeterminazione delle persone: non se ne trova traccia né nella premessa etica né nell’articolato revisionato: se la Salute è un Bene Meritorio, se è un fatto specialistico/professionale, quale spazio rimane per l’autodeterminazione?

Dal mio punto di vista, una riflessione etica, peraltro, non si dovrebbe limitare a costruire la migliore regola deontologica per amministrare questo potere (e rendere meno arbitraria la scelta del professionista), ma dovrebbe includere un discorso sulla legittimità di questo potere. È legittimo conferire al professionista tutto questo potere sulla vita delle persone?

Quella “parte” della psicologia che opera “caso per caso”, in ascolto della persona prima ancora che del sintomo, riuscirà a possedere i requisiti per ottenere le “condizioni di cittadinanza” nel mondo delle professioni sanitarie? a quale prezzo?

L’istituzione di un Ordine, qualunque esso sia, apre necessariamente a una riflessione sulla tutela dell’utente che si rivolge a noi. Si può essere d’accordo o meno sulla necessità di un Ordine che regolamenti la professione, ma una volta istituito, esso deve vigilare sulla qualità dell’offerta.
Ma siamo sicuri che la deriva tecnica conseguente alla logica degli standard sia al servizio di una professione così varia, ricca e plurima (Campo, 2022a)?

È chiaro, le leggi non le possiamo cambiare, ma non possiamo neppure esimerci da una riflessione su ciò che ci precede e ci istituisce. 

Trattamenti sanitari e rispetto della dignità della persona: verso una revisione

La revisione del Codice, che è attualmente in fase di approvazione, aggiunge una valenza etico-deontologica al Consenso Informato.

Anche qui potremmo dire “nulla di nuovo all’orizzonte”: il consenso informato ormai è prassi per qualsiasi professionista.

In questo caso non si tratta di mettere in discussione un principio importante e di civiltà, ma domandarsi a cosa risponda farlo diventare ciò che fonda eticamente la relazione con l’altro.

Nelle intenzioni del legislatore, il consenso informato vorrebbe andare oltre quella logica paternalistica che ha attraversato buona parte della pratica medica; ma, proprio dove cerca di scardinarla, la legittima. Nulla del vecchio apparato paternalistico viene messo in discussione, piuttosto si conferma l’ineguaglianza nelle informazioni tra medico e paziente. Viene solo ammesso che nessun trattamento può essere eseguito senza un consenso che sia informato, libero e consapevole. 

Il consenso informato è uno strumento/processo previsto solamente nel caso dei trattamenti sanitari. Da quando, con la legge 3/18 siamo diventati professionisti sanitari, siamo anche noi (giustamente) vincolati all’obbligo del consenso informato.

La revisione, quindi, è necessaria per ridefinire il lavoro degli psicologici che prestano la propria opera nel campo della salute. Il “vecchio” codice parla infatti ancora di semplici prestazioni psicologiche. In linea con la legge, da questo momento in poi gli psicologi si occupano di trattamenti e il consenso informato è ciò che permette al professionista di agire in tal senso.

Proviamo a chiarire cosa significhi questo passaggio.
Gli psicologi (esclusi pochi casi professionali) non “prestano” più “la propria opera nell’espletamento di un’attività intellettuale”, ma offrono “trattamenti”.
Il concetto di “trattamento” ci introduce dentro un discorso tecnico e scientifico che necessita di un’alta professionalizzazione.

Trattamento diventa, coerentemente con la legge, qualsiasi intervento di carattere preventivo, terapeutico o diagnostico, di carattere volontario o obbligatorio, da praticare sulla persona per migliorarne le condizioni di vita e di salute.
Nessun trattamento può essere praticato senza il consenso della persona; il professionista, valutata un determinata situazione, aiuta la persona a prendere la scelta più adeguata alla propria salute.

Ciò significa, ad esempio, che la prevenzione è diventata un trattamento sanitario. Fare prevenzione significa “trattare” la popolazione o una popolazione target indirizzando i comportamenti verso posizioni più salutari.
La stessa psicoterapia diventa un “trattamento di cura” e come tale deve poter rispondere a criteri di scientificità e attenersi a protocolli per la gestione del sintomo. Fare diventare così, la psicoterapia il “trattamento” tecnico per un disagio, sia pure per una psicopatologia, significa appiattire l’esperienza esistenziale di una persona, l’esperienza relazionale del prendersi cura, in una “gestione del sintomo”.

La logica sanitaria della legge 3/18 entra, senza se e senza ma, all’interno di una pratica che ha sempre coltivato al suo interno anche una visione umanistico-esistenziale dell’essere umano.
Per una beffa del destino, l’approccio centrato sulla persona, sulla relazione e sul rispetto dell’autodeterminazione potrebbe di fatto diventare l’ambito specifico dei counselor, consulenti non professionalizzati per la cura relazionale al servizio di un approccio umanistico.

I professionisti, al contrario, diventano titolari (manager) della gestione dei processi di “cura”: è sempre il professionista a sapere cosa è il bene del paziente. Se il “Sapere” è allocato nelle mani del professionista, la persona può solo dare il proprio consenso.

Il principio alla base del consenso informato trova la sua ragione d’essere proprio nel processo di professionalizzazione del sanitario: l’evidente squilibrio di conoscenze tra chi cura e chi viene curato dovrebbe essere contenuto grazie a una comunicazione sincera e professionale tra medico e paziente.

È un atteggiamento che paragona il paziente a un consumatore (del prodotto Salute) che va informato: la corretta informazione permette al consumatore di prendere delle scelte sul prodotto in maniera consapevole.

Non vi è ombra di dubbio che, in questa prospettiva, il consenso informato sia un atto civile rispetto all’abuso di potere che i medici hanno perpetrato sulla vita delle persone in barba ai principi costituzionali dell’indisponibilità del corpo, dell’inviolabilità della libertà della persona e del diritto a scegliere sulla propria salute. Troppi sono i danni di cure “estorte” senza il consenso della persona.

La comunicazione, nella logica del consenso informato, ha un ruolo centrale: il professionista informa e condivide con la persona tutte le informazioni in proprio possesso rispetto allo stato di salute della persona, al trattamento necessario per quel tipo di problema, argomentandolo e rendendo chiari benefici e rischi.
La comunicazione chiara e trasparente vuole trasformare la persona in un soggetto capace di prendere decisioni responsabili sulla propria vita e di diventare un soggetto attivo nella gestione della malattia. 

Da un lato, quindi, c’è un professionista in possesso di tutte le conoscenze scientifiche e tecniche disponibili, dall’altro una persona che dipende dal professionista rispetto a quanto c’è da fare; da un lato un professionista titolare del trattamento, dall’altro un paziente titolare di un consenso.

Il ruolo del professionista è di avere grande cura di questo momento comunicativo con il paziente perché da questo discenderà la possibilità della persona di prendere delle scelte responsabili. Qualora il clinico dovesse valutare la necessità di cambiare le “cure” per la persona, questa va informata e deve poter dare un nuovo consenso.

Sostenere la persona nel processo decisionale rispetto alla somministrazione di una cura è una parte centrale del processo terapeutico. L’obiettivo è fornire, dentro una comunicazione autentica, tutte le informazioni per aiutare la persona a comprendere l’importanza di quella cura, accettandola; la motivazione alla cura, inoltre, aumenterebbe la compliance al trattamento.

Insomma, in linea teorica, i principi costituzionali alla base del rispetto della dignità della persona sarebbero così tutelati.

A differenza però del consumatore tipo, nel campo della salute non si possono mai riuscire a dare tutte le precise informazioni che si potrebbero fornire, quanto meno in linea teorica, per la scelta di un prodotto commerciale. Al contrario, il paziente dipenderà costantemente da un soggetto che ne saprà sempre di più di lui. È il professionista a padroneggiare una competenza e una tecnica da cui il paziente è escluso, nonostante tutte le informazioni che può ricevere a riguardo. Il paziente nulla sa di cosa potrebbe accadere se le proprie condizioni di salute dovessero cambiare, né è capace di prevedere l’impatto delle sue decisioni sulla propria vita. 

Le informazioni che un professionista comunica al proprio assistito rendono solo fittiziamente l’altro veramente edotto. Non voglio certo negare l’importanza “civile” di questo atto; mi chiedo, semmai, se effettivamente basti una comunicazione trasparente per eliminare definitivamente l’ombra paternalistica dai processi di cura, visto che la persona, per quante informazioni possa ricevere, non potrà mai “sapere” cosa “tecnicamente e scientificamente” sia giusto per sé. La co-costruzione di un percorso di guarigione della persona, la costruzione della stessa alleanza terapeutica rischiano di svilirsi nella costruzione condivisa e partecipata del processo decisionale.

La proposta di revisione del Codice Deontologico vuole mettere al centro dell’operatività del professionista l’informazione e il consenso. Non basta più che questo venga dettagliato nell’articolo specifico (art. 24), ma l’informazione e il consenso diventano ciò che qualifica la relazione professionale, tanto da comparire fin dai primi precetti del Codice Deontologico.

La revisione dell’articolo 4 è forse quella che più di tutti riformula il ruolo dello psicologo, in quanto vuole fondare la tenuta dell’agire professionale (per come espresso nell’art. 3) sull’assunto che non vi può essere rispetto senza consenso (Leardini, 2023).

Infatti, la revisione dell’art. 4 riprende fedelmente una parte dell’attuale e ancora vigente art. 24 per inserirlo come primo comma dell’art. 4: il consenso (anche se non nella declinazione del consenso informato) è necessario non solo per sviluppare la motivazione della persona e la sua adesione al trattamento, ma anche per garantire alla relazione professionale un governo consapevole e appropriato (ibidem).

Il vigente art. 4 (“Nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità […]”) verrà sostituito con il seguente precetto: “La psicologa e lo psicologo, nella fase iniziale del rapporto professionale, forniscono all’individuo, al gruppo, all’istituzione o alla comunità, siano essi utenti o committenti, informazioni adeguate e comprensibili circa le proprie prestazioni, le finalità e le modalità delle stesse, nonché circa il grado e i limiti giuridici della riservatezza”.

Quindi il consenso (sia quello generale che quello informato) si dovrebbe qualificare come strumento indispensabile per il rispetto della libertà, della dignità e dell’autodeterminazione, ma l’unico potere di cui rimane titolare la persona è il potere di accettare o negare le cure (sempre che il “non consenso” non venga letto come una resistenza o esitazione da “trattare”).

Ma, al di là del rispetto formale e legale dei principi costituzionali, davvero un consenso informato protegge i diritti all’autodeterminazione, alla libertà e alla dignità di una persona?

Dove finisce quella spinta etico esistenziale presente nel vigente art. 4, che fonda eticamente la relazione, vincolando il professionista al rispetto della dignità, al diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione e autonomia di chi si avvale della sua competenza? Che fine fa lo psicologo sagomato sull’idea di un’accettazione vera e incondizionata della persona, disposto a non imporre i propri sistemi di valori e di visioni del mondo e della salute stessa?

L’eticità, dal mio punto di vista, si fonda sul rispetto della dignità della persona, sulla sospensione del giudizio e sulla non discriminazione. Autodeterminarsi, per altro, è qualcosa di più che un semplice essere padrone delle scelte che ci riguardano. L’autodeterminazione personale, infatti, è qualcosa di più dell’autodeterminazione terapeutica, quanto più la prima si qualifica come libera espressione di sé in relazione alla propria vita, tanto più la seconda si inquadra come libera scelta in relazione a una cura e alle scelte prospettate da altri.  

Non sono una esperta di diritti costituzionali, ovviamente, ma formulato in questo modo il consenso sembra essere una liberatoria legale, per quanto nella forma di un processo comunicativo, per continuare ad agire in nome di un paternalismo professionale e sociale.

Inutile girarci attorno, il consenso informato, oltre ad essere un processo comunicativo tra la persona e il professionista, è anche uno strumento che tutela dal realizzare illeciti deontologici o reati penali. Il consenso informato è figlio di quella logica contrattualistica di carattere neoliberale che esonera le persone dall’assumere in prima persona le proprie responsabilità. 

Sicuramente penso che avremmo bisogno di comprendere un po’ di più queste questioni: come già detto, mi sembra che il consenso solo fittiziamente risolva il problema di una visione paternalistica della cura, e così rischi di lasciare un enorme vuoto etico. Ad esempio: cosa rende dignitoso e rispettoso un trattamento terapeutico? Può essere l’adesione al principio della legalità?

Davvero le persone che si sono sottoposte in maniera obbligata alla vaccinazione hanno sentito rispettata la propria dignità e il diritto all’autodeterminazione solo perché avevano apposto una firma sul consenso informato?

La loro dignità, davanti a un obbligo surrettizio, è stata forse ripristinata da una firma che ne consentiva la somministrazione? Ci sono persone che hanno inventato gli stratagemmi più estremi (perfino un braccio finto) nella speranza di vedere ripristinato il valore della propria persona ad autodeterminarsi, e tutelati i propri diritti umani, prima ancora che costituzionali. Il mancato consenso, pur essendo nel diritto delle persone, è stato trattato da un punto di vista sanitario (pubblico) come una esitazione da sciogliere per vincere le irrazionali “resistenze”; l’esitazione andava trattata come intervento sanitario volto a sviluppare nelle persone un valore civico a tutela della salute pubblica.

Mi si può chiaramente obiettare che questo è un esempio che riguarda il campo medico. Ma vorrei ricordare che gli psicologi hanno avuto un gran da fare nel trattare le esitazioni vaccinali grazie a un loro reclutamento di massa in quella campagna vaccinale che ha discriminato e negato diritti, nonché leso la dignità delle persone.

Gli psicologi hanno favorito forme di discriminazione e imposto alle persone un sistema di valori, per quanto dichiaratamente tecnico/scientifico. So per certo di terapie che si sono concluse perché i terapeuti erano impegnati a interpretare le resistenze alla vaccinazione dei propri pazienti, o di terapeuti che hanno invitato i propri pazienti a vaccinarsi, altrimenti avrebbero interrotto il trattamento. Si può continuare a negare la lesione dei diritti a livello giuridico, ma ciò non cambia la sostanza.

Nel corso della campagna vaccinale, il rispetto della dignità, della riservatezza, dell’autodeterminazione, della libertà, dell’indisponibilità del corpo sono stati solo una chimera.

Sicuramente il consenso informato riesce a rispondere al principio della legalità di un trattamento, ma non risolve l’intero spettro delle questioni etiche che si prospettano davanti, tra cui il rispetto della dignità della persona e la dignità della cura.

Di nuovo, si confonde l’aspetto della legalità con quello della legittimità: il fatto che una cosa sia legale non significa che sia legittima, e questo noi psicologi dovremmo saperlo bene.

Dal mio punto di vista, il cambio di paradigma in questa proposta è evidente. Non più i principi etici che dovrebbero portare alla sagomatura della migliore regola deontologica, ma sembra quasi che la deontologia si fondi sulla liberatoria ad agire.

Sembra una deontologia alla Sheldon Cooper! Il consenso fa prevalere il potere di alcuni sugli altri: è un contratto, seppur nella formula di consenso informato, che regola i rapporti di potere rendendoli legali. Pur in tutta la sua simpatia, Sheldon era incapace di stare nei rapporti senza che questi fossero vincolati, tutelato quindi da un contratto. Sheldon, in virtù della firma su questi contratti, poteva rendere “legali” perfino dei veri abusi di potere! Un approccio che fa eco a quella visione neoliberista in cui la libertà, la dignità e l’autodeterminazione si riducono a una semplice accettazione delle condizioni imposte da un altro (il consenso informato si può solo accettare o rifiutare).

La nostra società prima e la comunità professionale dopo sembrano avere fatto propria la logica neoliberista che vuole comprimere i rapporti (generativi, sessuali, terapeutici) dentro logiche consensuali e contrattuali, per riequilibrarne il potere all’interno (Pateman, 1988, De Carolis, 2018). Secondo Pateman (1988) il rapporto neoliberista nasce da un libero accordo tra le parti, che qualificandosi come accordo sul managing, pone il diritto di comando nelle mani di una delle parti contraenti. Una logica che nasconde l’ombra paternalistica di una pratica professionale che si sente legittimata ad agire a partire dalla pretesa di relazioni di iperprotezione/dipendenza del soggetto e della sua comunità di appartenenza.

Pur riconoscendo l’importanza che la persona possa decidere fino all’ultimo istante sulle scelte che altri prendono sulla propria vita, è anche vero che la questione della dignità personale non si può appiattire solo su questo.

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