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Domande che curano

Venerdì 3 maggio 2024 alle 17.30, presso la nuova sede dell’Associazione #DallaStessaParte a Palermo in via dell’Artigliere 6, presenteremo il libro Domande che curano.
Roberta Campo ha scritto per noi una recensione accurata: un invito alla lettura in cui si riconoscono i principi che ci hanno motivati a fondare l’associazione e che abbiamo sintetizzato nel nostro progetto.


Domande che curano è scritto da quattro psicologhe reichiane unite nel desiderio di stare insieme per farsi domande.

Le Autrici si muovono e si inoltrano tra questioni volutamente aperte, senza avere mai la pretesa di dare delle risposte; ma il libro è anche un invito a mettere la testa fuori dagli spazi occupati da un collettivo amente, sempre meno interessato a interrogare ciò che viene dato per scontato nel quotidiano.

Domande che curano può essere visto, quindi, come una vera e propria messa in discussione che indistintamente interroga tutti a ritornare a sostenere lo sguardo su come concepiamo lo spazio comune e condiviso, proprio dopo un periodo storico tristemente e dolorosamente attraversato da divisioni, sfiducia, desiderio di controllo, sospettosità. Sentimenti, questi, che hanno segnato come mai prima d’ora persino quei legami che consideravamo indissolubili, ma che invece sono stati bruscamente strappati.

Il testo attraversa temi fondamentali e solo apparentemente diversi tra di loro: il politicamente corretto, le pratiche sanitarie, il ruolo della psicologia oggi e le politiche sanitarie, la gestione dell’informazione a opera dei mass-media, la verità, il trans- e post- umano, la morte.

Si vorrebbe sfatare l’idea che argomenti come ‘scienza’, ‘tecnica’, ‘bene comune’, ‘politiche sanitarie’ siano autoevidenti, tanto da non dovere essere né questionati né motivati.

Il volume è una proposta per guardare, osservare e comprendere ciò che ci precede, e iscrive il nostro esistere all’interno di un corpo collettivo più ampio.

La continua ricerca delle domande lo rende anche un’occasione per riattraversare le ferite che hanno lacerato la nostra comunità, non solo civile ma anche professionale.

Apparentemente sembra che stiamo parlando di un periodo già passato alla storia. Tutto sembra tornato alla normalità, ma non è andato tutto bene come si sperava inizialmente. Non solo allora, quando si svolgevano i fatti. Purtroppo ancora oggi sembra esserci un certo pudore nel tornare a parlare di quanto è accaduto e che, in ambiti solo apparentemente diversi, continua ad accadere ancora adesso. Spesso si rileva un fastidio nei confronti di chi si ostina a tornare a parlare di lockdown, ma soprattutto di vaccini e dell’obbligo vaccinale, di questa storia comunque tormentata e tormentosa.

Tutto fa pensare che in realtà vi sia poco di elaborato su quando accaduto.

Dunque, non possiamo dire che sia andato tutto bene: ognuno porta con sé un personalissimo “strappo”. Il testo, però, non si riduce mai a diventare un banale tentativo di ricucire le lacerazioni e disinfettare le ferite. Dal mio punto di vista prova a fare qualcosa di più.

Questo qualcosa in più lo dichiarano le stesse Autrici quando condividono il senso del loro pseudomino: Eumenidi.

Le Eumenidi, nella tradizione greca, sono le dee della benevolenza che vigilano sulla Giustizia. La storia delle Eumenidi di Eschilo è proprio la storia di una vendetta trasformata in benevolenza. Le Erinni, dee possedute da un senso di giustizia vendicativa sono implacabili e inarrestabili. Solo Atena, con la promessa di venerazione eterna, riesce a calmare le Erinni trasformandole in Eumenidi, dee a cui viene affidato il compito di vigilare che a nessuno venga fatto del male.

Queste moderne dee restauratrici ci parlano della loro benevolenza già a partire dal titolo. Le domande curano poiché permettono di fare spazio al grido sordo delle morti in solitudine, delle Antigone afflitte davanti a Creonte, dei bambini spenti dentro le aule sterilizzate della scuola, degli anziani disperati e soli, degli adolescenti senza gruppo.

Al grido di vendetta si sostituisce la parola del “Giusto”, inteso non in termini morali, né in termini di regole. La Giustizia delle Eumenidi giudica l’oppressione, in qualsiasi forma essa avvenga, dell’uomo sopra un altro uomo, perché di esso ne riconosce la sacralità unica e inviolabile.

Il testo si apre con le parole di Hanna Arendt e si chiude con un brano di Italo Calvino tratto da Le città invisibili, probabilmente a volere rimarcare l’importanza di continuare a farci domande su ciò che è dato come ovvio, come autoevidente. È un invito a praticare l’etica della responsabilità, così come pensata da Arendt, per non trasformare il mondo nell’inferno dei viventi.
Porsi le domande consente anche di recuperare un assunto importante per praticare il giudizio, inteso come capacità di giudicare l’arbitrio e l’arbitrario che, in quanto tali, rischiano di essere insopportabili per l’animo e la mente. Non è la malvagità dell’uomo, infatti, a rendere il mondo (e la vita) un inferno, ma l’inadeguatezza dei criteri morali con cui vengono giudicate le azioni.

Il testo riesce sempre a sfuggire al tentativo di moralizzare la società grazie alla capacità delle Autrici di assumersi la responsabilità del “fare le domande”, compito che dovrebbe diventare, in ultima istanza, analisi del potere e dell’esercizio del potere. Perché l’inferno dei viventi può essere una fabbrica, una R.S.A., una scuola, un ospedale, un sistema politico, un impiego. L’inferno si presenta ogni qualvolta viene mortificata la sacralità della vita.

È un discorso, questo, al di fuori della legge e della normatività giuridica.

La Giustizia a cui si rivolgono le nostre moderne Eumenidi appartiene all’ordine del sacro. Del resto, i Greci non avevano una termine corrispondente al nostro “diritto”.

Il sacro chiaramente non va letto in chiave religiosa: siamo in presenza del sacro ogni volta che ci troviamo di fronte a qualcosa che non può essere definito in nessun modo, se non tramite un apriori.

Possiamo davvero avere la presunzione di sapere cosa sia la vita? O come si debba definire rispetto della persona umana? Cosa sarebbe la dignità?

Nell’antica Roma il nome era qualcosa di sacro. Tutte le città avevano un nome sacro segreto, che potevano conoscere solo i sacerdoti e che andava custodito pena la distruzione della città stessa. Conoscere il nome significava potere influire, dominare e sottomettere. Conoscere il nome dà potere, nel bene e nel male.

Se ci pensiamo, ogni qualvolta proviamo a definire alcuni concetti sacri, stiamo aprendo alla possibilità di un arbitrio. Ogni volta che disegniamo, grazie al potere di una definizione o di una norma civile, il significato di un concetto, stiamo tracciando un pericoloso confine che permette di definire standard, criteri, regole e deroghe. Ma potremo anche trovare sempre l’eccezione che conferma la regola, proprio come ne La fattoria degli animali di Orwell. Soprattutto sarà possibile trasformare una “dignità inalienabile” in qualcosa di alienabile, perché per ogni confine vi è “un al di là” dove qualcosa diventa possibile.

L’articolato “civile” delle definizioni dello spazio del sacro trasforma la Giustizia delle Eumenidi nella riflessione su quanto sia lecito il potere che una persona può esercitare su un’altra persona, pur rimanendo non perseguibile dalla giustizia.

Ecco perché l’importanza del farsi le domande. Le domande alzano il velo e rendono visibile ciò che in realtà è arbitrario.

Non a caso, per Simone Weil vita, dignità, rispetto, inalienabilità sono termini che appartengono all’ordine del sacro, perché nel momento stesso in cui ci impegnamo a definirli – in termini morali, culturali, sociali, psichici, giuridici – perdono il loro carattere sacro e possono essere circoscritti, revocati, amministrati, controllati.

Le moderne Eumenidi si chiedono quindi: è stata rispettata la legge del diritto? è stata rispettata la legge del sacro?

È una domanda fondamentale in un’epoca in cui qualsiasi aspetto della vita viene amministrato dal diritto, e l’etica viene trasformata in un pericoloso dirittismo.

Le leggi ci hanno detto che bisognava impedire le visite ai malati, ai morenti, ai funerali, alle nascite. Le persone anziane sono state relegate in residenze divenute luoghi di attesa che qualcosa accadesse. Le carceri sono divenute ancor di più, luoghi di detenzione e di isolamento da cose e ospiti che venivano da fuori, fatta eccezione per il virus che era l’unico possibile ospite minaccioso ad accesso libero. Le nascite sono diventate momenti di solitudine delle madri, cui è stato imposto di partorire in assenza dei mariti e delle madri, di portare la mascherina il più possibile durante il parto, di non toccare nessuno degli infermieri presenti durante il travaglio (p. 10).

La postura della Giustizia ci invita a fare le domande. Le domande non hanno la pretesa di risolvere nulla, ma solo di aprire e ampliare l’orizzonte della realtà. Le domande avvicinano alla verità, non tanto perché esista una Verità unica e assoluta ma perché creano spazio per il pensiero.

Nelle verità fondate sui dogmi, sugli intenti persuasivi, sulle immagini dimostrative di una evidenza incontestabile, abbiamo dimenticato le domande, ovvero le porte relazionali per eccellenza, i nodi tematici, le capacità di argomentare, del lasciare in sospeso, dell’attendere, del fare relazioni davanti ad un accadimento non noto, del fare ricerca collaborando tra professionisti che propongono tesi opposte (p. 29).

Un’etica, questa, sempre più importante nell’epoca attuale, in cui le immagini prendono il posto della realtà. Baricco, commentando i fatti dell’11 settembre, segnalava una trasformazione nei modi in cui facciamo esperienza della realtà, che ci allontana dalla possibilità di stare all’interno di un rapporto complesso e articolato con essa: “il mondo non ha tempo di essere così. La realtà non va a capo, non concorda i verbi, non scrive belle frasi, noi lo facciamo quando raccontiamo il mondo, ma il mondo, di suo è sgrammaticato, sporco, la punteggiatura la mette che è uno schifo”.

Poco prima scriveva: “c’è un’ipertrofia irragionevole di esattezza simbolica, di purezza del gesto, di spettacolarità, di immaginazione (…) In tutto c’è troppa maestria drammaturgica, c’è troppo Hollywood, c’è troppa fiction”.

La prevalenza dell’immagine sulla percezione diretta della realtà comporta un depotenziamento della funzione epistemofilica, quella funzione che sostiene un modo del comprendere capace di stare all’interno di uno spazio comune di interrogazione.

In “Domande che curano” le Eumenidi, insieme ai propri lettori, provano a creare e mantenere vivo tale spazio.