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Attualità

Cronache psicologiche: di sicurezza, vittime e violenza

Nel suo primo articolo per “Lo Scrittoio”, Gabriele Mignosi porta avanti, e ancora più a fondo, l’analisi sviluppata nel libro “Lo spietato repertorio della contemporaneità. Verso una normopatia sociopatica”.
Qui esaudisce la richiesta dei soci di #DSP e prosegue la disamina delle “trappole del complesso neoliberista”.
È certamente un contributo di grande valore, così come l’impegno che dedicheremo al suo studio.
La ricompensa sarà la ricostruzione della trama complessa e tridimensionale, degli eventi sociali, politici, economici e culturali di cui siamo testimoni.
Da un punto di osservazione rigorosamente psicologico, Gabriele costruisce argomentazioni solide, pacate, aperte e generose. E discutibili, vivaddio!
Le pubblichiamo soprattutto con l’obiettivo di ravvivare un dialogo all’interno della nostra categoria – che coinvolga tutti e non escluda nessuno – sulle determinanti e sulle implicazioni psicologiche e sociali di taluni provvedimenti di politica generale, sanitaria e professionale.
Perché, a pensarci bene, nel considerare l’importanza di un confronto schietto, autentico e pacifico, non possiamo che essere tutti #dallastessaparte.


Le trappole del complesso neoliberista sono oggetto di disamine critiche, più o meno radicali, ormai da diversi anni. Spesso, queste analisi preconizzano la fine del capitalismo; ma tirare i piedi del condannato, sembra che gli allunghi la vita.

Nel 2020 ho provato anch’io a fornire un contributo sulla cultura capitalistica del nostro tempo, attingendo da numerose fonti che ne analizzano nel dettaglio le implicazioni più deteriori e decadenti.

Ciononostante, i fenomeni globali occorsi nell’ultimo triennio[1], impongono un supplemento d’analisi, per comprendere ciò che fino a un momento prima appariva impensabile: una mobilitazione mondiale finalizzata al reclutamento politico, sanitario e militare nella guerra per la sopravvivenza.

1. Nonostante gli sconvolgenti provvedimenti in materia securitaria di questi anni possano essere interpretati come il canto del cigno del sistema neoliberista, di canto del cigno non c’è traccia.

Il capitalismo contemporaneo è vivo; solo, il suo volto ha perso la patina del sempiterno giovane e piacione Dorian Gray, per mostrare quella spietata e violenta che celava.

La questione della legittimità e del senso dei suddetti provvedimenti deve poter essere osservata senza alcuno scrupolo, affinché gli stessi possano essere reintrodotti nell’ambito del paradigma in cui si iscrivono.

Nel suddetto lavoro (2020), ho tracciato un percorso di riflessione che sottolinea alcune peculiarità del cittadino occidentale e occidentalizzato, sempre più fiaccato, nella volontà e consapevolezza, dal consumismo; un cittadino aguzzino di se stesso, intento a un monitoraggio e abuso continuo di sé, al fine di mantenere nella “norma” i propri parametri biometrici sempre più particolareggiati; un cittadino che per la propria sopravvivenza e il proprio primato, è disposto a negare l’altro e a usarlo con cinismo, spogliandolo del suo valore giuridico-morale, in un regime di “nuda vita”; un cittadino immiserito dal proprio individualismo e incapace di ribellarsi (Agamben, 1995, 2006; Han, 2012, 2014); un cittadino, in buona sostanza, angosciato dalla morte e orfano di qualsiasi dispositivo culturale e spirituale che lo sostenga di fronte ad essa.

Ho definito questo campione di cittadinanza “tossiconarcisista”, per segnalarne la dipendenza strutturale da protesi materiali e immateriali di ogni tipo (cfr. Preciado, 2008) e l’irriducibile disposizione autoindulgente e autoreferenziale.

Ebbene, ritengo ciascuno degli aspetti appena elencati prodromico dell’atteggiamento e comportamento che la popolazione occidentale (e occidentalizzata) ha generalmente mantenuto negli ultimi tre anni, con particolare riferimento alla disponibilità individuale e collettiva alla deroga alle libertà nel nome della sopravvivenza, in modo politicamente passivo, ma compulsivo e cinico sul piano del controllo di sé e dell’altro.

Ciò detto, nonostante quel cittadino normopatico (Mignosi, ibidem) – definito prima della pandemia – mostrasse tutti i segni premonitori del soggetto perfettamente adattato alla stagione del Covid-19, sono rimasto sorpreso dalla spregiudicatezza con la quale si è manifestato: gli inseguimenti in elicottero del runner isolato, le procedure di decontaminazione delle suole delle scarpe, il distanziamento millimetrico di banchi e alunni nelle aule (come fossero birilli piantati sul pavimento), il bisogno di tornate vaccinatorie quadrimestrali per il proprio bene o per quello di altri già vaccinati, la panacea del green pass, il ricorso a delazioni, linciaggi, sospensioni, licenziamenti, radiazioni di professionisti e lavoratori “dissidenti”, e tante altre circostanze, costituiscono realtà surreali composte da particelle che prese in sé potrebbero pure apparire sensate.

È questa la cifra di una tecnocrazia/burocrazia che prova a sconfiggere la morte: una violenza ridicola. Se la sommatoria delle tecniche genera un mostro, il mostro non appare in figura, ma rimane sullo sfondo. Lo dicono i numeri.

Se ci concentriamo, per esempio, sul green pass, notiamo che esso s’impone inesorabile e sottintende un’equivalenza tra il suo “darsi” e il “darsi” del virus SARS-CoV-2. Tanto è inestricabile il connubio tra fattore antropologico e ambientale nell’esplosione del secondo, tanto è inestricabile quello tra dimensione artificiale e naturale del primo. Questo spiega in parte l’eccellente presa che ha avuto sulla popolazione, ben lungi dall’opporvisi o tollerarlo con riluttanza, che lo ha introdotto nel suo bagaglio di usi e dispositivi scontati della quotidianità.

La mole di fattori sanitari, biologici, psicologici, politici, culturali che aprirebbe il campo sterminato della complessità dei fenomeni intorno a questo virus, è qui ampiamente amputata. Questa complessità altro non è che l’espressione di una molteplicità di variabili determinanti che, su tutti i piani, giungono a definire quella che è la manifestazione virale, caso per caso. Un fenomeno globale, affrontato ammassando tutte queste peculiarità in un unico calderone di significato – distillato in un dispositivo booleano – nega qualsiasi possibilità di analisi idiografica.

Una comunità che ha perso la capacità sana di discriminare le fattispecie, introducendo artificialmente un criterio a discapito delle altre migliaia, ha abbracciato il fanatismo.

2. A proposito di fanatismo e propaganda corrispondente, vorrei qui richiamare la rappresentazione del conflitto russo-ucraino, sottolineandone alcune affinità di carattere psicologico con le politiche in merito alla pandemia[2].

Innanzitutto, stiamo parlando di sciagure che promettono la morte indiscriminata. Al di là del rischio concreto, il modo in cui sono state proposte – tramite bollettini, aggiornamenti, analisi di ogni tipo e livello, a mezzo stampa, tv, rete – ha sostenuto un’angoscia di morte collettiva: di quella che coglie in modo incontrollabile.

E sottolineo la questione dell’incontrollabilità.

Una narrazione secondo la quale si rischia di essere contagiati da chi si incrocia per strada – parificando il droplet a un proiettile calibro .357 – è simile alla minaccia nucleare.

Nel giro di due anni, i comuni cittadini delle comode e privilegiate regioni più sicure del pianeta, si sono visti espropriati del loro diritto alla sicurezza, non potendosi più ritenere nel ventre della vacca.

Una simile minaccia non è paragonabile a quella terroristica o cataclismatica. Una bomba in un supermercato o uno tsunami sono evenienze che non costituiscono un allarme totale e costante. Questa è una eccezionale novità, soprattutto se ad una ne segue immediatamente un’altra.

All’angoscia di morte globale e incontrollabile, va associato un altro fenomeno di rilievo psicologico: la disponibilità all’isteria paranoide.

Così come le succitate manifestazioni a protezione dal Covid-19 hanno talora raggiunto vette fobico-deliranti, in diverse occasioni non ci si è fatto scrupolo di escludere da eventi disparati e talora estremamente marginali, ospiti, autori, artisti, sportivi (in vita e non) russi; o, cosa ancora più ridicola, imponendo delle “compensazioni” ucraine.

È necessario non dimenticare (non rimuovere) un presupposto: le misure anticovid o antirusse, vengono pensate e introdotte dentro il circuito neoliberista; non sono esorbitanti e scontate conseguenze del trauma.

Il “darsi” del virus e dell’invasione russa, la loro “datità”, alla quale guardare con neutra oggettività, è la più consueta delle rappresentazioni che i sistemi di potere propagandano per mistificare la parzialità politica delle proprie determinazioni.

Proprio nell’ambito di un sistema neotecnocratico – ossessionato dalla necessità di proteggersi dalle continue minacce attraverso protesi tecnologiche (idem) – la proliferazione di strumenti dal sembiante scientifico costituisce la via maestra nel governo delle cose.

Eppure, ci siamo cascati.

A questo proposito richiamo alla mente formule e argomentazioni del 2020-2021 ripetute tanto nelle nostre case, tanto nel circuito mediatico, in merito alle soluzioni contro il Covid-19: “intanto evito di essere intubato”, “intanto evito di finire nei camion dell’esercito”, “intanto evito di morire da solo”, o anche “poveri ragazzi, quanto male ha fatto loro la pandemia”.

Detto in altri termini: “la situazione è talmente grave che non possiamo spaccare il capello in quattro: poi si vedrà”.

Questa argomentazione non è banale, perché disinnesca qualsiasi iniziativa critica, riflessiva.

La stragrande maggioranza degli individui accetta così di sospendere qualsiasi eccezione etica, di opportunità, di solidarietà, di razionalità, perché in sostanza si tratta di salvare la pelle di fronte a un problema “vero”, oggettivo, assoluto, rispetto al quale le contromisure politiche ricadono nell’ambito dell’altrettanto vero, oggettivo, assoluto; come mettere le mani avanti quando si inciampa.

Va aggiunto che abbiamo garbatamente accettato le numerose falle dell’immunizzazione vaccinale – prima propagandata come tale, poi trasformatasi in protezione dal contagio, poi dalla malattia grave, infine dalla morte – che hanno trasformato una panacea in una necessità quadrimestrale[3], anche per altri motivi.

Intanto, il cittadino acquiescente si è sottoposto con sussiego alla vaccinazione periodica (e lo rifarebbe), perché ha ben rinunciato a ogni opzione autonoma, in funzione di un’adesione dipendente dai dispositivi culturali, medico-sanitari e di qualsiasi tipo.

Attenzione, non è la vaccinazione in sé, ma la necessità di ricorrere sistematicamente ad essa o ad altri sistemi esogeni e prostetici per continuare a vivere la vita di prima, che impone una riflessione. Non farlo, vuol dire cedere all’assuefazione; ed ecco il ritorno dell’individuo tossiconarcisista, fautore della macchina governativa che profonde strumenti di protezione, rassicurazione, sedazione (idem); e per simili garanzie, molti di questi sostenitori, sono stati disposti a escludere dalla loro vita parenti, familiari, amici.

Ecco che il neoliberismo si manifesta in una fase radicale (Dardot e Laval, 2016). Il volto aperto e inclusivo del liberalismo attento alle minoranze e ai più deboli è stato ‘contagiato’ dal grugno del cinico guardiano disposto a usare le misure forti, senza indugi, con chiunque si opponga.

È questione di vita o di morte, gente!

È sempre questione di vita o di morte se al popolo va somministrata la cura da cavallo (…o di lacrime e sangue).

I modi da stato di polizia, del resto, possono convivere con le smancerie del mercato (cfr. Dardot e Laval, 2019), fintantoché un’opzione differente non sarà né desiderabile né immaginabile (Mignosi, ibidem); ciò si realizza tutte le volte che i vantaggi di un Impero (quello del Mercato) continuano a essere disponibili, anche se attorno, il mondo cade a pezzi. E a ben vedere, nel biennio pandemico, il volume degli acquisti nel circuito digitale globale è aumentato (Dal Co, 2021).

L’Impero gode ottima salute.

3. L’isterismo paranoide, l’angoscia di morte, il tossiconarcisismo, lo stato di polizia, l’economia di guerra, trovano un ottimo baricentro in un dispositivo estremamente efficace: il paradigma vittimario (De Luna, 2011; Accati, 2013; Giglioli, 2014).

Secondo Accati, esso si presenta quando la pietà per le vittime e per la debolezza dell’uomo sostituisce la giustizia (in Rebora, 2018); per Giglioli si sviluppa attraverso l’intreccio di atteggiamenti e congegni che costruiscono un edificio che appare inespugnabile: la cultura della memoria, dove è più importante ripetere, ma non comprendere; la soggettività limitata dal sentimento asfittico della pena, come se la vittima non avesse altro da dire che la sua sofferenza; l’immunizzazione da qualsiasi caratteristica che possa contaminare il candore di chi soffre; la trasmissione transgenerazionale del distintivo vittimario a legittimazione di leadership altrimenti opinabili; l’investimento d’autorità la cui parola è insindacabile; la concorrenza tra vittime per stabilirne il primato; l’esonero da revisioni etiche, produttive; l’impunità (ibidem).

Chiamare a testimonianza i morti già morti e quelli futuri, nella più nobile delle intenzioni, costringe ogni obiezione in un cono di praticabilità estremamente ristretto e sdrucciolevole; in tutti gli altri casi la disarma proditoriamente. Come si può parlare di ciò che non convince delle politiche sanitarie prima e, perché no, delle politiche economico-militari, se ci si fa scudo coi cadaveri e con chi soffre? Come si fa a dibattere di qualsiasi soluzione politica se è autoassolta dalla sua finalità umanitaria? Quando si tratta di salvare le vite dei bambini o quelle degli anziani, a menar dubbi si fa sempre la parte dello sciacallo.

A ben vedere le emergenze di questo triennio costituiscono un’occasione ghiotta per perpetuare un paradigma già presente da molti anni (Mignosi, ibidem). Volti e corpi di vittime sono pervasivi nella comunicazione mediatica, subita (mass media) o agita (social media).

Del resto, la cura che mettiamo nel rintracciare le offese alla nostra integrità/identità/sensibilità soggettiva, è espressione di questa escalation che guarda a ciascuno di noi quale vittima. E per ogni vittima, esiste un carnefice. Così come la prima, anche il secondo è potenzialmente ciascuno di noi.

Il Mercato è pieno di colpevoli: guilt marketing o guilt appeal vorrebbero educare a comportamenti, d’acquisto o meno, socialmente responsabili, proiettando però un orientamento vittimario/colpevolizzante.

La coppia carnefice-vittima non è più un’evenienza di cronaca o un’emergenza sociale, bensì una chiave di senso ordinaria, oggi adottabile a ogni piè sospinto.

Perché?

Senza inoltrarmi in una approfondita ricostruzione storica, è tuttavia opportuno rintracciare le scaturigini e il senso di questa transizione, soprattutto dal punto di vista psicologico.

La tradizione paternalistico/autoritaria presente in Italia fino agli anni ’70-’80 ha subito una sterzata nella direzione di un maternage sempre più istituzionalizzato, fin nel profondo delle nostre coscienze e del nostro modo di sentire. Le storie dei bambini di una volta, che guardavano gli adulti intenti alle loro attività, di bambini “sufficientemente trascurati”, lasciati liberi di osservare e costruire una propria rappresentazione del mondo e di sé nel mondo, oggi sono soppiantate da quelle di adulti (genitori, formatori, educatori, psicologi, religiosi, politici, ecc.) che guardano i bambini – veri e propri protagonisti della scena – con l’affanno di capirci qualcosa e sempre preoccupati di non arrecare loro alcun danno.

Ma in questo modo, cosa “vedono” queste creature senza arte ma con parte, che entrano in scena immediatamente da protagonisti? Vedono dei giganti onnipotenti completamente catturati da essi, ammaliati, preoccupati. Quale orizzonte si propone ai bambini che arrivano in questa scena e in questo modo? Un riflesso narcisisticamente incontrastato che suggerisce loro la presunzione di valore assoluto, in una sorta di stadio dello specchio lacaniano senza contraddittorio.

Nella cultura anglosassone, il fenomeno si sviluppa, ed è oggetto di studio, già a partire dagli anni ’60 del secolo scorso. Con l’affrancamento dalla morale tradizionale, in favore della cultura di sé e del Sé, quale ideale autoreferenziale da coltivare e affermare contro i vincoli repressivi della cultura precedente, si apre la stagione narcisistica.

La rinuncia a una prospettiva comunitaria e l’adozione di una individualistica, il tramonto dell’orizzonte sociale che lascia spazio a quello psicologico (si pensi all’homo psychologicus di Lasch quale definizione del profilo narcisistico dell’individuo contemporaneo), il primato del“sentire” sul “credere”, dell’istanza impulsiva su quella istituzionale, dell’autodeterminazione sull’eterodeterminazione, dell’emotivismo sul razionalismo (Turner, 1976; Lasch, 1979; MacIntyre, 1981; Ehrenberg, 2010), costituiscono le dimensioni di questa rivoluzione paradigmatica che ha sospinto la visione morale fuori da categorie metapersonali, per ricondurla a quel che sono/sento, quale monade autarchica.

Lo sguardo improvvisamente rivolto sul figlio, se da una parte ne amplifica l’investimento narcisistico, dall’altra lo rende più fragile, tragicamente esposto al fallimento e non più alla semplice colpa, come accadeva all’uomo pre-psicologico (cfr. Ehrenberg, ibidem); se la colpa è riparabile in diversi modi, il fallimento, nato sotto la fulgida stella dell’illusione immaginaria, è catastrofico.

La dimensione intrapsichica di questo puer divinus in terra rimane sottile, debole; la maggior parte del suo repertorio si sviluppa all’esterno, a discapito delle sue capacità di autotutela e autocontenimento. All’introversione non può che preferire l’estroversione espulsiva e l’eterocontenimento del disagio.

In questo modo la sua emozione non si traduce mai in sentimento, ma in un’istanza di irriflessiva autoaffermazione. La cultura neoliberista si realizza già nelle primissime forme di (anti)accudimento e (anti)socializzazione. Il “posto” dei nostri ragazzi è oggi il fuori, non il dentro, è la protesta-rigurgito.

E gli apparati culturali post-istituzionali provvedono immediatamente, attraverso la configurazione di criteri pubblici di rassicurazione. Ma giustificare il disagio comunicato nel rigurgito narcisistico, significa sostenere il presupposto vittimario.


4. Le culture attente a non arrecare offesa per via discriminatoria (woke), che ricorrono a vecchie e nuove etichette e locuzioni[4], ampliando e articolando la schiera dei reprobi, rischiano di assolvere automaticamente l’accusatore (pronto a estroflettere la sua emergenza emotiva) e di legittimarne il giudizio, sebbene superficiale e inappropriato. In altri termini, possono incoraggiare una forma storicamente ben rodata per diffamare, screditare, ostracizzare.

È del tutto evidente che ciò a cui il razzismo, l’omolesbotransfobia, l’abilismo, la misoginia, ecc. fanno riferimento, esista, ma la proliferazione ossessiva di ciascuna di tali categorie[5] sembra corrispondere alla necessità di disciplinare le espressioni, appunto categorizzandole, non di opporsi a indebite discriminazioni[6].

Un’ingiusta discriminazione è del tutto evidente a chi ha intelligenza, umanità ed empatia sufficienti; trovare un nome specifico per ogni possibile caso, serve ad alfabetizzare chi non ha questa sensibilità, con l’effetto di non riuscirci, e di impedire a chi non ne ha bisogno di esprimersi. È come se correggessimo “Ulisse” di Joyce con la matita rossa e blu della maestra elementare.

Il risultato è doppiamente paradossale: da una parte la richiesta di sanzioni e interventi rieducativi rispetto al reo, in un clima di crescente pressione securitaria proveniente dall’area progressista, storicamente estranea a simili rivendicazioni; dall’altra, l’adozione esplicita di marker (Giglioli, ibidem) infamanti in reazione a offese presunte.

A chi obietta che le misure a protezione di categorie vulnerabili non possano essere ritenute di matrice securitaria, ricorderei che qualsiasi provvedimento delGoverno (o di un qualsiasi sistema di potere costituito) a favore di un soggetto categorizzato in senso vittimario, è sempre pericolosamente prossimo al securitarismo[7] (cfr. Waerer, 1995). Detto in altri termini, appellarsi al potere per liberarci da minacce presunte o reali, rischia di alimentare la forza del Leviatano di hobbesiana memoria[8].

Dovremmo sempre tenere a mente che è preferibile proteggersi dal più forte e non grazie ad esso. Il rifugio nella Legge può costituire, in presenza di una paura collettiva più o meno fomentata, un pericolo sul quale vigilare prioritariamente, giacché il legalitarismo a difesa dell’individuo è un’istanza estranea al principio sociale, e che predispone a insediamenti paranoici.

Eppure, la macchina neoliberista continua a imprimere la sua forza modellatrice sotto il profilo economico, giuridico, politico, sociale e, in particolare, psicologico. Parafrasando il motto trumpiano di America first, proporrei l’altrettanto protezionistico Emotion first. L’individualismo ha sfondato a sinistra, per così dire, assimilando la meritoria cura per le minoranze, per il disagio sociale e psicologico, l’attenzione alle varie forme di sofferenza dell’uomo, sistematicamente alimentate dai sistemi culturali, con i loro pregiudizi, costumi, pratiche, consuetudini e limitazioni. Ma l’assimilazione neoliberista ha un costo enorme: la trasformazione dei problemi sociali in questioni, appunto, individuali. Non si tratta più di intraprendere uno scontro/confronto politico per affermare la forza di chi è minoranza, ma di assecondare la libertà individuale di autodeterminarsi sulla base di ciò che offre il Mercato. Nel primo caso, la minoranza combatte; nel secondo, la vittima-consumatore protesta.

5. La dinamica carnefice-vittima assume così delle sfumature che rendono il quadro meno netto. Nella rappresentazione di Girard (1961), si configura in termini di desiderio mimetico[9] del carnefice rispetto a un bene o una proprietà di cui la vittima dispone. Il primo vuole qualcosa che ha l’altro.

È possibile descrivere questo complesso persecutorio-vittimario attraverso un triangolo: chi desidera (carnefice) – cosa si desidera (Oggetto) – concorrente (Capro espiatorio – Vittima).

Se è vero che la vittima girardiana è innocente[10], polarizzatrice suo malgrado di tensioni e violenze in seno alla comunità di riferimento – capro espiatorio appunto – il cui sacrificio si presume capace di ristabilire l’ordine e la pace nella comunità stessa, essa ha sempre una certa contiguità con la colpa, pur rimanendo sufficientemente innocua; ciò permette il suo sacrificio senza correre pericoli di rappresaglia (Girard, 1972).

Ha spesso qualche caratteristica o competenza che la rende esotica, vagamente inquietante (portatrice di un segno fisico particolare, straniera, appartenente a una minoranza, licenziosa, ecc.), che in buona sostanza le permette di conquistare specifici privilegi, che consistono, nelle varie mitologie, nel favore di un Capo o nell’accesso esclusivo a beni materiali (Girard, 2016).

È evidente che nella dinamica del capro espiatorio è fondamentale rintracciare il terzo, il vertice del triangolo, l’oggetto del desiderio posseduto dall’altro (il capro espiatorio stesso), che scatena la violenza di massa (idem).

L’Oggetto del desiderio è il luogo di un Potere.

Il Potere ce l’ha chi può determinare le scelte altrui. Può essere una donna contesa, un capo di Stato, un miliardario. Nella cultura contemporanea, tuttavia, tale polo sembra irraggiungibile, un telos asintotico; e più è asintotico più scatena la ferocia competitiva con tutto il suo corredo di violenza.

Il principio neoliberista è psicologicamente e compulsivamente immaginario, promette un riconoscimento assoluto di valore, in cui l’altro è concorrente da avversare senza requie (cfr. Mignosi, idem).

L’Oggetto del desiderio qui si configura nel potere di uno sguardo; uno sguardo idealizzante che permette al concorrente vincente di rispecchiarsi, finalmente eletto. Tale sguardo può arrivare dal riconoscimento dei social come da un Amministratore Delegato; da chiunque o qualsiasi cosa possa mostrare una preferenza, un encomio, una promessa.

Ma il privilegio che ne scaturisce non può che rivelarsi in tutta la sua ambiguità: il concorrente vincente finisce per non possedere nulla, ma essere posseduto dal potere.

Essere amato/apprezzato/riconosciuto/guardato esclusivamente o prevalentemente, espone a una passività regressiva[11].

Se dovessimo mettere in parole la rabbia del perdente frustrato, potrebbero essere le seguenti: “io faccio di tutto, mi sacrifico, rinuncio a tutto pur di avere ciò che mi spetta, mentre quell’altro, senza merito, senza fatica, sprezzante, riceve tutto per sé e indegnamente”.

Il costrutto del desiderio mimetico trova nell’attualità adeguata applicazione, con i dovuti accorgimenti.  Carnefice e capro espiatorio sono concorrenti – perdente l’uno, vincente l’altro – di una partita spietata governata dall’arbitrio di una cultura pervasiva del merito, della competizione, dell’autodeterminazione assoluta.

La rabbia del carnefice (la massa inferocita nella prospettiva di Girard) nei confronti del capro, scaturisce dalla percezione di una sua singolarità che si accompagna a un’insopportabile astuzia che permetterebbe al secondo di ricevere ciò che il primo avrebbe voluto per sé.

Vale la pena sottolineare che la dinamica attiene alla realtà, ma che tale realtà è la manifestazione di dispositivi artificiali della cultura in oggetto.

De Carolis (2017) ci ricorda come la catallassi[12] neoliberista non esprima alcuna intenzione genuinamente concorrenziale – la concorrenza vale per la plebaglia più o meno fortunata, il soggetto della biopolitica (Foucault, 2004) – ma serva ad accrescere la dynamis nei luoghi del Potere di cui sopra, in modo da ridurre le possibilità di scelta di capro e carnefice, a quelle che favoriscono chi quel potere già lo detiene.

6. Chi sono i capri espiatori del nostro tempo? Per rispettare i criteri acutamente indicati da Girard, come detto, devono promettere innocuità in termini di rappresaglia e avere una qualche contiguità con la colpa. Inoltre, in quanto vittime, devono essere minoranza, mai espressione di una maggioranza-massa, sia pure dolente e in crisi. La persecuzione contro il capro è invocata dalla comunità per la comunità.

Potremmo dire che il capro espiatorio del neoliberismo è, intanto, colui che ce l’ha fatta senza merito, ma con furbizia, quindi invidiato e odiato: direi la più comune delle circostanze nell’agone competitivo antisociale contemporaneo. Basta aprire un social, accendere la tv, gironzolare nel web, e rintracciare miriadi di siffatti prodigi: influencer prosperose, youtuber con una trovata vincente, politici con l’entratura giusta, giornaliste chiacchierate, colleghi o compagni di scuola ruffiani, favoriti o apparentemente tali.

Tuttavia, questo capro prosaico dei nostri tempi, per configurarsi effettivamente come tale, deve essere ‘assolutamente’ e non ‘abbastanza’ innocuo; deve, cioè, poter essere infangato e demolito psicologicamente o fisicamente, senza incorrere in eventuali ripercussioni.

Fra l’altro, la dinamica proposta non si esaurisce certamente in questa mediocre casistica dell’ordinario. In essa si può rintracciare l’impulso emozionale di fondo, che trova però espressione socialmente rilevante in fenomeni di portata e intensità più serie.

Senza girarci troppo attorno, eccone due esempi: “no vax” e “migranti”. Tralascio per il momento le contestabili etichette che ho intenzionalmente adottato per indicare due categorie difficili da profilare e che comunemente vengono utilizzate non già per chiarire, ma per mistificare.

Si pone, in questa prospettiva, la necessità di sviluppare un ragionamento sull’emergenza di una violenza che sposa tanto la massa tanto l’individuo, che non può che essere strutturale, necessitata da questa dinamica vittima-carnefice.

Mi riferisco a polarizzazioni di un’aggressività sociopatica che solo per questioni di punteggiatura interna all’ordine neoliberista, può essere percepita come attiva o reattiva. Censure, discrediti, abusi, coercizioni, emarginazioni, e ogni tipo di infamia e spietatezza costituiscono ormai un modus operandi scontato in quella che si percepisce come la parte più sensibile, democratica e civile del pianeta; e di ciò siamo attori tutti, in qualsiasi luogo del continuum politico-sociale ci collochiamo.

A questo proposito, le etichette riportate in nota 4, se usate come strumento in malafede, distruttivo, per far fuori qualcuno con la scusa di essere un apostata della civiltà, perdono la funzione argomentativa. Invece di giudicare, colpiscono per eliminare ed esiliare culturalmente.

Del resto, se bisogna difendersi dalla violenza di parole come negro, frocio, storpio, puttana[13] e tutti i loro derivati, la violenza pare inevitabile. Ma proprio a questo punto si insedia il principio neoliberista: invece di rimuovere sistematicamente il fondamento aggressivo e sprezzante dell’altro (giacché mio diretto concorrente), che scoraggi sinceramente l’uso di certe parole così offensive, organizzando una vita collettiva all’insegna della condivisione, della cooperazione, dell’autonomia, della solidarietà, del disinteresse, della libertà, ne ha strutturata un’altra, avida, vile, opportunistica, narcisistica, ipocrita.

In un simile sistema, al violento non si può reagire con coraggio, ma con scaltrezza, astuzia, provocazioni, disprezzo.

Il reciproco della violenza esplicita è una violenza implicita, che però non ha alcun potere di invertire le sorti del conflitto, perché non fiacca l’avversario, lo provoca, lo avvelena, aumentandone la virulenza; qui il paradigma vittimario è lancia e scudo di una strategia a mio avviso destinata a non resistere per molto alla rabbia della massa.

“Fazioni” reazionarie e progressiste riempiono l’arco politico-sociale (e parlamentare) “dentro la scena” per esse realizzata dalla mente-macchina neoliberista. Ma non lo sanno, forse.

7. Procedendo con ordine e rimanendo prossimi al modello girardiano, le fazioni di questa scena possono essere assimilate a un figlio prediletto e ad uno negletto[14], che “vestono l’abito” della vittima e del carnefice, del capro espiatorio e della massa inferocita. Entrambi, tuttavia, si pongono al cospetto di un padre irraggiungibile e indiscutibile, collocato nel luogo del potere neoliberista.

A partire da questa composizione è possibile descrivere tutta la violenza di cui sopra, che si gioca tra il polo progressista e quello reazionario. Il secondo è quello che esprime il vissuto del figlio negletto, del secondogenito maltrattato, disprezzato, che invidia il primo ed è geloso della sua intimità col Padre; il polo progressista da voce, appunto, al primogenito, insolentito e infastidito dall’altro.

Il figlio negletto ha destinazione fascistoide, quello prediletto, liberal; l’orizzonte del primo è oscurato dall’altro, che davanti a sé ha invece solo una sterminata terra di conquista pronta a rispecchiarne il primato.

I negletti del fronte fascistoide sentono di dover dare continuamente battaglia, pungolati da un sentimento di inferiorità permanente ed esposti al sospetto di essere stati sminuiti. È per costoro impossibile esistere se c’è pure l’altro, perché l’altro oscura la loro visibilità agli occhi del Padre. La figura d’autorità (Dio, Patria, Famiglia) ha qui a che fare proprio con il desiderio di esserne gli unici latori, ubriacati da un narcisismo passionale, osteggiato, alla conquista di ciò che meritano. I negletti sostano nella tensione all’accaparramento dello sguardo del Padre – da intendere in chiave di oggetto-sé – in uno slancio transferale idealizzante e, come conseguenza, speculare (Kohut, 1971).

Per il liberal prediletto la battaglia è una volgare offesa al proprio primato, avvinto com’è in un sentimento di superiorità permanente, proteso ad annullare qualsiasi fonte di turbamento riguardo all’egemonia economico-culturale che sente legittima. Il diritto all’autodeterminazione assoluta, ontologica, è per costui indiscutibile, ancorché impraticabile. È inevitabile che si senta sistematicamente intralciato, offeso, leso, appunto vittima. Come detto in precedenza rispetto ai figli del nostro tempo, chi ritiene di essere eletto è il destinatario di uno slancio idealizzante che si riflette poi all’esterno in un rispecchiamento narcisistico strutturale, a-conflittuale, a-passionale (cfr. idem). L’ala cosiddetta liberal, progressista, persa ogni ambizione di lotta sociale, esprime soltanto e pertanto una violenza antipopolare (cfr. Crosato, 2022; Canfora, 2022).

Difatti, i negletti accusano i prediletti di arrogarsi un’autorità morale, viceversa i secondi accusano i primi di analfabetismo funzionale. Tutto ciò da spazio a un circo del rancore e dell’annichilimento, in cui il fascistoide non tollera che ci sia qualcuno prima di lui e l’antipopolare che ci sia qualcuno a parte lui.

Fronte fascistoide e fronte antipopolare sono entrambi nel solco della deriva liberista, senza uno straccio di prospettiva comunitaria; rimangono miopi, ignorano le ragioni che hanno determinato lo scenario in cui manovrano e sono manovrati, continuando a odiarsi dalla stessa parte del tavolo (cfr. Mignosi, ibidem). L’uno spudoratamente offensivo, abituato all’impresentabilità, l’altro indignato, conformista, aristocraticamente borghese.

8. In relazione a queste ultime riflessioni, alle etichette woke (vedi nota 4) e a quelle imperdonabili (vedi nota 12), aggiungerei quelle proprie del neoliberismo, che possono essere adottate bi-partisan (sebbene abbiano comprensibilmente maggiore feeling con il fronte antipopolare): analfabeta funzionale, no vax, sovranista, complottista, negazionista, populista, putiniano, rossobruno, ne rappresentano un congruo campione, finendo per sterminare tre quarti della popolazione.

Ciò che di fatto accade nello scenario pubblico è che qualsiasi istanza critica finisca per essere screditata attraverso il ricorso a simili categorie. I difensori della democrazia, della legalità, dell’inclusività, sempre attenti a non calpestare le aiuole, a esportare “armi non letali” (sic), promuovere missioni di pace con gli eserciti[15], affiliati alla governance neoliberista, di fatto proteggono lo status quo, disinnescando ogni possibilità di obiettare.

Come detto, simili etichette tornano utili solo se ci si ferma alla superficie, quali termini di un qualunquismo sconfinato, per marchiare ed escludere, tutto però con le dovute maniere.

Tante persone sono state in qualche modo condizionate ed estromesse dalla vita sociale, sulla base di simili marchi d’infamia, negando ad esse qualsiasi scrupolo di significato, il rispetto per l’unicità della persona e della propria scelta.

Il potere dell’etichetta sta tutto nella sua evidenza, rispetto alla quale bisogna stare attenti a non inciampare. In questo si concretizza l’ipocrisia insopportabile di questa cultura: per essere ammessi non bisogna essere per bene, ma mostrare di esserlo.

E in questo senso, ogni persona dotata di tridimensionalità non può che essere esclusa o limitata.

L’ipocrisia, va riconosciuto, è indissolubilmente legata alle forme di governo ed è storicamente un dispositivo del potere (cfr. Mazzone, 2020), ma questo non giustifica l’inerzia che ci conduce a tollerarla e a promuoverla. Se continuiamo a discutere di un calcio giocato su un campo inclinato e con un pallone da rugby, ignorando questo presupposto, ne risulta un discorso assolutamente sterile,  come quello della politica contemporanea (Mignosi, ibidem).

Il livello di dissociazione tra dichiarazione ufficiale e politica reale è oggi talmente accentuato da risultare imbarazzante. Come accennato, è possibile compiere un azione di aggressione fisica esplicita, mentre la si dichiara di pace; è possibile obbligare qualcuno ad assumere un farmaco, attraverso le mentite spoglie di un consenso volontario e informato, senza cioè che lo Stato se ne attribuisca l’onere; è possibile costringere degli essere umani a rischiare la vita in mare e nel deserto, mentre ci si appronta per soccorrerli. Tanto gli attori di queste contraddizioni, tanto gli spettatori (i cittadini tutti e le vittime designate) appaiono completamente negligenti rispetto a tale evidenza, al punto da ritenere che sia in azione, da molti anni ormai, un potentissimo meccanismo di negazione.

9. Si dirà: “va bene, ma i no vax sono dei pericolosi ignoranti, spesso hanno pure un sacco di soldi, come ti permetti di paragonarli ai migranti che subiscono evidenti ingiustizie?”

Per rispondere a questa obiezione è opportuno tornare alla chiave interpretativa che ho proposto in queste pagine.

Prima ancora, tuttavia, ribadisco che metterla sul piano di una graduatoria delle sofferenze (e delle ingiustizie che le hanno generate) è uno dei capisaldi della delegittimazione per via vittimaria, che Chaumont (2010) definisce “concorrenza delle vittime” (in Giglioli, ibidem). È del tutto evidente che poche persone scambierebbero il proprio licenziamento con una traversata nel deserto e per mare di migliaia di chilometri, in condizioni disumane; non per questo motivo possiamo escludere che alcune cose accadano e siano accadute, e che possano essere connesse nell’ambito di una cornice storica, politica e culturale; mi sembra una riflessione ammissibile, che non giustifica alcuna indignazione.

Fatta questa premessa, in una complessa dinamica triangolare, in cui il sistema di potere dispiega un arsenale comunicativo, persuasivo, discorsivo, pervasivo, incontrastato, che accredita un soggetto del ruolo di eroe/vittima e addebita a un altro quello di antieroe/colpevole, la partita è fatta; va solo premuto il pulsante play: invidie e gelosie per l’uno, richieste di punizioni esemplari per l’altro.

Sebbene la violenza di massa assuma, nello scenario qui proposto, sembianze fascistoidi, è bene precisare che la violenza alberga, quale principio sopravvivenziale, in tutto lo spettro politico-culturale e che i fenomeni sociali possono favorire un’inversione che polarizza in senso esplicitamente persecutorio l’altra fazione, che può così dismettere le vesti della vittima, per assumere, con argomenti e modi differenti, come accennato, quelle del carnefice.

Del resto, l’ala fascistoide e quella antipopolare, escludono entrambe l’altro, rimangono intrinsecamente antisociali. Cambiano i linguaggi, i modi, i riferimenti, ma lo schema generale no.

Difatti, nonostante il disprezzo per il no vax sia trasversale, è possibile riconoscerlo soprattutto nella fazione antipopolare.

La polarizzazione della massa contro il capro, ha così un orientamento che procede secondo dettami tipici di questa fazione culturale: con ipocrisia e moralismo. Il no vax è quindi pericoloso perché ignorante e riottoso alle Verità scientifiche.

Ma quale sarebbe il privilegio di questo sciagurato nella sua veste di capro espiatorio? Dire di no al vaccino. Dire di no alla massa. Nient’altro. È questo ciò che lo rende straniero, strano, misterioso.

Benché la fazione antipopolare abbia una passione incontenibile per lo ‘straniero buono’, credo che sia opportuno farsene una ragione: i capri espiatori possono essere antipatici.

“Ma contagia gli altri scientemente! è un assassino!”

E qui scivoliamo pienamente nella Storia della colonna infame di manzoniana memoria, in cui due presunti untori nel corso della pestilenza milanese del ‘600, vengono accusati, “giustiziati” e infamati con una colonna eretta in spregio alla loro memoria, che nel corso del secolo successivo fu poi abbattuta.

“Ma cosa c’entra?! Oggi conosciamo scientificamente i modi e le cause del contagio. Allora no”. Al netto dei dubbi sulla validità e sicurezza dei vaccini, come detto, legittimamente oggetto d’indagine, le fantasiose e contraddittorie compulsioni protettive esposte al punto 1 (ce ne sarebbero molte altre), ci rassicurano ben poco sulla ragionevolezza medico-scientifica con cui la popolazione e le istituzioni hanno pensato la difesa dal contagio. L’efferatezza con la quale sono stati attaccati non solo i renitenti al vaccino, ma anche gli obiettori più moderati, intellettualmente e scientificamente non sprovveduti, non trova alcun fondamento razionale, bensì pregiudiziale e umorale.

Ma c’è un aspetto più inquietante che va messo in evidenza nel rispondere all’obiezione basata sul fondamento scientifico. La stragrande maggioranza della popolazione che ha accettato il vaccino (in prima, seconda e terza dose), che in buona sostanza dovrebbe averla protetta dai sintomi più severi, prese le adeguate precauzioni fisiche, quando già l’ondata più virulenta era trascorsa, e il ‎SARS-CoV-2 era mutato in senso benigno come previsto, cosa avrebbe dovuto temere? La sorveglianza e la ricerca attiva dei renitenti, a cosa è servita scientificamente? A mio avviso, a nulla; solo a perseguitare l’alieno.

Uno che va in giro, che si concede sprezzantemente adunate (sediziose?) e non si contagia, non muore, è un alieno. E se non lo è, rischia, con la sua sopravvivenza, di mettere in discussione la narrazione catastrofica.

Lo zelo persecutorio contro gli ignoranti, rozzi, negligenti, contro il volgo bue e superstizioso, che si affida agli scientismi dei ciarlatani, esprime una parzialità che è propria dei miti fondativi studiati da Girard.

Quante di queste accuse contro i cosiddetti no vax (anche se vaccinati), potrebbero essere affibbiate a taluni “pro vax” (altra categoria insulsa che tuttavia inserisco per comodità espositiva): livorosi, pronti a recidere qualsiasi legame amicale o familiare, sostenitori dell’estromissione dell’alieno dall’ombrello del Sistema Sanitario Nazionale, dal circuito produttivo e sociale, capaci di considerare la controparte come dei sorci da lasciare morire in cattività, da mandare in galera, che meritano di morire.

Ciascuna di queste sconcezze è circolata in tv e in rete, propalata non dalla parte meno presentabile dei giusti, ma da laureati, cittadini comuni, dalla famosa casalinga di Voghera. La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni e, aggiungerei, di benintenzionati.

Quanti ignoranti e in malafede popolano le file dei giusti, in questo caso come in tanti altri.

Al capro espiatorio semplicemente non si concedono caratteristiche del resto comuni a tutti gli altri, perché le ragioni della sua persecuzione sono estranee a quelle millantate e risiedono in un pregiudizio passionale, alimentato, in questo caso, dal tam tam mediatico.

Sarebbe bastato, con ragionevolezza, che le istituzioni di governo scoraggiassero la fede nella scienza quale dispositivo narrativo e avocassero la responsabilità di scegliere per il bene della popolazione, riconoscendo la difficoltà di comprendere un fenomeno di questa portata, sostenendo qualsiasi misura farmacologica anche parzialmente efficace, comunicando la scelta vaccinale con quel contegno, grave, prudente, che ci si aspetterebbe da un’autorità che decide, rischiando, per tutta la comunità. No, il messaggio è stato sostanzialmente: “ecco il vaccino che ci salverà dal virus, che ci garantirà di circolare tra immuni, senza contagiarci”, per bocca dell’allora Primo Ministro.

Ecco come una pur grave questione di politica sanitaria del terzo millennio, amministrata in tal modo, assume i connotati di un pogrom, di una violenza ancestrale di migliaia di anni fa.

10. Difendere l’antipatico no vax, rischia di precipitarmi nel novero degli impresentabili, ma difendere il capro espiatorio, quando è un immigrato irregolare, non è un gioco da ragazzi come sembra, se si guarda all’intera faccenda attraverso la prospettiva qui proposta, quella in cui la vittima è tale poiché figura in una costruzione dinamica più o meno complessa, e non soltanto perché vittima fisica di una sciagura.

Detto questo, è abbastanza evidente che la polarizzazione di massa contro il capro-immigrato origini da una narrazione fascistoide, quindi scomoda da proporre se non in ambienti protetti e per voce di figure sufficientemente potenti. Al contempo, se la rabbia anti-immigrato non trova adeguato riscontro e dimensioni espressive alternative, rischia molto facilmente di esplodere in una violenza fisica drammaticamente evidente.

Il desiderio mimetico, in questo caso, se guardato in superficie, assume una configurazione assai banale. L’immigrato “arriva e ci ruba il lavoro”, “si becca pure 35 euro al giorno”, “sporca”, “bivacca” e soprattutto “è una minaccia fisica”. In buona sostanza l’immigrato sarebbe manodopera criminale e a basso costo che degrada etnicamente il nostro paese. La massa fascistoidizzata lo disprezza e/o lo guarda con timore e sospetto; del resto è straniero. Direi, in questo senso, che è il capro espiatorio per eccellenza. Ma non possiamo limitarci a questa analisi.

Se il linguaggio e l’improntitudine sono reazionari, la mente-macchina nell’ambito in cui questa componente si sviluppa è neoliberista. Anche qui la vittima è maltrattata, e sicuramente vive in condizioni economiche, sociali, affettive, spesso difficili anche solo da immaginare per un nativo della comunità ospitante; rischia, infine, di morire in mare o in campi di concentramento dall’altra parte del Mediterraneo. Se è possibile chiamare in causa la radicale marginalità della “nuda vita” (Agamben, 2021) – perennemente in bilico tra la dimensione biologica e quella sociale – per il contagiato, soprattutto “asintomatico”, immaginiamo quanto sia calzante per chi si trova esposto a simili pericoli.

Pochi mesi fa l’attuale Ministro degli Interni, ha evocato un dispositivo merceologico nell’amministrazione degli sbarchi avvenuti presso le nostre coste: quello del “carico residuale”. Non voglio qui ribadire lo sconcerto per questa disumanizzante locuzione – si riferiva a quegli esseri umani non rispondenti ai criteri di ammissibilità all’accoglienza – ma mettere in evidenza, come già altri hanno fatto, la naturale conseguenza di questo provvedimento: rimettere in mare i sani li espone al rischio di ammalarsi e avere comunque diritto alle cure, in un secondo momento; solo che a quel punto sarà un problema di qualcun altro.

Questa vicenda ci permette di accedere a un discorso più articolato sul capro-immigrante, che possa svincolarsi dalla contrapposizione tra “poveri cristi” e “minaccia etnico-sociale”.

Ciò che il Ministro ha di fatto affermato è che, per essere accettabili, questi qui, devono stare male. L’orientamento così smaccato dell’Istituzione orientata in senso fascistoide, rende visibile un principio molto più generale che, solo per maggiore propensione all’infingimento, sembra non riguardare la fazione antipopolare.

Ma in effetti, a destra come a sinistra, gli extracomunitari piacciono solo se tapini. Probabilmente, la paranoia (a destra) e la mitomania (a sinistra) hanno trovato una convergenza in questo principio, che finisce così per essere discretamente resistente. Una parte esplicitamente, l’altra capziosamente, finiscono per concedere ospitalità e (finta) cura solo a chi appaia dolente, malconcio, innocuo, attirando le proteste e la rabbia invidiosa, gelosa, rivendicativa dei ‘comuni mortali’ di casa nostra. Ed ecco riaffermarsi la dinamica vittimaria, che è tale perché alimentata; come detto, la sofferenza oggettiva e soggettiva di chi vive esperienze così dolorose non è in discussione; in discussione è la costruzione di uno scenario legislativo, amministrativo, giuridico, politico-sociale, mediatico, che porta in ostensione la “vittima” – non differentemente da come accade nel guilt appeal – con il carico di “ragioni” e “rassicurazioni” che sembra garantire bi-partisan.

Eppure l’equilibrio tra fazioni è sempre precario, per le voci che rappresentano. L’immigrato malconcio è (mal)tollerato da una parte, amato dall’altra. Basta poco perché l’una lo riconosca come quel concorrente vincente ed esotico della narrazione girardiana, che tanto piace all’intellighenzia, che i governi sembrano accogliere a braccia aperte, concedendogli ciò che la massa autoctona non riceve. Tale massa inferocita che addita il capro espiatorio, nel suo immaginario paranoico, non coglie una ovvietà – che autoctoni e stranieri sono entrambi poveri, sempre più poveri, messi gli uni contro gli altri – ma ne coglie un’altra: “questo qui sta male adesso, ma quando starà bene, sarà un problema per tutti noi”. Quel fascista ignorante del salumiere dell’estrema periferia di una qualsiasi città italiana, sa che chi sta male oggi, starà bene domani. È un odioso baluardo contro il paradigma vittimario. E se appare fascista è solo perché il protocollo neoliberista non prevede socialisti o sentimento di comunità non paternalistico.

A questo, al paternalismo, provvede la fazione antipopolare con operazioni politiche e comunicative certamente più sofisticate di quelle della controparte.

Partirei da una domanda da uomo della strada: possiamo far prendere un comodo aereo a queste persone, siano essi emigranti economici o rifugiati? Costa meno e arrivano sani e salvi (e sottolineo sani).

È notorio che il passaporto di un paese povero del mondo, equivalga a un bloccaporto. Arrivare in aereo in Europa da paesi come Etiopia, Nigeria, Somalia è un grosso problema, e l’ottenimento di un visto è subordinato a criteri economico-lavorativi improponibili per molti cittadini africani che, così, finiscono per fare i ‘viaggi della speranza’. Ma chi li stabilisce questi criteri di esclusione per i cittadini del cosiddetto Terzo Mondo? Le compagnie aeree non hanno alcun interesse ad applicarli: per esse, un passeggero che spende 1000 euro per un volo potrebbe anche arrivare dall’inferno. Sono costrette ad applicare norme stringentissime, imposte, nel nostro caso, dall’U.E.

Eccoci in uno dei cuori pulsanti della mente-macchina neoliberista – qui nella sua veste ordoliberale – che costituisce un Fronte Unico delle disuguaglianze, foriero di competizioni spietate anche a costo della vita; tuttavia, il congegno diabolico che è riuscito a edificare, permette alla regione ospitante di generare i presupposti di ingiustizia e disumanità ai quali provvede proponendosi quale buon samaritano (o riluttante, se di destra) che soccorre il bisognoso, la vittima.

Tutto questo per non parlare degli ostacoli fisici, a parte le strettoie economico-burocratiche; faccio riferimento agli accordi italiani ed europei con paesi ‘guardiani’ (Libia, Turchia), affinché blocchino i flussi attraverso il ricorso a mezzi che si traducono immediatamente in strutture di prigionia.

L’immaginario e la retorica del cadavere del bambino sulla spiaggia, della madre con il neonato stremati a Lampedusa, dei corpi affondati, rinchiusi da qualche parte in Libia, della calda mano del soccorritore che accarezza l’immigrato, costituiscono a mio parere la massima forma di Ipocrisia occidentale a impronta vittimaria. Personalmente la trovo insopportabile.

“Ma cosa possiamo fare? Anche con tutte le buone intenzioni, mica possiamo fare arrivare tutti quelli che vogliono in aereo. Verrebbero a milioni!” Non è un problema mio, mi verrebbe da dire, ma non lo dico. Certamente se la vita umana è sacra, da quando la nostra civiltà lo ha stabilito, dovrebbe essere prioritario evitare che le persone soffrano e muoiano; il fondamento dovrebbe essere la rimozione dei presupposti di questo genocidio rateizzato, non il soccorso. Tuttavia, faccio fatica a immaginare che i cittadini africani e asiatici possano decidere di non partire, se non cambiano radicalmente i presupposti culturali ed economici di questo impianto capitalistico globale.

Né è possibile accettare, a mio avviso, la narrazione “migratoria” secondo la quale la gente si è sempre spostata nel corso della storia e non c’è niente di male. Fino alle scuole medie è possibile sostenerlo. È un altro modo di accettare lo status quo ed è del tutto evidente che solo ai piani alti dell’ultraliberalismo si possa immaginare una prospettiva del genere, lasciando a chi sta in basso il compito di fare quel che si può.

È molto romantica l’immagine del “migrante” che si sposta come un uccello, liberamente, per andare e tornare, secondo competenze inattingibili. Ci sarebbe la storia. Ci sarebbe la cultura. Con tutto quello che comportano.

Emigrato e Immigrato “fanno brutto”. Meglio migrante; così non abbiamo l’onere di guardare la loro lacerazione e la loro assimilazione. Anche in questo caso è solo per proteggere la nostra borghesissima e infantile coscienza, che abbiamo smesso di usare certe parole.

A volte immagino la completa rimozione dei vincoli di cui sopra; migliaia e migliaia di persone che si riversano nei nostri aeroporti, nelle nostre metropolitane, nelle nostre città, non malconce, ma ben nutrite, pulite e vestite in modo strano, magari sguaiate, eccitate. Certamente ne rimarrei colpito e forse avrei bisogno di tempo per accettarlo; senza chiamare in causa razzismi di varia sorta, semplicemente perché i cambiamenti improvvisi colpiscono la nostra persona sempre, e avere reazioni emotive, sentimenti e pensieri più o meno conflittuali, non è roba che si possa comprimere in una categoria biasimevole.

Ma non accadrà. Non ci sarà nessuna ‘invasione’. Le ragioni fascistoidi e antipopolari, come il bastone e la carota, sapientemente governano le cose così come devono andare. Continueremo quindi ad assistere a icone di sofferenza e bontà. “Questi si beccano 35 euro al giorno”. “No no per carità, vi assicuriamo che stanno male!”.

Ironia a parte, se è difficile immaginare che i capri espiatori possano essere antipatici, considerando i no vax come tali, è altrettanto difficile immaginare che lo siano gli immigrati irregolari. La vicenda del presunto illecito di cui è accusata la compagna di Aboubakar Soumahoro, attivista, sindacalista e deputato che difende la causa dei braccianti extracomunitari maltrattati nei nostri campi, è esemplare. La disapprovazione che lo ha investito è caratterizzata da una “aggravante” emotiva di natura borghese. Così come a un no vax non è concesso di essere ignorante, a un immigrato non è concesso di commettere irregolarità amministrative o fiscali. Perché anche in questo caso egli è un pària, sostanzialmente un essere marginale, bersaglio di un pregiudizio ontologico.

11. In entrambi i casi, no vax e immigrati, vestono l’abito del capro espiatorio perché rappresentano una maledizione, capace di fare fuori fisicamente o culturalmente, come detto, i comodi cittadini di una delle regioni privilegiate del pianeta.

Ma la minaccia fisica, culturale, politica, sociale, economica all’integrità/stabilità del nostro mondo, può arrivare da tantissime fonti, e per ciascuna esiste un’etichetta – di destra, di sinistra, o di unità nazionale – che attiva un cortocircuito vittima-colpevole-vittima (gay, putiniani, comunisti, complottisti, terrapiattisti, ecc.). È compito della vittima designata sottrarsi a questo gioco, rinunciando a essere patetica e patita, alla lamentazione; mostrando di avere altro da dire e da essere, accettando di non piacere a tutti e, perché no, mostrando di avere una forza.

Proprio l’uso della forza costituisce oggi grande motivo d’interesse perché, se da un lato è stato ed è ancora negato, scoraggiato, per affermare il più maneggiabile paradigma vittimario, dall’altro – proprio in relazione ai fenomeni globali degli ultimissimi anni e alle loro conseguenze politico-securitarie – è sempre meno trascurabile, e affiora come una pulsione non adeguatamente arginata da strutture difensive.

L’azione governativa dell’UE (ma non solo) che muove da dichiarazioni di inclusione, apertura, moderazione, ascolto delle fragilità, fa il paio con l’adozione della vittima quale simulacro strumentale e incline a farsi strumentalizzare.

Ciononostante, il neoliberismo è ordito dalle fondamenta in chiave appropriativa ed egoistica, teleologicamente plutocratico e sprezzante di qualsiasi tentazione socialista; è quindi estremamente aggressivo. Ha sposato – in un matrimonio di convenienza – la cultura liberal dei diritti civili, che sta tuttavia contaminando con la sua vocazione alla violenza.

Il fenomeno fondativo del desiderio mimetico, architrave della ricomposizione pacificatrice e sanguinaria a un tempo, in seno alle comunità, non è più efficace come nelle antropologie tradizionali, né serve che lo sia. La massa persecutoria è sempre più frammentata, mentre la vittima pare meno innocente.

Ciò accade perché i fili del burattinaio si vedono; i cittadini disincantati saranno pure passivi, ma sanno bene di esserlo (come un tossicodipendente può essere consapevole della sua condizione, nonostante la sua impotenza).

La violenza della massa è la violenza del vertice del triangolo mimetico, organizzata in funzione del suo progetto.

Il disprezzo di fondo che comunica la cultura neoliberista tanto ai concorrenti vincenti, tanto ai perdenti, è camuffato proprio dall’aura virginale che attribuisce a taluni capri espiatori. Tuttavia, in una sorta di epifania antigirardiana, se i capri non sono più innocenti, perdono i privilegi del caso e lo sdegno nei loro confronti può liberarsi senza ritegno. È successo ai no vax; e succede a qualsiasi minoranza che non si presti al vittimismo.

Accade infatti a tutti quegli immigrati che non stanno al gioco; del resto, per farli stare al gioco, basta mantenerli in una posizione di sottomissione reiterata, di stenti, costringerli perennemente ad arrancare.

Come ho già sostenuto (ibidem), i padroni del vapore disinnescano qualsiasi posizione “attiva” della popolazione, attraverso ogni dispositivo possibile, soprattutto per mezzo di narrazioni e disciplinamenti tesi al suo rabbonimento.

“No alla violenza senza se e senza ma”; quante volte l’abbiamo sentito dire. Così come altre retoriche tese ad ammansire, con l’evidente finalità di mantenere lo status quo, di non far uscire le mucche dal recinto.

Anche le crisi del neoliberismo, a tal proposito, con il loro carico di teste che saltano, svendite, licenziamenti, cure da cavallo, indebitamenti cronici, prelievi forzosi, non rappresentano inciampi indesiderati cui provvedere, ma strutturali e funzionali forme di escalation, che ripropongono la necessità di stringere ulteriormente la vite della sua ideologia sui concorrenti pezzenti (cfr. Dardot e Laval, 2016).

L’atomismo competitivo, che promette e minaccia crediti immaginari infiniti, è un simulatore di violenza che ha sostituito la realtà, ma che realmente sacrifica le persone. Il circuito del consumo e della consunzione è attivo e logicamente svincolato da calmieri di sorta, ancorché si sviluppi nell’ambito di misure cosiddette di interesse pubblico.

12. Esiste una lunga tradizione filosofica e antropologica, prossima o corrispondente al poststrutturalismo, che approfondisce un’illusione: l’esistenza di qualcosa di originario, autosufficiente. Qualsiasi natura o principio delle cose, reca sempre un “supplemento” (Derrida, 1967; Girard, 2016; Butler, 1997), un eccedente che è tale solo in virtù di una esclusione dalle strutture ‘positive’. Qualsiasi discorso ha origine da una censura, ancor prima di incorrere in quella agita repressivamente dai sistemi di potere (Butler, ibidem).

Il circuito di affermazioni costituzionali e antagoniste, norma e opposizione alla norma, è inscindibile. Ogni discorso è organizzato sul suo supplementare, un altro che intende negare, rifiutare, ma da cui sviluppa il motivo e la traccia della propria affermazione.

Nelle intenzioni dei giusti, abita il principio dei colpevoli. Dietro la ragione abita l’eccesso. Ogni argomentazione antirazzista ne sottintende una razzista. Per esistere devo negare ciò che non sono (o credo di non essere).

Ma ogni operazione linguistica è, in questo senso, esito di una forclusione primordiale, per dirla con Lacan (in Butler, ibidem), non certo un Ordine autoconclusivo, che non prevede alternative.

Il ricorso alla propaganda sulla e della vittima, al contrario, sembrerebbe suggerirlo.

È nell’impianto neoliberista che le rappresentazioni monopolistiche e unipolari trovano oggi la loro massima espressione; ma soltanto se alla vittima si riconosce la sua dynamis e il suo discorso è possibile superarne la visione archetipica, metastorica, e permettere così che anche i suoi aguzzini abbiano qualcos’altro da dire.


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Note

[1] La pandemia da Covid-19 e la guerra russo-ucraina, tra tutti; ma faccio più in generale riferimento a tutti i fenomeni globali o estesi che attivano masse di cittadini.

[2] La contiguità temporale tra i due fenomeni non è certamente da sottovalutare. Le coincidenze esistono, come la Spagnola che funestò le trincee del ’14-’18. Ma così come le condizioni di precarietà (igienica, alimentare, ecc.) e assembramento alimentarono verosimilmente quella pandemia, non possiamo liquidare l’avvicendamento covid-guerra come banale accidente. Ritengo tuttavia opportuno lasciare a chi è più competente l’analisi di eventuali correlazioni fattuali.

[3] Necessità che anche l’EMA, per voce del responsabile alla strategia sui vaccini, ritiene dannosa rispetto alla risposta immunitaria.

[4] Fascista, razzista, maschilista, misogino, omofobico, transfobico, lesbofobico, queerfobico, abilista, TERF, ageista, ecc.

[5] Penso all’impiego di zelanti funzionari a cui affidare il compito di censurare dichiarazioni che possano essere anche vagamente connotate come discriminatorie.

[6] Una richiesta del tossiconarcisista è quella di cassare ogni eccezione al discorso vittimario/discriminatorio, ogni discriminazione/differenziazione, anche legittima e congruente. Esistere, in questa cultura, equivale a pretendere.

[7] Il legalitarismo securitario in Italia è indissolubilmente connesso alle stagioni delle violenze terroristiche di stampo mafioso e politico-deviazionistico. È ragionevole, a mio parere, correlare a tali accadimenti la disponibilità dei cittadini a escludere, censurare, abusare di forza e potere.

[8] Il Leviatano di oggi può non essere lo Stato (si pensi all’UE, alla Troika, ai Mercati, ecc.).

[9] Il desiderio di ciò che l’altro possiede è mimetico nel senso che intende essere come l’altro, con il vantaggio di status di cui lo stesso, quale modello, sarebbe portatore.

[10] Innocenza che diverrebbe esplicita nel martirio e nella religione cristiani (Girard, 1999).

[11] Come accade ai figli (anti)socializzati in senso narcisistico del nostro tempo, e di cui si è detto al punto 3.

[12] Con il termine “catallassi” von Hayek si riferiva all’ordine sociale e comunitario raggiunto e perseguito attraverso il libero scambio di mercato, senza alcuna interferenza dello Stato.

[13] Ho intenzionalmente evitato qualsiasi allusione mediata da asterischi. Guardare certi lemmi nella loro integrità, mi sembra coerente con l’analisi che sto qui conducendo. Innanzitutto qualsiasi pratica di studio e approfondimento transcontestuale dovrebbe essere svincolata da remore moralistiche o emotivistiche. Ma pur immaginando di lavorare come un medico di mille anni fa, ponendo il corpo del paziente dietro un velo pietoso, egli dovrà pur toccarlo. Fuor di metafora, la forma fr***o, non potrà mai evocare la parola ‘fresco’, proprio per la presenza degli asterischi; né può essere equivocata: deve necessariamente e univocamente evocare quella parola “che non si può dire”; è in buona sostanza un modo di strizzare l’occhio, fare riferimento a “tu sai chi” di potteriana memoria. Piuttosto, è fondamentale affermare che è il contesto nel quale si presenta l’etichetta che può dirci qualcosa sulle motivazioni che la attivano. L’uso degli asterischi non può rappresentare in nessun modo un’attestazione di buone intenzioni. Anzi, proprio la reticenza permette di evocare l’indicibile senza assunzione di responsabilità, rimanendo al riparo. È in qualche modo un amplificatore di oscenità. A meno di non immaginare l’azione di qualche sortilegio che ne sconsigli vivamente l’impiego, come nel caso di “Lord Voldemort”, l’uso di asterischi allusivi, alimenta la proliferazione intrapsichica e potenzialmente inconscia del contenuto rimosso. Immaginiamo una lezione di educazione sessuale per le scuole medie e immaginiamo che l’insegnante si arrampichi trafelato su perifrasi improbabili: alimenterebbe soltanto la curiosità pruriginosa piuttosto che conoscitiva; se, invece, di fronte a una lezione esplicita, i ragazzi iniziassero a sghignazzare, non avrebbe certamente nessuna colpa. Si dirà che gli organi riproduttivi non sono una contumelia. Sì, ma sia gli uni che l’altra, sono inestricabilmente espressione di dispositivi culturali e a questi io faccio riferimento; questi cerco di studiare. I genitali, non sono neutri pezzi di carne. Del resto, non conosco pezzi di carne che siano “neutri”. Qualsiasi cosa venga prodotta e riprodotta nel circuito antropologico non è più “puro” e naturale.

[14] Sarebbe meglio dire una massa di figli negletti e uno solo prediletto. Del resto, vale la pena ribadirlo, non si sta descrivendo un fatto, ma una rappresentazione che alberga negli attori di una scena.

[15] In Centocinquanta stelle, De Gregori canta: “E tirano certe bombe/Che sembrano dei giocattoli/Che ammazzano le persone/E risparmiano gli scoiattoli”. Non potrei esprimere meglio il concetto.

AzioniPolitiche professionali

Interlocuzione all’Ordine: testo completo

La sofferenza umana non può diventare un residuo muto della politica
Guerrasi, 2019

Con il presente documento intendiamo proporre una serie di riflessioni su alcuni aspetti della professione psicologica che sarebbero già dovuti essere oggetto di un confronto approfondito. Infatti, sarebbe stato auspicabile riflettere prima sulle conseguenze psicosociali delle normative che riguardano gli psicologi in quanto sanitari.

L’assorbimento dell’area psicologica all’interno delle professioni sanitarie (L. 3/18) non dovrebbe farci dimenticare che il mentale necessita di una visione propria e specifica, non subordinata a una pratica unicamente sanitaria che risente molto dell’epistemologia medica.

Il documento, nello specifico, pone al centro la riflessione su come le comunità occidentali contemporanee accolgano l’umano e la sofferenza umana. La domanda è fondamentale, in quanto dalla risposta discendono pratiche di lavoro anche molto diverse tra di loro, e differenti modalità di interpretazione del nostro specifico mandato sociale.

Gli psicologi oggi sono al servizio di un adattamento umano all’ambiente culturale (anche se nessuno può mai essere definitivamente e perfettamente adattato) o al contrario incentivano specifici percorsi di soggettivizzazione, individuali e gruppali? In quanto psicologi professionisti, siamo consapevoli di essere figli di questo tempo, anche noi assoggettati a vincoli di potere (di cui dovremmo essere il più possibile consapevoli) che ci abitano e che agiamo? Quali sono le attuali strutture organizzative in grado di generare automaticamente mentalità e forme di comportamento all’interno di una società?

La definizione di “sanitario” sembra essere stata l’unica motivazione che ci ha visti coinvolti all’interno di un obbligo vaccinale discutibile per diversi motivi, da quelli legali a quelli legati alle conseguenze di breve e lungo termine connesse alla somministrazione del farmaco.

Il D.L. n. 172 del novembre 2021[1] stabilisce che siano gli Ordini professionali a verificare la posizione vaccinale del collega e, in caso di inadempimento senza “giusta causa”, a stabilirne la sospensione.

Segnaliamo che una prima questione si pone già in relazione al termine “vaccino”,  termine che useremo in questo documento riferendoci ai farmaci cosiddetti anti-COVID approvati con procedura “fast track” condizionata (secondo criteri ancora oggi molto controversi: la letalità del Sars Cov 2 e l’assenza di cure per la malattia COVID). Lo useremo per convenzione, sapendo che l’uso potrebbe essere improprio, e implica molti interrogativi che non hanno ancora avuto una risposta esaustiva[2].

La vaccinazione diviene requisito all’esercizio della professione, e persino i nuovi iscritti devono presentare, tra i documenti necessari, il certificato che attesti il completamento del ciclo vaccinale primario ed anche di tutte le dosi di richiamo previste per legge[3]; in tal modo lo svolgimento della professione risulta de facto subordinato a un trattamento sanitario obbligatorio.

La posizione degli Ordini regionali e del CNOP fin dall’inizio non ha previsto alcun dibattito interno e non ha dato “ascolto” a quella parte di colleghi che sulla legittimità (sanitaria, legale, politica) dell’obbligo vaccinale nutre e continua a nutrire dubbi.

Le questioni, lo comprendiamo, non sono di poco conto e ci chiedono di tornare ad interrogare i paradigmi che guidano le nostre pratiche professionali.

È purtroppo un dato di fatto che né gli Ordini professionali né il CNOP abbiano coinvolto gli iscritti, e che non abbiano adempiuto alle funzioni di tutela nei confronti di coloro che hanno scelto di non vaccinarsi o di non proseguire con l’inoculazione delle ulteriori dosi di richiamo.

Riteniamo, quindi, non più procrastinabile rappresentare ufficialmente a codesto Ordine il malessere professionale, sociale e culturale connesso all’applicazione delle Leggi, nel modo in cui sta avvenendo. Segnaliamo il grave rischio di rottura del rapporto di fiducia con tutte le istituzioni, sempre più percepite e trasformate in istituti di mero controllo sociale[4] (si veda a tal proposito il paragrafo: “Frattura del patto sociale”).

Le istituzioni, e gli Ordini tra queste, rischiano di qualificarsi come funzionari di “processi senza soggetto”, che si muovono dentro una logica eteronoma e che non si risolvono mai dentro forme di soggettivizzazione reali. Tali processi, lo ricordiamo, attraversano gli individui restituendo loro una sensazione di impotenza, annichilimento e schiacciamento, in quanto li espropriano della volontà e del potere, inteso come possibilità di “avere presa” sul mondo (descriveremo meglio alcuni aspetti all’interno del paragrafo “Tutela dei pazienti”).

Diversi Autori hanno evidenziato come la sensazione di essere sottomessi a una volontà anonima, impersonale e trasparente abbia come conseguenza non certamente innocua il dissolvimento della volontà individuale e del legame sociale.

Ciò che rimane fuori è proprio il senso “plurale” della convivenza.

In più occasioni sia Elias (1990), sul piano sociologico, che Kaës (2013) in una prospettiva psicoanalitica, hanno evidenziato il profondo livello di malessere che crea una società (in questo caso una comunità professionale) caratterizzata da “processi senza soggetto”, processi che gravano particolarmente sull’attività di simbolizzazione e sul “pensiero che lavora per donare un senso alla complessità”.

Riteniamo che le conoscenze scientifiche debbano essere prese sempre in considerazione, ma crediamo anche che esse non possano ridursi ad aspetti procedurali tecnico-amministrativi, perché ciò non rende conto della specificità umana che, lo ripetiamo, è “plurima”[5].

Se la riflessione sulla pluralità umana poteva forse essere sospesa all’inizio della emergenza sanitaria da COVID-19, oggi alla luce non solo della fine dello stato di emergenza ma anche di evidenze scientifiche più solide, non possiamo continuare a procrastinare un confronto sul tema.

Diviene prioritario, in un momento storico come questo, segnalare la progressiva “distruzione” di spazi che possano garantire quelle differenze di cui “gli esseri umani sono interpreti e testimoni diretti. Fuori dalla logica di controllo, che vuole invece regolare o distruggere il diverso e la differenza” (Fina, Mariotti, 2019, p. 119).

Riteniamo utile che gli psicologi, che dovrebbero riconoscere il valore della diversità come qualcosa di fondativo della condizione umana, possano tornare a confrontarsi sui temi del documento al fine di valorizzare, come ci aspettiamo, la caratteristica “plurale” delle comunità umane.

La possibilità di accedere ad una polis e sentirsi impegnati nel processo di “trasformazione” del mondo è un’ottima alternativa alla rassegnazione di “essere adatti e adattati”, con tanto di certificato di “adattamento abilitante e abilitato”.

L’obiettivo più specifico del presente documento è quello di condividere delle letture di carattere psicologico e psicosociale sulle conseguenze di quanto sta avvenendo in Italia rispetto alla gestione sanitaria, ma ancor più sui danni a breve, medio e lungo termine che ha prodotto l’obbligo vaccinale, sia sulla salute individuale che collettiva.

Il documento, suddiviso in punti, rappresenta il frutto di un confronto costante con colleghi di tutta Italia, che hanno deciso di raccontare il malessere sorto all’interno della professione, per pensarlo e rileggerlo alla luce di una riflessione di più ampio respiro.

In aggiunta ai colleghi psicologi, riteniamo che uno degli interlocutori privilegiati sia l’Ordine professionale, in quanto Organo pubblico di tutela della professione, che assume l’importante funzione di innalzarne il valore sociale.

Il CNOP è composto dai Presidenti degli Ordini Regionali, e dunque avrebbe potuto agire sia a livello locale sia nazionale. Nel primo caso non ha avviato alcuna azione di tutela, ad esempio creando tavoli di lavoro su tali spinose questioni; nel secondo caso non ha avviato con i Legislatori un processo di consulenza per salvaguardare i diritti dei propri colleghi, nonché dei fruitori delle prestazioni professionali.

L’Ordine in via elettiva cura l’osservanza delle leggi dello Stato; ma se queste rischiano di essere discriminatorie nei confronti dei propri iscritti, o contraddittorie rispetto ad altre normative, ha la possibilità, se non il dovere di rappresentarlo.

A tal proposito non possiamo fare a meno di citare l’ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa del 17 marzo 2022, emessa a pochi giorni dall’invio, da parte dell’Ordine, dei provvedimenti di sospensione nei confronti dei colleghi. L’ordinanza per altro è l’ultima di una lunga serie di provvedimenti ad opera dei TAR[6] e della Giustizia Ordinaria, che segnalano i pericoli di incostituzionalità, e l’ingiustificata sproporzione tra la misura disciplinare adottata e la motivazione della stessa[7].

Nello specifico, i giudici del CGA sono molto chiari nel dichiarare rilevante e non manifestamente infondata la questione della legittimità costituzionale, articolo 4, comma 1 e 2 D.L. 44/21.

Le motivazioni dell’ordinanza sono talmente chiare da fugare ogni dubbio, sia nei termini della legittimità dell’obbligo sia nei termini della misura disciplinare adottata[8]. L’ordinanza tiene molto in considerazione la letteratura scientifica (ad esempio quella sugli eventi avversi) e non sottovaluta le gravi lacune procedurali avvenute nel corso della campagna vaccinale (inadeguatezza della farmacovigilanza, mancato coinvolgimento dei medici di famiglia nel triage prevaccinale, la mancanza, nella fase di triage, di approfonditi accertamenti e perfino dei test di positività)[9].

Per i giudici, lo stato attuale dello sviluppo dei vaccini anti-COVID, così come le evidenze scientifiche in merito, non soddisfano la condizione posta dalla Corte Costituzionale di legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale. Un vaccino, si legge nell’ordinanza, può essere reso obbligatorio solo se si prevede che esso non incida negativamente e in maniera irreversibile sullo stato di salute di chi è obbligato. L’evento avverso “morte”, anche nella misura di un solo caso dimostrabile, esclude la Costituzionalità di un obbligo: le ricadute etiche sono enormi perché si sottintende non solo che vi possa essere una quota di cittadini sacrificabili, ma anche che possa essere fissata una percentuale di cittadini sacrificabili.

Infine, rispetto alla questione su quanto spazio discrezionale poteva avere un Ordine professionale, ricordiamo ad esempio che in occasione del Decreto Legge del 1 aprile 2021, n. 44, convertito con modifiche nella Legge 28 maggio 2021, n. 76,  il Consiglio Nazionale degli Assistenti Sociali aveva richiesto al Ministero della Salute un parere interpretativo dell’obbligo vaccinale, dal quale si è potuto chiarire che gli Assistenti Sociali, pur essendo compresi nell’area delle professioni sanitarie, per il loro specifico lavoro, non erano da ritenersi soggetti all’obbligo vaccinale.

Per questi motivi abbiamo preparato per l’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia una proposta di discussione sui seguenti punti:

  1. Ambiguità come marker culturale della moderna società occidentale
  2. Requisito professionale e abuso della professione
  3. Scienza e responsabilità
  4. Frattura del patto sociale
  5. Dinamica del capro espiatorio
  6. Tutela dei colleghi
  7. Tutela dei diritti dei pazienti

Qui puoi scaricare il documento completo in formato pdf.

Ambiguità come marker culturale della moderna società occidentale

Il D.L. 44/21 è una delle tante leggi eccezionali emesse durante gli ultimi due anni. Un atto governativo che, insieme ai successivi, sancisce un’ambiguità[10] che non può passare inosservata: la compresenza di un obbligo e di un consenso informato.

La COVID-19, così come l’epidemia da SARS-CoV-2, non ha creato nulla di nuovo; ha solo fatto emergere processi, significati e dimensioni culturali che sono sempre stati presenti, seppure sullo sfondo. Anche le nostre riflessioni non hanno niente di nuovo, in quanto riteniamo che la vicenda pandemica e la vicenda vaccinale siano solo dei marker che hanno palesato le premesse culturali di cui, nel nostro lavoro di psicologi, è bene essere consapevoli.

Un elemento che ha colpito tutti è stato la presenza di leggi, condotte e linguaggi[11] che manifestavano un’evidente ambiguità di fondo.

Si è parlato di libera scelta mentre venivano introdotte misure che obbligavano in maniera surrettizia. Si è parlato di libertà mentre si accettava qualsiasi misura di controllo sociale. Si è parlato di comportamenti inclusivi mentre si decretava l’uscita dei cosiddetti no vax dalla socialità comune[12].

Il green pass è uno strumento di libertà e sicurezza; il vaccino è sperimentale, ma è sicuro, fidatevi della scienza: i test di efficacia e di sicurezza sono svolti dalle aziende farmaceutiche produttrici; immunizzati sono coloro che sono inoculati con un farmaco che non sterilizza. Queste sono alcune frasi esemplificative in cui sono compresenti, senza creare alcun problema, referenti simbolici anche molto diversi, che richiamano alla memoria espressioni ambigue come “la nostra non è una guerra ma una missione di pace”.

Frasi del genere evidenziano un atteggiamento in cui si mette in atto (o si afferma) una posizione e contemporaneamente la posizione diametralmente opposta. A volte la persona, o il gruppo, è perfettamente consapevole della duplicità delle posizioni, ma il senso di contraddizione interna, e la sofferenza che ne deriva, non vengono rilevati né denunciati.

Da Argentieri (2008) questi atteggiamenti vengono definiti “ambigui”: gli atteggiamenti, i comportamenti, così come i linguaggi ambigui hanno la funzione di evitare e disattivare il valore e la portata intersoggettiva delle differenze; sfuggono all’angoscia della contraddizione, alla fatica dell’ambivalenza e allo sforzo di doversi porre dei problemi e decidere, infine, da che parte stare.

Eludere stati d’animo penosi è il fine dell’ambiguità. È questo il motivo per cui l’ambiguità, restando nel mondo dell’indifferenziato, nega pericolosamente il registro mentale della differenza. L’assenza e lo smantellamento di istituti e dispositivi atti a mediare e garantire il senso della differenza, lascia gli esseri umani sempre più in balia di quella che Girard (1982) definisce “violenza mimetica”.

Inoltre, la violazione dei fondamenti logici della comunicazione, come il principio aristotelico di non contraddizione, consegna il discorso a una ambiguità ulteriore, fonte di un disorientamento che invalida ogni possibilità di coerenza e consequenzialità logica. Il discorso è invalidato nelle sue possibilità di razionale acquisizione di significato: dove A è uguale e contemporaneamente diverso da A stesso, là è il luogo dell’irrazionale (del sogno o della follia), in cui tutto può essere affermato e contraddetto senza limitazione, in cui la conoscenza razionale è compromessa. Gli effetti di tale operazione sulla comunicazione di massa sono la confusione, uno sforzo interpretativo senza fine, l’adesione passiva, o ancora la difesa irrazionale (o contro l’irrazionale, potremmo dire a questo punto).

Secondo Amati Sas (2020) sono ambigui tutti gli atteggiamenti che rendono vago il valore delle cose. Così si diventa accomodanti, senza però riuscire mai a prendere posizione[13]; si rimane indefinitamente sospesi, fluttuanti (proprio al fine di evitare di fare una scelta).

Secondo l’Autrice, il fine principale dell’ambiguità, anche in termini evolutivi, rimanda ad una funzione di adattamento importante dell’essere umano: l’ambiguità è quella malleabilità, flessibilità, fluidità che permette di adattarci a qualsiasi condizione, consentendoci di negare al contempo la violenza specifica della contemporaneità. L’ambiguità in questo senso sembra essere proprio un marker culturale della società moderna occidentale: se non possiamo sognare il mondo che vorremmo abitare, non ci resta che adattarci ad esso, e rendere meno angosciante la violenza, la corruzione e la sensazione di essere perennemente sull’orlo di un precipizio.

È il “sì… (certo è ingiusto) però… (la scienza dice che)” che fa fuori la partecipazione sociale. Per partecipare ad una comunità, socialmente e attivamente in termini “politici”, è necessario prendere posizione. Proprio per questo motivo Argentieri (2019) definisce gli atteggiamenti ambigui “piccoli crimini della coscienza”, e segnala che questa modalità di relazione con gli altri e con se stessi è sempre più diffusa: dal campo dei rapporti amorosi, al campo della politica fino alla bioetica.

Non è un caso che l’ambiguità sia un atteggiamento così diffuso, perché permette di tenere insieme due caratteristiche della contemporaneità inconciliabili e “impensabili insieme”. Ideali sociali[14] alti e assoluti (quali “il bene comune”) sono assolutamente inconciliabili con la violazione dei diritti umani e costituzionali, ad esempio.

L’ambiguità è quindi un modo per non soccombere ad un Ideale dell’Io troppo elevato, impossibile da sostenere: così è facile poter dichiarare un alto valore morale, senza che il comportamento “immorale” messo in atto possa creare alcun senso di smarrimento. In un mondo in cui i sistemi di sfruttamento, di corruzione e di violenza convivono costantemente con l’interesse proclamato al più alto “bene comune”, è facile che l’ambiguità permetta di trovare un compromesso tra una natura umana “non risolta mai definitivamente” e gli idealietici, che invece ci vorrebbero sempre risolti e dalla parte del giusto, garantendoci così, al contempo, un senso di superiorità morale.

L’ambiguità come modo per sfuggire alla necessità di pensare l’impensabile è anche un modo per iniziare a “sostenere lo sguardo sulla realtà” (Arendt, 1951) ed uscire dalla posizione in cui si conosce e al contempo si ignora. Una posizione dalla quale chiediamo che l’Ordine degli Psicologi si tiri fuori.

In tanti hanno inviato diffide, lettere o hanno cercato contatti personali con i referenti istituzionali, segnalando all’Ordine la situazione spiacevole e drammatica verso la quale si stava andando: le lesioni alla dignità personale, i potenziali pericoli per pazienti e utenti, la sensazione di essere lasciati davanti ad una violenza programmatica, le possibili violazioni costituzionali[15]. Ma l’Ordine ha scelto di ignorare e di non prendere in considerazione l’altro lato della medaglia del “bene-comune”, del “fidatevi-della-scienza”, del “vaccino-salva-la-vita”.

Per certi versi l’ambiguità sta al polo opposto della responsabilità. Per Arendt (1951) prendere posizione è uno sforzo necessario per iniziare a reggere il peso che il pensare la realtà comporta, significa “portare il fardello che il nostro secolo ci ha messo sulle spalle” (Boella, 2020).

Prendere posizione rispetto alle gravi lesioni e alla discriminazione di cui sono oggetto i colleghi iscritti all’Ordine, è per noi un modo per tirarci fuori dall’ambiguità.

Noi non ci abituiamo alla violenza della nostra contemporaneità. Fuori da una posizione vittimistica, ci dichiariamo portatori di uno “sguardo altro” sulla realtà (Bell Hooks, 2018).

Non possiamo che essere d’accordo con Mariotti quando individua nella relazione la matrice fondante dell’etica: solo quando l’altro non è più solo qualcosa di esterno a me, ma una persona libera in mezzo a persone libere, solo quando vi è riconoscimento intersoggettivo della human condition, si può transitare dalla morale divieto (da cui discendono tutte le leggi che “vietano” e “sanzionano pensieri”) “alla morale della risorsa”, “dalla prescrizione esterna ed astratta” “alla situazione impegnata” (Fina, Mariotti,  2019, p. 37).

Requisito professionale e abuso della professione

Non possiamo fare a meno di notare quanto sia difficile aprire un confronto tra professionisti rispetto alla questione vaccinale.

Ogni volta che si prova ad esprimere perplessità o punti di vista “non allineati” (come adesso si usa definirli) sembra calare imbarazzo; sembra di entrare in un ambito “sacro” di cui non si può parlare, e il solo pronunciare la parola tabù diventa “eresia”.

Espressioni quali “lo dice la scienza”, “fidatevi della scienza”, “bisogna credere nella scienza” implicano un atto di fede che è proprio delle religioni: la scienza ha preso il posto della religione come istanza sociale e parlare “spudoratamente” del “sacro” crea imbarazzo. Sembra essersi sviluppato un rapporto con la scienza identico a quello che il fedele del medioevo aveva con la Chiesa. La scienza si dota di un suo Clero e di un tribunale dell’Inquisizione. Le persone vi aderiscono in massa, dando per certo che ciò che essa promulga sia il Vero. Nessuno deve osare contraddirla. Chi non aderisce è un eretico e va escluso dalla collettività, a prescindere dagli argomenti che propone.

È ingenuo pensare che il sacro, nel nostro caso, sia rappresentato dal codice deontologico sempre più interpretato in chiave medico-scientifica? L’imbarazzo può rimandare ad una “grave” violazione deontologica?

Fino al mese di novembre 2021, per iscriversi all’Ordine degli Psicologi Italiani[16] era necessaria una laurea, un periodo di tirocinio e un esame di stato abilitante. La ratio di questi tre requisiti per l’esercizio della professione è talmente evidente da non necessitare spiegazione.

Mentre però si discute di creare lauree abilitanti per rendere più agevole l’ingresso nel mondo del lavoro da parte dei giovani colleghi, come requisito all’esercizio della professione viene imposto per legge, e da non esperti del settore, il possesso della certificazione attestante l’ottemperamento dell’obbligo vaccinale, a prescindere dal settore o dal luogo di lavoro.

In questo modo, la mancata vaccinazione, così come la mancata inoculazione della dose aggiuntiva, equipara il professionista in possesso di tutti i requisiti previsti dalla legge a qualsiasi altro abusivo della professione.

Sarebbe opportuno chiedersi come sia potuto accadere che il nostro mondo professionale abbia accettato con così estrema facilità e senza richiesta di consulto, l’introduzione di criteri arbitrari per stabilire i requisiti di accesso alla professione, con tanto di azione retroattiva (non riguarda solo i nuovi iscritti ma anche chi pratica da anni).

La comunità professionale e purtroppo anche gli Ordini hanno accettato l’introduzione di un criterio arbitrario che rende improvvisamente illegittima e irregolare una posizione legittima.

Il testo “Position Statement sul comportamento antiscientifico e/o contrario all’obbligo vaccinale” dei professionisti sanitari e sociosanitari rispetto alla pandemia da SARS-CoV-2” è stato stilato e sottoscritto da tutti gli ordini delle professioni sanitarie e socio-sanitarie, incluso quello a cui chiediamo audizione.

L’obiettivo dichiarato è mettere al servizio della salute pubblica tutti i professionisti iscritti.

A latere di questo discorso, ricordiamo solo che imporre un paradigma ha sempre dei costi sociali e culturali, e ci chiediamo se sia mai stata attivata all’interno del nostro Ordine una discussione in tal senso.

Inoltre, la salute a cui il testo allude è intesa come assunzione di un vaccino che per altro non esclude, lo ricordiamo di nuovo, né il contagio, né la malattia, né il decesso.

Si è voluta “imporre” la vaccinazione per evitare i focolai, che avrebbero provocato l’interruzione della continuità dei Servizi Pubblici, e tuttavia ciò è comunque accaduto. Non si comprende però perché venga coinvolto anche un libero professionista che lavora all’interno del proprio studio privato, e che tratterebbe la COVID-19 con la stessa diligenza e responsabilità di qualsiasi altra malattia o evento imprevisto.

Non è chiaro poi se gli Ordini, nel richiedere un intervento di “sensibilizzazione” quando non di “persuasione”, stiano invitando implicitamente i professionisti ad esercitare pressioni sui convincimenti di quelle persone che per epistemologia, sensibilità, idee diverse sulla salute pubblica non vogliono acconsentire alla vaccinazione.

Ciò sarebbe in chiaro contrasto con il divieto, stabilito dal Codice, di usare la propria influenza professionale per orientare le scelte del paziente: “nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori” (art. 4).

Si può derogare a questo principio in forza della presunta verità scientifica? Sottolineiamo “presunta” poiché la scienza procede per errori, per rettifiche, per contraddizioni, per confronti, e non per verità univocamente statuite.

Ogni professionista ha l’obbligo di informarsi e formarsi (artt. 5 e 7) e di valutare i dati in possesso dalla comunità scientifica, così come di valutarne l’aderenza alle regole del metodo scientifico, alla precisione del linguaggio e ai metodi di rilevamento e validazione dei dati.

Il collega che non ignora i dati scientifici “incongruenti” ma che si informa sulle ricadute psicologiche di certe pratiche e che valuta l’impatto sulla salute globale delle persone sta semplicemente rispettando il codice deontologico; allo stesso modo del collega che decide di informarsi sulle conseguenze dirette e indirette di certe biotecnologie (in questo caso l’inoculazione di un farmaco nuovo e sperimentale) o che decida di integrare la propria formazione con letture di carattere etico, filosofico, sociologico e antropologico. Un collega deontologicamente orientato dovrebbe, secondo noi, lavorare a garanzia dell’indipendenza delle conoscenze scientifiche.

Inoltre, in che modo viene garantito il principio di neutralità e di rispetto dei convincimenti delle persone che a noi si rivolgono? Non rischiamo di ricalcare vecchie terapie di “conversione” al sapere costituito?

Il testo di cui lo stesso Ordine è firmatario, condanna qualsiasi posizione in contrasto con quella dichiarata e giustifica una serie di scelte arbitrarie tutt’altro che innocenti, ma che si vestono di giustificazioni tecnocratiche (Mignosi, 2020).

L’implicito nella sospensione è l’illecito deontologico da parte di un  professionista che non rispetta le regole di decoro professionale?

Inoltre, vi è un chiaro conflitto tra questo comunicato che condanna i comportamenti “in netto contrasto con la tutela della salute pubblica e collettiva” e l’imposizione di una vaccinazione che non esclude la presenza di eventi avversi anche gravi, in taluni casi anche la morte[17].

Come può un professionista lavorare in scienza e coscienza, se deve tacere a se stesso e agli altri i dubbi, le contraddizioni, le semplici considerazioni?!

Il rischio implicito di questi poteri-saperi (anche in relazione ai criteri di valutazione bibliografici) è stato ben descritto da Profita e Ruvolo (2020): “si tratta in ultima analisi non di lasciare spazio al pensiero, scientifico e non, una libertà d’investigazione e di ampliamento dei saperi, ma di stabilirne i parametri al fine di controllare la validità e la trasmissibilità di un sapere pre-definito” (p. 10).

Perché, se di questo si tratta, riteniamo che debba essere condiviso e discusso all’interno della comunità professionale più allargata.

Se gli psicologi, solo recentemente, sono diventati operatori sanitari, ci chiediamo quale prezzo stiamo pagando per tutto questo.

Scienza e responsabilità

Telmo Pievani, biologo eticista, è un vero scienziato, e nonostante sia assolutamente aperto alle innovazioni tecniche in campo scientifico (ad esempio la bioingegneria e le sue potenzialità nel miglioramento della qualità della vita umana), ritiene fondamentale mantenere  sempre aperta la questione etica nella ricerca scientifica.

L’etica rimanda alla necessità di guardare alle conseguenze di ciò che facciamo, e per questo riteniamo centrale il tenere sempre aperta la questione etica nella ricerca scientifica.

Non entreremo qui nel merito della mancanza di rigore scientifico di molti dei presupposti su cui si fonda l’intera gestione dell’epidemia[18], o del vaccino a tecnologia ad mRNA, sulla cui sicurezza ed efficacia il mondo scientifico sta tuttora vivacemente dibattendo. Qui ci interessano maggiormente gli aspetti psico-sociali sottesi a certe pratiche.

Già Fukuyama (1992) aveva analizzato attentamente i rischi di controllo sociale insiti in una visione politica che delega alla scienza i criteri per stabilire il confine tra bene e male, giusto e ingiusto, bene collettivo ed egoismo individuale.

La marginalizzazione sociale determinata da certe politiche sanitarie ne è testimonianza.

La scienza, come ci hanno spiegato Morin (2001; 2007) o Ceruti (2018), non è per niente neutra, piuttosto ci dovremmo sempre interrogare se e come delegare al modello scientifico (matematico, statistico) la realizzazione della società desiderabile.

Bollas (2018) sostiene che la credibilità intoccabile della scienza possa essere una reazione agli avvenimenti catastrofici del secolo scorso, che hanno portato ad una progressiva perdita di fiducia nelle capacità umane di risolvere i problemi. Le conseguenze non sono irrilevanti: “avendo rinunciato a considerare noi stessi mediatori credibili della nostra esistenza”, l’essere umano è andato alla ricerca di mediatori esterni (professionisti, tecnici, App) “consentendo al nostro cervello di avvizzire nella narcosi della rinuncia al Sé” (p. 33).

Delegare alla scienza le scelte rilevanti sul piano delle vicende personali, nella convinzione della sua presunta neutralità, significa non comprendere fino in fondo il rischio che siano gli algoritmi a governarci.

Del resto, proprio la gestione di questa emergenza sanitaria è avvenuta per mezzo di molti algoritmi. Gli stessi concetti di salute e rischio, sono mutuati dall’ambito statistico-matematico: il rischio, ad esempio, non riguarda mai la singola persona ma una popolazione, è la probabilità che al suo interno accada un determinato fenomeno[19]. Nulla viene detto sulla persona, su come un fenomeno impatti nella vita di quella persona (che è esito di una storia, di convinzioni, di interpretazioni personali sulla qualità di vita e sulla salute).

“Identificarsi con questo tipo di astrazione statistica significa cimentarsi, sosteneva Illich (1976; 1977), in una “radicale algoritmizzazione di sé”: detto in altri termini un costrutto statistico rischia di sostituirsi all’esperienza sensibile, sradicando il soggetto dalla percezione e valutazione, e virtualizzando la realtà fino all’inverosimile (Cayley, 2020).

A partire da considerazioni molto simili, Bollas (2018) si chiede se queste forme di pensiero operazionalizzato, orizzontale, rivolto all’esterno e al controllo dell’esterno, non siano la prova di un soggetticidio incombente.

“Essere, entrare in relazione ed esistere ‘in prima persona’ oggi risulta forse troppo problematico. La critica postmodernista secondo cui il soggetto era un’illusione ha probabilmente rappresentato la prima oggettivizzazione filosofica del suicidio soggettivo. Ora sembra che l’allontanamento dalla generazione del significato abbia distrutto i Sé in modo diverso: li ha lasciati privi di agentività, semplici oggetti in un mondo di oggetti” (ibidem, p. 129).

Non è un caso, per esempio, che per Arendt (1958) la crisi della modernità sia intrinsecamente legata alla crisi dell’azione come strumento di pratica politica.

“Ogni automatismo, dunque, nella lettura del fatto (o del clima) espone al rischio di genericità poiché non tiene conto, appunto, dello specifico mondo interno del soggetto, della sua storia, e in ultima analisi, della ri-traduzione che ogni soggetto opera di quello stesso fatto sociale: è in tal senso che, nella lettura del fatto sociale, lo psichismo non può costituire un fatto secondario, marginale o addirittura inutile” (Mariotti, Fina, 2021; p. 16).

I modelli matematici statistici escludono dall’orizzonte di senso il significato personale, il potere e la competenza personale, a favore della burocrazia e di una amministrazione impersonale.

Spingendo tout court verso una visione operazionalizzabile dell’umano, le scienze rischiano di schiacciare nell’unità (Arendt, 1958) la pluralità della condizione umana: il riconoscimento di un unico bene vale per una società abitata da individui che funzionano secondo i medesimi meccanismi, i medesimi sentimenti, i medesimi comportamenti[20].

Le pratiche sanitarie sono sempre più intrappolate dentro i costrutti matematici di rischio e di salute, contribuendo così alla delegittimazione del “potenziale umano”.

Oggi le persone non possono più prendere consapevolmente una decisione senza avere prima consultato un tecnico, o accedere ad uno spazio “di diritto” senza un’autorizzazione (certificazioni, autocertificazioni, recentemente anche digitali).

Sempre di più, la società “regolata da algoritmi” rende la vita governata da qualcosa di impersonale laddove, al contrario, il controllo si fa personale con una penetrazione sempre più radicale nei bisogni e nei desideri.

La matematica Cathy O’Neil (2018) spiega che gli algoritmi sono un potenziale strumento di controllo dell’umano e chiarisce, con tanti esempi contemporanei, come l’algoritmo alla base di qualsiasi modello scientifico (economico, medico, educativo) sia sempre espressione di un’idea politica tradotta in operazione matematica. È proprio per tale motivo che, dal suo punto di vista, i modelli matematici  rimangono “innocui” fintanto che non vengono formalizzati e proposti come modelli di comportamento adattabili a miliardi di persone.

Quando gli algoritmi vengono “imposti” entrando in una sfera personale (definendo algoritmicamente cosa per una persona sia “bene”), non solo rischiano di diventare modelli di controllo, ma soprattutto rischiano di qualificarsi come generatori di violenza: chi non si adatta a questi modelli viene visto come irrilevante, privo di valore e comunque sacrificabile. Le esclusioni diventano, così, tollerabili proprio attraverso l’irrilevanza che lascia i soggetti “senza possibilità di appello”.

Per Guerrasi (2019), ad esempio, l’irrilevanza è l’unico modo che la nostra società possiede per tollerare la violenza insita nei modelli matematici.

La scienza medica, il cui ruolo indiscusso nella gestione dell’epidemia è intrinseco nella delega a tecnici, rischia di creare sempre più un solco rispetto alle persone reali, alla vita e al senso comunitario delle cose.

Per Kaës (2013) la società post moderna può essere considerata un “agglomerato di individui” che vivono all’interno di una cultura anonima, impersonale, e inseriti in una storia (personale e collettiva) priva di una vera e propria finalità.

L’essere umano, privato di un orizzonte di senso più ampio, vive il dramma di non potersi “fare soggetto”: relegato in una posizione di anonimia egli rimanere drammaticamente incastrato dentro “processi senza soggetto”.

Come professionisti che si occupano dell’umano, della creazione di salute pubblica dovremmo sempre chiederci cosa si celi dietro la semplice affermazione di “somministrare una cura”: quanto sosteniamo percorsi di soggettivazione? Quanto restituiamo alle persone la loro capacità di donare senso a sé e alla propria storia? Quanto, al contrario, avalliamo pratiche alienanti, culturalmente ascrivibili a quei “processi senza soggetto”?

La matematica dovrebbe essere usata con molta consapevolezza e mai dovrebbe diventare modello globale e sociale, proprio perché rischia di tagliare fuori una fetta della popolazione qualificandola, appunto, come irrilevante.

La post-modernità ha reso i professionisti degli erogatori di servizi che con la salute hanno ben poco a che vedere: mentre invece se uno psicologo o uno psicoterapeuta vengono sospesi, non si interrompe un Servizio[21] ma una cura.

Viene sospesa una relazione definendola illegittima, quando non indecorosa (da cui discende la sospensione) e illegale (da cui discende il reato di abuso della professione).

Il dolore e la rabbia che molti pazienti hanno mostrato davanti alla comunicazione della sospensione del proprio professionista attiene a tutto questo, alla violenza che crea una cesura e che con la loro salute ha ben poco a che fare.

Questi aspetti dovrebbero essere al centro del nostro confronto professionale, anche solo per contribuire ad uscire dal “silenzio etico” di questa epoca (Fina, Mariotti, 2019).

Frattura del patto sociale

La decisione di sottoporre a limitazione la libertà di un cittadino è un atto istituzionale essenziale e ineluttabile all’interno delle società contemporanee.

In virtù di ruoli e/o compiti specifici ciascuno di noi dovrà stabilire con le istituzioni che lo definiscono, ciò che può essere considerato un vero e proprio contratto da cui scaturiscono divieti/obblighi e opportunità.

Già la semplice “cittadinanza” è una categoria di ruolo che si articola in una congerie di aspettative (divieti o obblighi) o diritti (opportunità). Quanto più è specifico il ruolo, tanto più lo è anche il suo corredo.

Alcuni di questi elementi spesso non sono prescritti esplicitamente, ma vengono comunque molto sentiti e praticati per tradizione informale; essi sono capaci di incoraggiare o scoraggiare specifici comportamenti e generare conseguenze sociali che possono impedire o promuovere una corretta assunzione di ruolo.

In psicosociologia i divieti rientrano nell’ambito del cosiddetto “patto denegativo”, mentre i vantaggi in quello del “contratto narcisistico” (Kaës, 1991).

In altri termini, il patto/contratto che lega cittadino e istituzione stabilisce a cosa egli debba rinunciare e quale vantaggio egli ne possa trarre. Affinché un ruolo possa prevedere vincoli anche severi, è fondamentale che restituisca, in cambio, privilegi e possibilità precipue. Un insegnante, per esempio, dovrà astenersi da intrattenere relazioni fisiche con i propri allievi, ma avrà il potere di giudicarne e sanzionarne la condotta.

Applicando tali criteri interpretativi, possiamo desumere che l’introduzione dell’obbligo vaccinale quale patto denegativo (giacché vieta a diverse categorie di cittadini di accedere a comuni diritti), a qualsiasi livello, a qualsiasi scopo e per qualsivoglia intervallo di tempo, debba onorare il contratto narcisistico con i cittadini sottoposti all’obbligo stesso. Ciò sembra tuttavia non accadere. Il consenso informato che l’obbligato è chiamato a sottoscrivere al momento della vaccinazione è infatti una liberatoria da qualsiasi onere a carico dell’istituzione che ha imposto l’obbligo (anche dai rischi che egli corre per la propria salute, a cagione della vaccinazione medesima). L’istituzione cioè non rassicura l’obbligato, non lo rinfranca in alcun modo: non può essere infatti considerato un vantaggio narcisistico o di alcun tipo, l’accesso ai servizi e i diritti che egli possedeva prima che gli venissero sottratti; e tantomeno il diritto di essere risarcito qualora qualcosa dovesse andare storto dopo la somministrazione.

In ambito psicoanalitico già Elliot Jaques (1955) ha affermato che in ogni organizzazione sociale (e quindi anche in ogni istituzione, quale sua dimensione valoriale, affettiva ed inconscia) si realizzano i meccanismi di difesa per proteggere dalle angosce psicotiche che essa stessa produce nelle persone che le abitano. Il paradosso è solo apparente e, a ben vedere, tale principio è congruente con il costrutto di patto/contratto concepito da Kaës. L’assoggettamento dell’individuo alle istituzioni lo espone ad un sentimento di impotenza e pericolo che solo opportuni (talora primitivi) meccanismi di difesa collettivi possono contenere.

Secondo questa rappresentazione, l’intero architrave di ruoli, organigrammi, mansioni, retribuzioni, diritti e doveri, esplicita una struttura visibile e intelligibile che argina la paura di essere schiacciati dal potere dell’organizzazione/istituzione.

Dunque, a nostro avviso, la domanda da porsi è la seguente: in che modo la politica sanitaria di questi ultimi due anni ha saputo contenere le angosce e rassicurare i cittadini?

Le organizzazioni politiche e sanitarie di tutta Europa e in particolare italiane, hanno stabilito di comunicare il rischio del contagio in termini esplicitamente o implicitamente terrorizzanti, sostenendo chiaramente la responsabilità dei non vaccinati. Nonni e cari con disabilità di ogni tipo sono stati individuati come vittime di designati colpevoli.

Al di là delle molteplici argomentazioni che potrebbero mettere in discussione questa rappresentazione, essa è psicologicamente pericolosa, giacché suddivide in buoni e cattivi gli abitanti della comunità (che smette così di essere tale), inasprendo i vissuti irrazionali e provocando paura tanto nei primi, minacciati dai cattivi untori, quanto nei secondi, a cui rimane soltanto la scelta tra accettare di essere esclusi dalla comunità o sottoporsi alla vaccinazione senza nessun paracadute offerto dallo Stato.

Uno Stato che addita capri espiatori e che incoraggia la delazione contribuisce a diffondere il panico (angoscia psicotica), ma non istituisce strutture atte alla protezione dei suoi cittadini da esso, salvo primordiali arnesi difensivi improntati al controllo paranoico, alla scissione e alla proiezione. Non si assume così la responsabilità degli eventuali danni da vaccino. Inoltre rinuncia al compito primario di difesa della comunità, sottraendosi all’onere di riconoscere pubblicamente la parzialità di scelte che, qualora fossero state  vagliate, riconosciute e sostenute come tali – ovvero parziali – avrebbe permesso allo Stato stesso di mantenersi autorevole.

Dinamica del capro espiatorio

Sono stati denominati “no-vax” tutti coloro che, a vario titolo e in ragione di percorsi personali anche radicalmente diversi, hanno preso una posizione di dubbio o di rifiuto nei confronti della campagna vaccinale, ma anche delle politiche sanitarie relative all’epidemia. Paradossalmente sono finiti nella categoria anche coloro che hanno iniziato il protocollo vaccinale previsto, ma non lo hanno terminato per i motivi più vari, anche per esempio per aver riportato danni in seguito al vaccino.

I cosiddetti no-vax sono stati esposti alle dinamiche di marginalizzazione e di criminalizzazione del diverso, quando non di una vera e propria psichiatrizzazione del dissenso[22].

Girard (1982), antropologo francese scomparso recentemente, ha scritto tanto sul capro espiatorio: durante le crisi collettive (come potrebbe essere una pandemia o una pestilenza) il capro espiatorio permette al gruppo sociale di “liberarsi” della violenza, canalizzandola su un bersaglio legittimo e non pericoloso. Il capro espiatorio di fatto è innocuo, perché il suo assassinio non sarà vendicato[23].

Ma di quale violenza parla Girard? Le gravi crisi sociali sfaldano e minano la solidità del legame di comunità, svincolando quella violenza fino a quel momento regolata e contenuta grazie ai “garanti metasociali”. Attorno al “capro espiatorio” si creano, così, nuovi miti e nuove credenze, il cui fine è quello di cementificare, anche solo provvisoriamente, il patto sociale messo in crisi.

Non vi è dubbio che la recente epidemia abbia scatenato angosce profonde, abbia smantellato gli “organizzatori psichici” di lunga durata e messo in crisi istituzioni secolari, esponendo ad una violenza profonda i gruppi e le comunità.

E la violenza attivata da ansie, angosce e paure si placa soltanto attraverso un sacrificio. Il capro espiatorio riesce perfettamente in questo compito, in quanto è al contempo reietto (colpevole) e salvatore (libera la comunità dalla violenza). Ma sappiamo anche che l’istituzione di un capro espiatorio non rimette a posto le capacità di simbolizzazione della sofferenza, della mortalità, della precarietà e della ferita narcisistica.

L’impreparazione delle nostre istituzioni rispetto alla gestione dell’epidemia è sotto gli occhi di tutti, testimoniata spesso anche da una decretazione al limite dell’ossessivo. Una gestione paternalistica che scarica sugli individui singoli (ora i runner, ora i cosiddetti “negazionisti[24]”) la responsabilità della situazione. Il capro espiatorio, ultimamente identificato nel no-vax, è colui che, se escluso dalla comunità, permette alla comunità di riprendere una vita “normale”.

Non possiamo fare a meno di pensare a tutte quelle leggi che hanno restituito libertà ai vaccinati grazie alla limitazione della libertà dei non vaccinati, il cui destino è stato assolutamente irrilevante ed insignificante agli occhi dei più. La maggioranza silenziosa, liberata dal pesante fardello, non ha sottoposto la narrazione ad analisi critica, colludendo con la sua logica irrazionale.

In questo senso, il rischio più grande è che il legame sociale si regga grazie alla “menzogna del capro espiatorio”.

Il capro espiatorio attiva un sentimento di vendetta che dilaga velocemente per “contagio mimetico[25], un’emozione collettiva talmente forte da diffondersi a macchia d’olio all’interno della comunità, e interessando anche i membri meno coinvolti. La folla contagiata è pronta a seguire la prima indicazione di un colpevole additato da un leader per concentrare contro questo bersaglio tutto l’odio di cui è carica.

Uno dei miti attorno al quale ruota la dinamica del capro espiatorio è stato proprio quello del vaccino, la cui autorizzazione è avvenuta più per fede che per rigorosità scientifica.

Molti di noi ritengono che il vaccino sia stato un espediente tecnico non relazionale che ha permesso alle persone di placare specifiche angosce.

Robi Friedman in un recente convegno (2020) che si è svolto proprio alla fine del primo lockdown, ha teorizzato la presenza di una specifica matrice di gruppo definita da lui corona matrix,caratterizza da paure omicide e di contagio e  da un profondo senso di colpa. Il vaccino sembra avere mitigato la colpa relativa all’essere fonte di contagio o di essere contagiato (oltre alla paura della propria morte), poiché si ritiene che il contagio avvenga per qualche comportamento immorale o irresponsabile.

Non è un caso probabilmente che, nonostante il farmaco sia stato brevettato come vaccino per la COVID-19, esso sia stato diffuso, anche nei testi di legge, come vaccino contro il SARS-CoV-2, ovvero come prevenzione del contagio, pacificando il senso di colpa. Così il vaccino diviene la nuova religione che assolve e deresponsabilizza tutti.

Lo statuto di colpevole è un a priori e la certificazione di essersi vaccinato, le certificazioni di esenzione o di differimento rispondono alla stessa medesima logica: servono a dichiararsi innocenti, o a salvarsi dalla condanna.

Hopper (2021), all’interno di una visione più analitica, ritiene che quanto accaduto durante il periodo epidemico possa essere riletto facendo riferimento alla teoria degli assunti di base (Bion, 1961). Egli, infatti, ritiene che quando i gruppi vengono attraversati da traumi sociali, questi suscitano ed attivano delle paure psicotiche di annichilimento. In maniera più specifica, quando un gruppo è così fortemente colpito da minacce di annichilimento, mette in atto una serie di strategie che vanno dall’agglomerato alla massificazione, e che testimoniano l’attivazione del quarto assunto da lui stesso definito dell’incoesione:le istituzioni perdono la loro identità strutturale, vi è una regressione alla semplificazione, il pensiero e i sentimenti si esprimono attraverso stereotipi di massa (con evidente avversione nei confronti di tutto ciò che di individuale può essere espresso) e l’ideale del gruppo è un ideale di uguaglianza, inteso come ideale di essere “tutti la stessa cosa”. Gli stereotipi di massa esprimono anche una violenta dimensione comparativa e valutativa tipica del pensiero binario.

Il gruppo in assunto di base incoesione, ci permette di rispondere anche alla domanda su come mai in questi mesi non si sia riusciti, all’interno della nostra comunità professionale, ad avviare un confronto che possa andare oltre alla logica bipolare sì-vax/no-vax.

In questi mesi abbiamo assistito ad una semplificazione del dibattito, una proliferazione di stereotipi e di luoghi comuni al limite del ridicolo[26], la cui funzione è duplice: da un lato esercitare sui membri una pressione ad aderire e conformarsi in maniera ritualizzata ai valori e alle norme dell’organizzazione, dall’altra escludere e marginalizzare chi non si conforma.

L’establishment, che ha il potere di manipolare le norme di giudizio, tende a istituire dispositivi atti a escludere le persone che non si conformano. All’interno di questa prospettiva, sia il totalitarismo che il processo del capro espiatorio sono esiti dell’assunto di base dell’incoesione.

Nel processo del capro espiatorio, secondo Hopper (2021), le persone non conformi possono subire due destini: o vengono considerati  “subspecie”[27], “esseri non umani”, o al contrario vengono visti alla stregua di fratelli minori irresponsabili e immaturi[28]. Ricordiamo a tal proposito l’articolo “Il pasto gratis dei no vax” che esprime perfettamente questa dinamica quando descrive i no vax come persone che hanno deciso di mangiare il piatto gratis alle spalle di chi fa il proprio dovere civico e che disperdono l’impegno collettivo.

Come professionisti siamo tenuti a mantenerci dentro processi di conoscenza scientificamente orientati, che includono anche le scienze sociali, antropologiche e filosofiche.

Ci aspettiamo quindi che l’Ordine prenda posizione all’interno del dibattito scientifico, dando voce a riflessioni che non possono essere taciute, proprio per il bene della scienza e della collettività.

La dinamica del capro espiatorio è infatti molto pericolosa perché depotenzia le capacità simboliche individuali e collettive, e quindi può portare ad esiti nefasti, sia per la società nel suo complesso, sia per le persone che la compongono.

La Psicologia possiede specifiche e potenti categorie di lettura dei fenomeni sociali, e non può esimersi dal dibattito, per procedere oltre la semplificazione dell’assunto incoesione.

Tutela dei colleghi

Una delle questioni principali riguarda la ratio che ha stabilito che i sanitari siano stati i primi ad essere soggetti ad obbligo e al contempo siano, ancor oggi, gli unici per cui l’obbligo vaccinale comporti la sospensione immediata dal lavoro con privazione conseguente della propria fonte di sostentamento economico (a volte unica).

Sarebbe stato auspicabile motivare alcune scelte cosiddette sanitarie a partire da un’analisi di indicatori di rischio (se vogliamo rimanere nell’ambito del tecnicismo) che evidenziano come i sanitari siano una categoria più a rischio delle altre.

Volendo, quindi, anche far propria la discutibile differenziazione tra operatore pubblico e privato, esistono degli indicatori che rendono lo studio privato di uno psicologo o di uno psicoterapeuta più a rischio di un qualsiasi altro studio professionale? Per altro, va segnalato che la sospensione di un libero professionista, al contrario di un dipendente pubblico, comporta delle conseguenze professionali ancora più gravi, nella misura in cui solo il libero professionista, al momento del reintegro, si troverà costretto a riavviare la propria professione da capo[29].

Nonostante si continui ad affermare che la gestione delle emergenze sia improntata a logiche meramente tecnico-scientifiche, non si comprende quali siano i dati scientifici che ne supportano la ratio, soprattutto alla fine di una emergenza che è durata due anni.

Abbiamo già discusso come, “al fine di tutelare la salute pubblica”[30], la vaccinazione sia divenuta requisito professionale per l’esercizio della professione.

Se è vero che non blocca l’infezione nei Servizi pubblici (cosa evidente nella cronaca e nell’esperienza diretta di ognuno), non si capisce perché la vaccinazione sia “requisito” abilitante per chi opera nello studio privato, dove le misure di sicurezza e i dispositivi di protezione sono sempre stati garantiti secondo disposizioni di legge.

Ci chiediamo quindi, insieme a tanti cittadini che osservano sgomenti la violenza di certi provvedimenti, la motivazione per la quale l’Ordine non sia intervenuto sulla questione “requisito”, tanto da consentire di rendere illegittime, abusive e irregolari perfino le posizioni e le relazioni professionali di quei colleghi che lavorano esclusivamente online.

Se oggi la psicologia è entrata a pieno titolo tra le professioni sanitarie[31], è anche vero che molti psicologi svolgono una funzione che di sanitario ha ben poco, se con tale termine intendiamo le “attività volte alla prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione”.

Tanti psicologi non lavorano all’interno del “contenitore sanitario” e non vedono pazienti, ma nonostante questa evidenza, sono stati sospesi o costretti, loro malgrado, ad una vaccinazione non voluta.

La sospensione ha per altro delle ricadute sui rapporti lavorativi, andando a ledere in alcuni casi relazioni di fiducia e reti professionali: il lavoro di questi professionisti non si svolge mai solo su compiti e obiettivi ma sulla gestione di processi e di percorsi, anche nel caso di colleghi che si occupano di formazione.

Sarebbe stato opportuno interloquire con i legislatori per rappresentare le istanze che, anche in buona fede, possono non aver considerato in maniera corretta.

Riteniamo altresì che l’Ordine debba promuovere azioni volte alla salvaguardia della salute pubblica, anche di quella dei propri iscritti, per i quali vige la regola della colleganza[32].

Rispetto all’obbligo vaccinale diretto ed indiretto[33] vorremmo, quindi, porre all’attenzione di codesto Ordine un aspetto psicologico decisamente non irrilevante, e conseguente ad una gestione poliziesca e paternalistica dell’epidemia.

I professionisti sanitari, come tanti cittadini, sono stati oggetto di un vero e proprio ricatto vaccinale, un ricatto che lascia una traccia visibile.

Come qualsiasi metodo educativo fondato sulle umiliazioni e sulle frustrazioni, rischia di alimentare una catena invisibile di veleno sociale.

Non permettere a liberi professionisti, validi, capaci e formati, di esercitare il lavoro per il quale hanno faticato anni, è fortemente in contrasto con i principi etici[34] di ogni professione sanitaria, che dovrebbe avere al centro la salvaguardia della dignità personale[35] di tutti gli individui.

La “solidarietà sociale”, così ben evidenziata nella campagna vaccinale, entra in netto contrasto con la dimensione coercitiva della stessa, tanto che nessun medico vaccinatore eseguirebbe alcun intervento clinico senza avere prima acquisito un consenso informato[36].

Tralasciando l’assurdità logica di un consenso ottenuto sotto forma di coercizione, il bene comune non può mai ledere il rispetto della dignità personale, come è chiarito nella Costituzione Italiana (art. 32). Nel caso della vaccinazione, l’articolo in questione prevede come limite espresso ai trattamenti sanitari, quando resi obbligatori per legge, il rispetto della persona umana[37].

La sospensione dall’attività lavorativa e dalla relativa retribuzione per chi non ottemperi all’obbligo vaccinale contrasta dunque con i valori fondanti la nostra Costituzione.

Impedendo ai colleghi sospesi di esercitare la propria attività lavorativa e di percepire la relativa retribuzione, li si priva della possibilità di vivere liberamente e dignitosamente. In sostanza viene meno il rispetto della loro persona, della loro dignità, oltre che della dignità della loro famiglia, che anche (o a volte soltanto) grazie a quell’entrata economica trovava sostentamento.

E non si può fare a meno di osservare che togliere i mezzi di sussistenza attenti anche allo stesso diritto alla salute: intesa come salute fisica, psichica e sociale.

Inoltre, non va dimenticato che, come recita l’articolo 36 della Costituzione, la finalità della stessa del lavoro e della relativa retribuzione è “garantire un’esistenza libera e dignitosa” ai lavoratori stessi e alle loro famiglie.

È chiaro che molti cittadini e professionisti abbiano subito una forte pressione psicologica, che possiamo definire violenza simbolica, da alcuni definita anche oppressione istituzionale, proprio nella misura in cui sono diventati oggetti di biasimo, isolamento nei posti di lavoro, denigrazione professionale, licenziamento, interruzione di percorsi di terapia personale, interruzione di percorsi  formativi professionalizzanti e per ultimo di provvedimenti di sospensione per mancanza di requisiti all’esercizio della professione.

Il provvedimento di sospensione, nel “rispetto”[38] della legge, ha creato malessere in tutti quei professionisti che sulla professione avevano fondato e costruito un progetto personale e professionale, che sulla garanzia di un lavoro avevano sviluppato investimenti per la propria famiglia, e che hanno subito una drastica interruzione degli introiti economici in un momento per altro di difficile crisi economica dell’intero nostro Paese.

Come pensare che tutto questo, a proposito di bene comune, non graverà sul Welfare State[39]?

Questa pressione psicologica (perdere il lavoro, interrompere una carriera, minacciare un progetto di vita) può portare a situazioni di grave malessere (si guardi la letteratura sul tema a titolo esemplificativo), a condizioni di ipervigilanza e di preoccupazione costanti.

Tutto ciò non può continuare ad essere celato perché, come sappiamo da anni grazie agli studi sulle pressioni psicologiche e sulle violenze simboliche, il silenzio è il miglior alleato di questo malessere.

Il silenzio porta con sé sempre un malessere aggiuntivo, e il disconoscimento della sofferenza crea un circolo vizioso che, almeno in questo caso, speriamo possa essere interrotto, anche grazie alla nostra azione ed all’intervento dell’Ordine.

Il Consigliere Calogero Lo Piccolo scrive in un recentissimo articolo (2021): “viviamo in un sistema abusante di cui siamo tutti vittime poco consapevoli, a volte, e che spesso colludono con il sistema abusante. Conoscere se stessi oggi vuol dire individuare le personali soglie di tolleranza (…). Governare se stessi ha molto a che fare con la possibilità di individuazione di queste soglie. E sul rispetto delle stesse (…) La psicoterapia è in fondo un apprendimento dell’esperienza, ma un apprendimento che verte soprattutto sull’effetto delle soglie e il rispetto delle stesse. Per non diventare l’abusante di me stesso, o la vittima inconsapevole che collude con l’aggressore”.

Come può un professionista lavorare su questi obiettivi se istituzionalmente gli viene negata la possibilità di comprendere e rispettare le proprie soglie di tolleranza?

Sappiamo bene che la capacità di un professionista di esplorare aree di funzionamento mentale e di sostenere il paziente in un processo di cambiamento dipende dalla capacità e possibilità di esplorare il proprio funzionamento mentale.

Alla luce della fine dello stato di emergenza, delle odierne conoscenze scientifiche sull’efficacia assoluta e relativa dei vaccini e delle ricerche sugli eventi avversi, diviene necessario e urgente un intervento in tal senso di Codesto Ordine e del CNOP, a garanzia di una posizione che non può essere sbrigativamente liquidata come antiscientifica[40].

La tutela dei colleghi professionisti dovrebbe essere una priorità di questo Ordine, così come la difesa della qualità del lavoro degli stessi.

Non garantire il confronto tra colleghi entro gli Ordini professionali ha impedito di offrire al Legislatore contributi a tutela della salute pubblica e dei colleghi che hanno scelto altre forme di protezione individuale. Il malcontento così viene indirizzato agli Ordini e non più al Ministero. Quella che doveva essere un’azione necessaria nell’ambito della concertazione sociale, si sta spostando dentro le aule di Giustizia e gli studi degli avvocati, anche a causa del silenzio istituzionale degli organi sussidiari coinvolti.

Tutela dei diritti dei pazienti

Il rapporto psicologo-cliente, e ancor di più quello tra psicoterapeuta e paziente, è qualcosa di “sacro”, e quindi va tutelato.

Il fatto che una legge possa disporre, in base ad un criterio arbitrario, l’immediata sospensione di terapie, relazioni di aiuto, percorsi formativi in corso, entrando nel merito di un rapporto basato sulla fiducia (e non chiedendosi nemmeno in che tempo della relazione tale sospensione avvenga), è qualcosa che non ha precedenti.

Professionisti di qualità, etici e interpreti seri di una deontologia professionale si trovano a dover abbandonare pazienti (con l’interessamento di famiglie e di gruppalità varie), la cui salute e serenità sono già gravemente compromesse dalle vicende sociali odierne.

Sappiamo bene come questo Ordine abbia a cuore la salute dei cittadini. Lo ricorda il Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia – Dott.ssa Gaetana D’Agostino – in occasione del mancato rinnovo del contratto a 19 psicologi da parte degli Ospedali Riuniti Villa Sofia-Cervello. In una intervista in cui manifestava solidarietà e sostegno alla causa di questi colleghi, la D.ssa D’Agostino riteneva “assurde (le scelte dell’Azienda) in quanto lesive sia per una intera categoria professionale che per i pazienti e i loro familiari, che hanno visto negato il loro diritto alla salute. Dall’oggi al domani anche loro si sono trovati senza assistenza psicologica con un grave problema da affrontare e riteniamo che questa sia una visione miope dell’Azienda e speriamo che risponda al più presto a quelle che sono le esigenze dei loro pazienti e degli operatori sanitari (…). Due anni di pandemia ci hanno insegnato che occuparsi di salute significa anche occuparsi di salute psicologica”.

Condividiamo le parole della Dott.ssa D’Agostino e ci chiediamo come mai la stessa attenzione non sia stata posta nei confronti di tutti quei pazienti a rischio suicidario, con disturbo ossessivo-compulsivo, affetti da paranoia, schizofrenia, nei confronti di adolescenti autolesionisti, di pazienti borderline, donne maltrattate il cui diritto alla cura era quanto meno garantito (non avevano di certo sciolto alcun tipo di contratto con il professionista).

Perché il diritto alla cura di queste persone è stato più volte ignorato? Perché un contratto non rinnovato per scelte interne ad una Azienda è oggetto di maggiore interesse rispetto a un contratto tra un professionista e “un paziente” che viene tranciato in maniera brusca e violenta per una legge di cui, per altro, sono dubbi, lo ribadiamo nuovamente, i profili di costituzionalità?

Quando parliamo di “cura” delle persone facciamo, inoltre, riferimento al fatto che le forme di malessere di molti dei nostri pazienti rimandano profondamente al clima sociale della contemporaneità (non possiamo fare a meno di notare come le richieste di aiuto siano aumentate durante la crisi sanitaria della COVID 19).

Il soggetticidio di cui parla Bollas (2018) rimanda proprio all’idea che le persone oggi soffrono per una difficoltà di accedere a uno sguardo interno e, di conseguenza, a forme di soggettivizzazione e di ricerca di senso personale.

Le persone che si rivolgono a professionisti, oggi, soffrono perché smarriti nel mondo delle scelte, persi in una nientificazione del senso personale e soggettivo[41], annichiliti da ideali iperprestativi, che schiacciano il Sé dentro una pura logica omologativa e livellatrice. Portano un vissuto di catastrofe imminente e la sensazione angosciante di essere in balia di forze esterne ingovernabili, che fanno scivolare dalla possibilità di essere autore al sentirsi preda di un avvilente vissuto di impotenza.

I pazienti che spesso si rivolgono ai professionisti “si sentono immersi in una realtà a cui è venuta meno la processualità esistenziale indispensabile, nell’avvio del percorso di soggettivizzazione, a riconoscere la necessità dell’acquisizione di responsabilità individuale e progettuale. Si tratta di una mancanza sostanziale, che perpetua l’assenza di pensiero e abbandona il soggetto al potere della deriva di un caos identitario a cui si reagisce con forme difensive estreme” (Fina, Mariotti, 2019, p. 119).

L’eteronormatività diviene così la forma principale che rimane per potere regolare e regolarsi. Come ricorda Stanghellini (2020), oggi “la macchina-di-dentro” sta lasciando il posto alla “macchina-di-fuori”, con il rischio di una sempre maggiore delega e un’accettazione passiva di situazioni totalitarie.

A partire da una prospettiva diversa, Pigozzi (2019) segnala come il mancato processo di soggettivizzazione lasci pericolosamente spazio a quella che chiama ombra totalitaria. “L’ombra totalitaria” – sostiene – è sempre indissolubilmente legata a un’umanità narcotizzata, dormiente, ubbidiente. Nelle nostre democrazie senza pensiero critico, i ragazzi – nonostante apparenti proteste – sono docili e ubbidienti, psichicamente allevati per essere sudditi” (p.160).

Le persone che chiedono un aiuto sono alla ricerca di relazioni validanti, volte alla soggettivizzazione: ricercano una relazione all’interno della quale possano contrastare il proprio sentirsi schiacciati da logiche anonime, impersonali, di oggetto tra oggetti. La relazione terapeutica svolge una funzione essenziale in quanto permette una visione di sé competente, sostiene scelte “coraggiose”, allena all’ascolto di sé in rapporto agli altri. Detto altrimenti, consente di sviluppare una competenza meta che aiuta a pensare ciò che sovradetermina, di scegliere una posizione soggettivizzante ed autentica nel mondo, che dia voce ai “nuclei viventi rimasti in attesa” (Modell, 1986).

Trovare uno spazio per dare senso a tutto questo è fondamentale: la presenza di un contenitore vivo, capace di animare gli aspetti vivaci e creativi della mente all’interno di una relazione solida e significativa spesso è uno dei primi passi per avviare un reale processo di cambiamento.

Già molte ricerche individuano nella “relazione terapeutica” un fattore aspecifico indispensabile per qualsiasi processo di cambiamento: relazioni che permettono di compiere “esperienze emozionali correttive” (Alexander et al., 1946).

In effetti, proprio la comparsa nel dialogo clinico di strutture e dinamiche mentali relative all’attaccamento, è condizione che potenzialmente permette esperienze relazionali correttive nel paziente, di regola accompagnate dallo sviluppo delle capacità metacognitive (Liotti e Monticelli, 2014).

Lo stesso Bowlby (1996) ha sottolineato come la relazione terapeutica possa costituire un importante fattore di cambiamento dello stile di attaccamento, consentendo al paziente di passare da uno stile insicuro a uno stile sicuro.

In questo processo, il compito del terapeuta è anche quello di agire come una figura di attaccamento, creando una base sicura che consenta al paziente di procedere nell’esplorazione delle proprie esperienze e dei propri vissuti di attaccamento, favorendo esperienze emozionali correttive capaci di disconfermare i modelli operativi interni insicuri.

Quella logica che permette di tranciare con estrema facilità una relazione significativa costruita con impegno e innumerevoli sforzi personali, quanto può essere replicante di questo “sentirsi oggetto tra gli oggetti”? Quanto la possibilità di sospendere un professionista in base ad un criterio arbitrario diviene replicante di una logica che permette di pensare che le relazioni siano parimenti discontinue e sostituibili? Quanto una situazione così descritta va a ledere, come mai successo fino ad ora, il diritto dei pazienti alla cura e alla scelta del curante?

Non possiamo fare a meno di chiederci quanto sia realmente tutelante per questi pazienti, che presentano delle vulnerabilità emotive di una certa rilevanza, interrompere una psicoterapia senza nessuna valutazione dei rischi.

Molti pazienti, a seguito della comunicazione dell’interruzione sine die[42] dei propri “legami” terapeutici, hanno manifestato rabbia, disorientamento, la sensazione di schiacciamento e di quell’anonimia che abbiamo più volte segnalato in questo documento.

Proprio nel luogo dove stanno apprendendo e scoprendo il valore della propria diversità (al di là dei dispositivi psichici omologanti e annichilenti il sé) vivono, di nuovo, l’esperienza di non essere stati pensati e garantiti.

L’esperienza di dolore di queste persone è stata talmente forte da avere toccato livelli di sfiducia istituzionale molto forti, sensazioni di angoscia, di abbandono e la sensazione che sia la persona, che la stessa relazione, venissero nuovamente inglobate nell’acquiescienza, nell’omologazione, nel “divieto a pensare” in una visione esclusivamente replicante dell’umano.

Va, inoltre, segnalato come la stessa comunicazione ai pazienti della propria sospensione sia avvenuta al di fuori di un setting/contenitore terapeutico (che sappiamo essere il “dove” si colloca l’intervento). Il setting, non lo dovremmo ricordare, è ciò che circoscrive, caratterizza e definisce l’attività clinica.

L’integrità del setting permette di costruire un solido contenitore interno che consente l’elaborazione e la simbolizzazione dell’esperienza vissuta.

Winnicott (1970; 1975) usa il termine setting per indicare quel contesto relazionale che, in quanto area transizionale, permette di pensare i fenomeni ed i sintomi, di dare loro significato e di creare nuove possibili connessioni: come può essere gestita la rabbia, la delusione, la riattivazione di parti traumatiche anche di tipo transferale, se il professionista è sospeso e quindi non autorizzato a “trattare” il proprio “ex paziente”, e il setting è stato dissolto per legge?

La stessa comunicazione della sospensione e relativa motivazione, in alcuni casi si è configurata come self-disclosure inappropriata (soprattutto emotiva: la sospensione ha un chiaro impatto emotivo sul professionista) che sappiamo essere correlata con una rottura dell’alleanza terapeutica.

Se è vero che il processo terapeutico procede per rotture e riparazione dell’alleanza (Costantino, Castonguay e Schut, 2002), è altrettanto vero che i pazienti che hanno sentito nella comunicazione una rottura dell’alleanza terapeutica si sono ritrovati soli nel potere dare senso a quanto accaduto al terapeuta e alla stessa relazione.

In maniera ancora più specifica possiamo intendere, in accordo con De Bei, Colli e Lingiardi (2007) che “il processo terapeutico” possa essere considerato “come il tentativo di costruire (alleanza terapeutica) una relazione sicura (attaccamento) attraverso una serie relativamente identificabile di vicissitudini (rotture, riparazioni), caratterizzate da dinamiche che coinvolgono la soggettività dei partecipanti (transfert, controtransfert)”.

Non possiamo non chiederci se l’Ordine degli Psicologi abbia pensato a queste conseguenze, non banali, di una sospensione avvenuta non per mancanza di titoli (uno psicologo che fa psicoterapia, ad esempio) ma per un criterio non specifico stabilito dentro una stanza ministeriale.

Sarebbe opportuno che l’Ordine prendesse una posizione anche in merito alla tutela delle persone che hanno liberamente scelto la persona con cui avviare un processo di cambiamento personale (per caratteristiche umane del terapeuta, per la sua personalità e il suo modo di partecipare alla relazione, per caratteristiche di setting).

La comunicazione della sospensione del proprio terapeuta ha accentuato le angosce abbandoniche e le rabbie, aumentando la sfiducia nelle istituzioni e nel mondo scientifico.

E proprio in un momento storico in cui la sfiducia nelle istituzioni è alle stelle, dovremmo seriamente chiederci se la scelta di non rappresentare e “difendere” i percorsi di cura tuteli veramente l’importanza e l’immagine sociale della nostra professione.

I soggetti che si rivolgono ad un professionista della psicologia, in senso ampio, presentano aspetti molto delicati, la cui attenzione e tutela dovrebbe essere un impegno di tutta la comunità professionale.

Non siamo soltanto in assenza di alcuna evidenza scientifica che vuole uno studio professionale privato di natura psi (caratterizzato da misure igieniche previste dalla legge, non affollato, confortevole) luogo pericoloso per i soggetti “fragili”, ma è anche necessario chiedersi a questo punto cosa “abbiamo in mente” quando parliamo di soggetto fragile: immunodepresso? malato? malato di cosa?

Ci chiediamo e chiediamo come mai sia stato così facile accettare questa visione di fragilità che è una definizione chiaramente mutuata dalla medicina “del rischio”, a discapito di una “fragilità” psicologica più legata ad una vulnerabilità soggettiva, all’insicurezza nelle relazioni, alla mancanza di fiducia nel prossimo o nel futuro, a relazioni maltrattanti, a sensazioni di annichilimento e confusione.

Come mai nella discussione è stata prevalente la visione di una “fragilità” non chiaramente definita neppure da un punto di vista medico, e non la tutela delle “vulnerabilità psicologiche” e dei bisogni psicologici delle persone che si rivolgono ad un professionista?

Il presupposto iniziale su cui si è basato l’obbligo vaccinale era quello di “proteggere i fragili” e su questo hanno aderito gran parte dei colleghi. Ma questo ipotetico paziente fragile da proteggere è forse meno capace di comprendere quale sia il proprio interesse, è meno competente a comprendere se le condotte di un professionista ledono la propria salute o ne mettono a rischio l’incolumità fisica?

Come è stato possibile che il mondo professionale abbia accettato che la somministrazione di un vaccino potesse diventare valore superiore al diritto del paziente a mantenere una relazione significativa, il cui senso terapeutico è stato dimostrato dalle ricerche sul tema (Safran e Muran, 2006)?

È plausibile pensare che l’essere professione sanitaria, come è stato più volte ricordato in questi mesi, abbia portato a mutuare un linguaggio medico all’interno della nostra comunità professionale, senza una riflessione profonda su cosa questo comportasse?

“Un miope utilitarismo ci ha indotto a pensare che la nostra vita fosse una buona vita a condizione che non ci facessimo troppe domande. Con un gioco di prestigio collettivo, l’attenzione è stata diretta verso la fede in alcune abilità selettive, quali la capacità di pensare in termini scientifici e la facoltà di inventare nuove tecnologie” (Bollas, 2018, p. 32).

Riteniamo che l’essere diventati professione sanitaria non debba farci dimenticare la tradizione dalla quale veniamo e neppure ripiegare in letture mediche del problema. Decidere la sospensione immediata di una relazione di cura, presumibilmente anticostituzionale per altro, è ledere il diritto della persona all’autonomia nella scelta, rendendola oggetto passivo di una “semplice” prestazione sanitaria; è allontanarsi da una visione competente, autonoma e autodeterminante del cliente che si rivolge al professionista. La libertà del cliente cede alla passività del malato. 

Il requisito “vaccino” sarebbe, così, intrinsecamente legato ad una visione passivizzante, immunizzante e medicalizzata della persona che si rivolge a noi professionisti. L’introduzione di un trattamento sanitario (la vaccinazione) come requisito necessario per lo svolgimento di una professione dovrebbe quindi essere al centro di un dibattito interno che al contrario sembra non esserci.

Appellarci a un tecnicismo scientifico ha come pericolosa conseguenza di neutralizzare il confronto professionale e politico-professionale su temi che hanno una rilevanza per certi versi epocale.

L’obiezione di coscienza attiva è quindi, oltre che un atto di autotutela giuridica e sanitaria, anche una forma di partecipazione consapevole e responsabile del cittadino alla vita pubblica: chi la esercita non persegue unicamente uno scopo personale ma si fa carico in prima persona di un’azione di giustizia civile e di tutela dei diritti costituzionali e umani.

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[1] Non è obiettivo del presente documento mettere in evidenza le contraddizioni normative (per cui diversi Ordini hanno applicato “sanzioni diverse”) e le incongruenze logiche della decretazione successiva a marzo 2020 (inizialmente nel pieno della mortalità si poteva lavorare perfino in presenza, oggi neppure online).

[2] La definizione di “vaccino” è stata recentemente modificata nei documenti ufficiali delle principali istituzioni sanitarie, proprio mentre i farmaci che adesso chiamiamo “vaccini” affrontavano l’iter di approvazione.

Il Center for Disease Control and Prevention (CDC), ossia l’ente governativo statunitense deputato al controllo sulla sanità pubblica e a pronunciarsi, insieme alla Food and Drug Amministration (FDA), sulla sicurezza dei vaccini, ha recentemente modificato la definizione di vaccino.

Se in precedenza esso veniva definito “un prodotto che stimola il sistema immunitario di una persona a produrre immunità a una malattia specifica, proteggendo la persona da quella malattia”, a partire dal settembre del 2021 viene definito vaccino: “una preparazione che viene usata per stimolare la risposta immunitaria del corpo contro le malattie” (link consultabili alle due versioni: https://web.archive.org/web/20210812210635/https://www.cdc.gov/vaccines/vac-gen/imz-basics.htm, https://www.cdc.gov/vaccines/vac-gen/imz-basics.htm).

Com’è evidente, si tratta di una differenza non da poco: secondo la nuova definizione un farmaco, per essere denominato “vaccino”, deve essere un preparato in grado di “stimolare” una risposta immunitaria, eliminando il precedente requisito per cui doveva “produrre immunità” (nel dizionario Garzanti: “una condizione di refrattarietà di un organismo a una malattia infettiva”).

Come segnalato da alcuni organi di stampa (L’Indipendente, ad esempio) e confermato dagli stessi documenti online degli Enti suddetti, è interessante notare che «la modifica della definizione di vaccino da parte dell’ente statunitense sia avvenuta in corrispondenza temporale con l’approvazione definitiva del vaccino anti COVID-19 prodotto da Pfizer-BioNTech. Nel comunicato ufficiale di approvazione dello stesso, pubblicato dalla FDA il 23 agosto, si legge che il vaccino sarà commercializzato “per la prevenzione della malattia COVID-19”. Un risultato probabilmente in linea con la nuova definizione di vaccino nel frattempo modificata dal CDC, ma che non avrebbe soddisfatto la precedente definizione, secondo la quale avrebbe dovuto produrre “immunità”» (https://www.lindipendente.online/2021/09/08/esclusivo-gli-usa-hanno-modificato-la-definizione-di-vaccino-durante-lapprovazione-di-pfizer).

Non useremo qui, invece, il termine “pandemia”, utilizzando il più generico epidemia, per motivi analoghi, che cioè riguardano una questione altrettanto controversa, sulla quale vi è ancora ampio dibattito. Più di dieci anni fa, nel 2009, nel corso dell’epidemia di influenza denominata H1N1 (anche detta “suina”), l’OMS cambiò la definizione di “pandemia”: quella originaria era “malattia che si diffonde molto velocemente e causa un gran numero di malati gravi e di morti”, la successiva diventò “un’epidemia che si verifica in tutto il mondo, o su un’area molto vasta, che attraversa i confini internazionali e che di solito colpisce un gran numero di persone”. Apparve subito evidente che la nuova definizione, non facendo riferimento alla gravità della malattia o alla letalità, non permetteva più di distinguere tra influenza pandemica ed influenza stagionale. Ricordiamo allora solo brevemente lo scandalo che investì l’OMS negli anni a seguire, riconosciuta colpevole dalla Commissione Sanità dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa di aver generato un indebito allarme e causato un danno ingente sia alle casse degli Stati europei, che alla salute dei cittadini indotti a vaccinarsi senza necessità o benefici. Per un approfondimento, il famoso documentario della tv svizzera RSI: www.rsi.ch/la1/programmi/informazione/falo/tutti-i-servizi/Il-fantasma-della-pandemia-1876920.html

Ancora, una simile operazione di modificazione semantica sostanziale e non meramente formale, è stata attuata recentemente per il termine “immunità di gregge”, che fino al 9 giugno 2020 il sito dell’OMS riportava essere “la protezione da una malattia infettiva che si realizza quando una popolazione è immunizzata tramite vaccinazione o immunità sviluppata tramite precedente infezione”, ma che una modifica ad opera del direttore generale Tedros Ghebreyesus, dal 13 novembre 2020, ha trasformato in “un concetto usato per la vaccinazione, in cui la popolazione può essere protetta da un certo virus se viene raggiunta una certa soglia di vaccinazione […] e non attraverso l’esposizione ad esso” (www.who.int). In sostanza, scompare uno dei concetti più noti e condivisi della medicina, quello di immunità naturale.

[3] Una bizzarria del D.L. 172/21 prevedeva che i professionisti sprovvisti della dose di richiamo possedessero un  green pass attivo ed utile per la vita sociale: il soggetto poteva  recarsi in qualsiasi luogo di aggregazione. Al contempo però lo stesso GP non consentiva loro di esercitare la professione all’interno del proprio studio privato. I guariti da COVID-19 vivono un’analoga situazione paradossale.

[4] Altra ambiguità a cui certa decretazione ci espone è la seguente: può convivere all’interno della stessa istituzione il mandato di controllo e il mandato di tutela?

[5] Per un ulteriore chiarimento di cosa si intenda per senso plurale della condizione umana si rimanda al testo di Arendt “Vita Activa” (1958).

[6] Data l’importanza del D.L. 44/21 e delle sue ricadute sulla vita personale e professionale dei colleghi iscritti, siamo certi che i rappresentanti del nostro Ordine siano a conoscenza delle innumerevoli sentenze dei TAR italiani riguardo al profilo di incostituzionalità del decreto.

[7] La sospensione dall’Ordine è il penultimo provvedimento disciplinare in ordine di gravità.

[8] In contrasto, per altro, con gli articoli 3, 4, 32, 33, 34 e 97 della Costituzione Italiana.

[9] Così il senatore Alberto Bagnai nell’interrogazione al Ministro della Salute del 1 aprile 2022: “il consiglio di giustizia amministrativa della Regione Sicilia, nella sua ordinanza n. 351 del 2022, cita espressamente «la inadeguatezza della farmacovigilanza attiva e passiva» fra i motivi di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 del decreto-legge n. 44 del 2021, nella parte in cui questo prevede l’obbligo vaccinale per il personale sanitario. Questo perché, secondo la Corte costituzionale, l’obbligatorietà di un vaccino è legittima solo se, tra l’altro, si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute del paziente, fatte salve le conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili. Ma in assenza di una farmacovigilanza adeguata, questa valutazione è in re ipsa preclusa. […] il tema del bilanciamento tra il diritto alla salute e quello al lavoro è oggetto di un numero crescente di ordinanze dei TAR, che deprecano la logica ricattatoria sottostante al decreto-legge n. 44 del 2021 […] schierandosi, i tribunali, a difesa dell’articolo 1 della Costituzione”.

[10] Il termine “ambiguità” fa riferimento alla teorizzazione di Bleger e alla tradizione della Scuola Psicoanalitica Argentina.

[11] “Il non saperci fare con il linguaggio è un segno di disinvestimento nella lingua pubblica” (Pigozzi, 2019, p. 168). “Chiamare le cose con il loro nome” significa poter andare al fondo delle conseguenze estreme di una propria posizione e potersene prendere consapevolmente la responsabilità.

[12] “C’è gente che ha fatto una scelta che la mette fuori dalla comunità” (Myrta Merlino, “L’Aria che tira”, puntata del 6 dicembre 2021). Con questa frase la giornalista fa eco a diverse dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi. Si veda inoltre, più avanti, il paragrafo sul capro espiatorio.

[13] “L’Appropriarsi del mondo è un appropriarsi di se stessi, la presa di posizione verso l’esterno è una presa di posizione verso l’interno, e il compito posto all’Uomo […] è sempre un compito oggettivo da padroneggiarsi verso l’esterno, quanto anche un compito verso se stesso. L’Uomo non vive, bensì conduce la sua vita  (Gehlen, 1940, pag. 78).

[14] Segnaliamo anche come certi alti ideali rischiano di creare forme di “sparizione di sé” e di “biancore” (Le Breton, 2016).

[15] Oltre ai già menzionati procedimenti relativi ai profili di costituzionalità delle normative italiane, questo Ordine sarà altresì adeguatamente informato sulla legislazione europea e internazionale rispetto alla somministrazione coatta di farmaci sperimentali (Oviedo,1997; Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, (2000/C 364/01); UNESCO, 2005; Lisbona, 2009; Regolamento UE nr. 953/2021).

[16] La legge 56/89 istituisce gli Ordini Psicologici e regolamenta l’esercizio dell’attività psicoterapeutica. All’interno dei diversi Ordini Regionali e Provinciali confluiscono una serie di professionisti che erano già rappresentati da associazioni e società scientifiche. L’obiettivo principale della legge era quello di tutelare i cittadini da eventuali abusi o da prestazioni senza garanzie. I provvedimenti disciplinari sono regolamentati dagli articoli 12, 26 e 27. L’art. 26 prevede le sanzioni disciplinari per gli iscritti che si rendano colpevoli “di abuso o mancanza nell’esercizio della professione o comunque si comporti in modo non conforme alla dignità e al decoro professionale”. A seconda della gravità sono previste tutta una serie di sanzioni disciplinari che vanno dal semplice avvertimento alla radiazione. La sospensione è la penultima in termini di gravità. La sospensione per mancata vaccinazione, però, non trova riscontro né all’interno del nostro Codice Deontologico né nella stessa legge.

[17] Cfr. Ordinanza CGA Regione Sicilia del 17 marzo 2022.

[18] Alcuni esempi delle questioni più controverse sono i test PCR (dichiarati non diagnostici da più di una istituzione medico scientifica e nonostante ciò, nella maggior parte dei casi, condizione sufficiente per diagnosi di COVID-19), l’utilizzo delle mascherine e l’imposizione dei lockdown.

[19] Tale presunzione ha delle importanti ricadute sulla nostra pratica, ad esempio, preventiva. Per Sala (2009) sarebbe più corretto definire preventiva qualsiasi azione che abbia come obiettivo primario l’attenzione all’ambiente e un discorso politico di riorganizzazione e di sviluppo non solo economico. Al contrario la prevenzione primaria intesa come realizzazione di programmi su vasta scala può essere più correttamente intesa come diagnosi precoce. Una pratica preventiva volta all’individuazione della malattia ove ancora non è manifesta rischia di creare delle nuove figure di malati: pre-malati (soggetti a rischio), forse-malati (individui predisposti), sani preoccupati (che si credono o sono indotti a credersi malati). Il graduale disinteresse per l’attenzione all’ambiente, infatti, fa sì che la malattia, così come il rischio di malattia, diventi responsabilità del singolo (che spesso si muta nella colpevolizzazione). L’eccessiva spinta alla predizione clinica, quindi, deresponsabilizza sia la politica tout court che la politica professionale, e ribalta la socializzazione della medicina in una crescente e invadente medicalizzazione della società.

[20] Ne L’età dello smarrimento Bollas (2018) riflette su come l’operazionalismo scientifico sia con il tempo diventato un dispositivo per eliminare la differenza e modellare un mondo di esseri umani indistinguibili. La paura che spesso i pazienti riferiscono in seduta è proprio quella di essere diversi: “non la pensano tutti come la penso io?”, chiedono in cerca di una rassicurazione.

[21] In quanto “erogatore di servizi”, il professionista psicologo viene appiattito dentro una logica consumistica, in cui sia il cliente che l’erogatore sono facilmente sostituibili.

[22] Diversi ricercatori hanno indagato presunte problematiche psicopatologiche dei cosiddetti “no vax”, senza mai articolare la descrizione del contesto storico, culturale e relazionale, e postulando a priori il disagio, sempre precedente e mai conseguente alle somministrazioni. Tralasciamo in questa sede le considerazioni epistemologiche e metodologiche sulla validità di tali ricerche e le osservazioni sulle responsabilità etiche di tali ricercatori, che pure sarebbero doverose.

[23] Il silenzio compiacente nei confronti di chi veniva escluso dalla vita lavorativa e sociale ne è testimonianza. Probabilmente, nei confronti di qualsiasi altra minoranza, ciò avrebbe provocato scalpore e sdegno.

[24] Si è giunti a tacciare di negazionismo chiunque si faccia domande sul virus, sui dati scientifici che hanno permesso di identificarlo e distinguerlo da altri coronavirus, o sulla validità dei test diagnostici per rilevarne la presenza nella popolazione, anche quando tali domande vengano avanzate da voci autorevoli e titolate. Il termine scelto, per di più, svolge la funzione di affibbiare tout court, a chiunque si intesti tali questioni, un giudizio simile a quello destinato al negazionismo dell’Olocausto, di fare cioè un “uso spregiudicato e ideologizzato di uno scetticismo […] portato all’estremo” (https://www.treccani.it/enciclopedia/negazionismo), e pertanto da stigmatizzare radicalmente senza ulteriori approfondimenti.

Si noti analogamente, come in tutto il mondo ogni sguardo critico rispetto alla gestione sanitaria e politica o anche ogni domanda sull’origine naturale o ingegnerizzata del virus, siano stati sovente tacciati sommariamente del termine dispregiativo complottismo.

[25] Ricordiamo per onere di cronaca, alcune esternazioni che personaggi pubblici hanno reso su canali social e di stampa: Fosse per me costruirei anche camere a gas; Campi di sterminio per chi non si vaccina; Verranno chiusi in casa come sorci… Lockdown solo per i novax; Caccia ai novax… Staniamo i novax…; I rider devono sputare nel loro cibo; Mi divertirei a vedere i no vax morire come mosche; Madonna come vorrei un virus che ti mangia gli organi in dieci minuti riducendoti a una poltiglia verdastra che sta in un bicchiere per vedere quanti inflessibili no-vax restano al mondo; I cani possono sempre entrare, solo voi come è giusto rimarrete fuori; …il COVID mi ha cambiato. Provo un pesante odio verso i no vax con cui al momento non ho voglia di dialogare, ma al massimo di stirarli in auto.

[26] Si rammenti la grottesca ridicolizzazione fatta dal Fiorello sul palco di Sanremo, che raccoglieva la banalizzazione corrente secondo cui “i no vax temono che il vaccino li trasformi in antenne 5G”.

[27] In questo senso, le persone sono entità viventi che non posseggono caratteristiche umane e sono paragonate a conigli, ratti, topi, parassiti. Proprio per questo, le persone percepite come capri espiatori sono percepite come oggetti di cui disfarsi.

[28] E che per il loro comportamento rischiano di disperdere il contributo prodotto dai fratelli maggiori, responsabili e coscienziosi nel risolvere la situazione.

[29] Non siamo a favore della sospensione del dipendente pubblico, ma segnaliamo la forte discriminazione all’interno della norma tra un dipendente pubblico e il libero professionista.

[30] Ricordiamo che la salute non può mai essere considerata solo ed esclusivamente nell’accezione medica, prescindendo dalla soggettività dell’individuo, dai suoi valori, dalle sue paure, dalle sue convinzioni e dalla sua idea di salute e di atteggiamento nei confronti della morte.

[31] Era solo il 2009, molti anni prima della legge 3/18, quando Sala evidenziava che “fare psicologia per la sanità significa anche costruire un’occasione per ripensare i rapporti tra medicina e psicologia” (p. 138).

[32] Tutti gli psicologi iscritti all’Ordine hanno il vincolo del rispetto del Codice Deontologico: il vincolo riguarda anche chi ricopre cariche istituzionali. “I rapporti fra gli psicologi devono ispirarsi al principio del rispetto reciproco, della lealtà e della colleganza. Lo psicologo appoggia e sostiene i Colleghi che, nell’ambito della propria attività, quale che sia la natura del loro rapporto di lavoro e la loro posizione gerarchica, vedano compromessa la loro autonomia ed il rispetto delle norme deontologiche” (art. 33). Riteniamo che la minaccia della sospensione, così come la sospensione stessa, siano in contrasto con molti principi del nostro Codice Deontologico, per primo quello sull’impegno alla colleganza.

[33] La ratio della legislazione sul green pass è obbligare surrettiziamente le persone a vaccinarsi.

[34] Si evidenzia anche come alcuni passaggi della legge possano essere in chiaro contrasto con gli articoli 3, 4, e 6 del Codice Deontologico.

[35] Molte delle comunicazioni ufficiali hanno trattato in modo alquanto sbrigativo ed incompleto l’art. 32, lasciando fuori il periodo sulla tutela della dignità umana. Per il suo impatto etico, si potrebbe perfino sostenere che esso potrebbe diventare un articolo di indirizzo per tutte le professioni sanitarie e socio-sanitarie.

[36] Inoltre, per legge, la vaccinazione dovrebbe essere subordinata ad una prescrizione, eventualità che è sempre stata disattesa nel corso della campagna vaccinale. Abbiamo avuto modo di assistere invece all’odissea di professionisti che si sono visti negare dal proprio Medico di Medicina Generale la certificazione che gli avrebbe consentito, per lo meno in via privata, di eseguire gli esami utili a rintracciare eventuali situazioni di rischio.

[37] Cfr. Ordinanza del Consiglio Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia del 17.03.2022.

[38] Ribadiamo, in nota, come il “rispetto della legge” preveda il rispetto di tutte le leggi che abbiano valenza giuridica all’interno del territorio italiano, da quelle costituzionali ai diversi trattati e convenzioni internazionali.

[39] Lo stesso David Lazzari – Presidente del CNOP – in una recente intervista, a seguito dell’evidente aumento di casi di suicidio a causa della pandemia (noi diremmo della gestione della situazione epidemica) parla della creazione di una task force per la prevenzione degli stessi. La perdita del lavoro connessa all’introduzione del green pass e all’obbligo vaccinale è un dramma che nell’articolo viene segnalato come problema prioritario. Dice Lazzari: “Qualche anno fa ci fu l’impennata di suicidi tra i piccoli imprenditori, ed allora si rese necessario intervenire con politiche appropriate. Oggi noi temiamo che ci sia una recrudescenza di questo genere”. Noi teniamo a precisare che anche uno psicologo soggetto a obbligo vaccinale (con conseguente perdita di lavoro a seguito di una sospensione) possa ritenersi a rischio di sviluppare un malessere così consistente.

[40] Numerose ricerche scientifiche supportano certe affermazioni (https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(21)00768-4/fulltext).

[41] “Niente” è un romanzo scritto da Teller nel 2000. Si racconta di un gruppo di compagni alle prese con la ricerca drammatica di un senso, di adulti sempre più disimpegnati nella costruzione di un’etica intersoggettiva fondata e ancorata nella relazione: il precipitare del senso nella pura funzione di qualcosa (Byung-Chul Han, 2017) aliena le persone dalla possibilità stessa di narrare la propria storia, di sviluppare uno sguardo interno, di creare distinzione e di prendere posizione.

[42] Ricordiamo che il DL 24/22 ha stabilito l’obbligo di vaccinazione per i sanitari fino al 31.12.2022. La legge, così, rischia di creare un ulteriore precedente: secondo la legge 56/89 il provvedimento disciplinare della sospensione non può mai essere superiore ad un anno. Essendovi colleghi sospesi già con il DL 44/21, rischiamo di trovarci davanti a sospensioni che possono superare l’annualità senza che nessun rappresentante istituzionale si stia occupando di questa incongruenza.