Il breve racconto di Monica ci immerge nelle atmosfere “antiche”, che sanno di origini e di casa.
Chiunque abbia vissuto quegli anni se ne ricorderà.
Sembra di essere stati trascinati dentro i ricordi di Monica, come Harry Potter – tramite il Pensatoio – dentro i ricordi di Silente.
Sembra quasi di essere lì insieme a lei, nella sua cucina, che poi è anche un po’ la nostra, insieme a sua madre, che poi somiglia anche un po’ alla nostra.
Inoltre, come non riconoscere la presenza di una Tedesca nell’infanzia di ognuno di noi?
È un racconto di altri tempi, quando una varicella era solo una “camurria” per gli adulti e una “festa” per i bambini, quando i rimedi della nonna erano ascoltati quasi con la stessa sacralità con la quale si richiedeva un consulto al proprio medico di famiglia.
Il racconto, grazie all’espediente della “malattia” di “gruppo”, ci fa riattraversare l’infanzia di chi è cresciuto durante il periodo di ufo robot o candy candy. Quando per potere parlare con un’amica era necessaria una prolunga del telefono talmente lunga che si sarebbe perfino potuto cambiare residenza.
Tempi, forse, non troppo antichi ma che ci parlano di un mondo non ancora travolto dalla velocità, da internet e dalla smania, tutta moderna, di un mondo “smart” e sterilizzato a dovere. __________________________________
Quando ero piccola, d’estate, io e la famiglia del fratello di mia madre, ci trasferivamo in una casa al mare.
E così cominciavano, subito dopo la fine della scuola, quelle che definisco le estati più belle della mia infanzia.
A parte il fatto che l’estate cominciava il 10 giugno e finiva il 10 settembre; le giornate erano lunghissime e fatte di un senso di libertà che era tipico non soltanto della stagione, ma proprio di un piccolo paese di provincia sul mare.
Qui potevi giocare per strada, parlare con tutti e andare a comprare il pane da solo.
A Terrasini, d’estate, i turisti come noi erano “i forestieri”.
Da un lato agognati e desiderati, dall’altro temuti, odiati e anche un po’ invidiati.
Abitavamo in una piccola casa di pescatori, proprio a ridosso delle spiagge e del porticciolo.
Eravamo quattro adulti – i mie genitori e i miei zii – e quattro bambini: io, mia sorella minore Renata, mia cugina Federica (la maggiore) e mio cugino Nino (u masculu ra casa).
Le nostre due famiglie diventavano una, ma tutto si moltiplicava: le madri, i padri, i fratelli, gli amici, i posti a tavola… l’amore e le cazziate!
I papà se ne andavano la mattina a lavoro e tornavano a casa il pomeriggio, e noi restavamo con le mamme.
Mamme tipiche degli anni Ottanta. Originali e riconosciute come categoria protetta.
Uno di questi anni, in una di queste mattine assolate in cui ci apprestavamo ad andare al mare, mio cugino Nino si svegliò un poco dolorante.
Babba, bi sendo maleee
Era sudaticcio e aveva delle piccole pustoline rosse in tutto il corpo.
Mia zia, con la delicatezza che la contraddistingueva e l’empatia che solo una mamma degli anni Ottanta aveva in dotazione, lo guardò e gli mise la mano in fronte.
Sì perché, a quei tempi, la mano di una mamma era più precisa del miglior termometro laser dei nostri giorni.
Con aria seccata e scostante gli disse:
E continuò a preparare le fette di pane e marmellata, che erano la nostra tipica colazione da leoni prima di andare a mare.
Noi tre femminelle, continuavamo a guardare il tutto, tra la curiosità e la solita fame della mattina.
Varicella? e che è?
“Una malattia” – rispose mia zia, in modo secco e senza ulteriori spiegazioni.
E continuò mezza incazzata:
ancora là state? vedete di coricarvi tutti e quattro assieme nel letto, e state belli appiccicati, mi raccomando, strusciatevi più che potete, allittatevi, fate quello che volete, basta che vi ammalate tutti.
Tutti e tutti assieme!
A quei tempi non era in nessun modo pensabile che un bambino potesse replicare a un adulto, ma in realtà neppure lo mettevamo in conto.
Gli ordini di zia – detta La Tedesca – e della mamma, non si potevano assolutamente mettere in discussione.
E fu così che, dopo pochi giorni, la casa dei pescatori pullulava di quattro ragazzini pustolosi e in mutande.
La gestione di questa pandemia in casa Perricone/Di Giovanni avvenne con regole precise e chiare, decise dai grandi in modo indiscusso.
L’organizzazione fu garantita in questo modo: i bambini stavano a casa, prendevano le medicine e si arrangiavano come volevano nella gestione del tempo libero. L’importante che non rompessero le palle ai grandi e non uscissero di casa; i papà continuavano ad andare a lavoro e le mamme, la mattina, ci organizzavano la colazione e se ne andavano come al solito al mare, fino ad ora di pranzo.
Non appena sentivamo la porta chiudersi al piano di sotto, indicando l’assenza completa di persone adulte, cominciava la nostra festa.
I giochi preferiti erano tre: il concerto, l’ospedale e l’affacciata.
Strumenti necessari: una mappina, una spazzola, le mutande, un letto e noi stessi.
Protagonista indiscussa del concerto era mia sorella Renata.
Quell’anno mio padre decise che ci avrebbe tagliato i capelli “a cozzolone”, vale a dire corti fino alla nuca, il cozzo appunto. Mia sorella questa cosa non l’ha mai digerita (veramente glielo rinfaccia ancora adesso) ma ovviamente la nostra opinione non contava una mazza.
Era per questo motivo (che oggi posso definire uno dei suoi primi traumi infantili) che nacque il concerto.
Noi tre – io, mia cugina Federica e Nino – ci mettevamo seduti per terra ai piedi del letto e aspettavamo impazienti, quasi in fibrillazione, così come quando aspetti che esca la star del tuo primo concerto live.
A un certo punto una voce fuori campo annunciava il suo arrivo, e dal backstage della cucina arrivava lei, la cantante pop. Saltava sul letto, che aveva una funzione di palco, rigorosamente in mutande e con una mappina in testa, tenuta ferma da un cerchietto di plastica, una spazzola o un cucchiaio di legno in mano, cominciava a dimenarsi come una invasata, degna seguace di Simon Le Bon e Madonna, cantando in quella lingua ormai estinta che solo i bambini degli anni Ottanta conoscono: lo bambinglisc.
Oggi nessun bambino al di sopra dei tre anni purtroppo la parla più, sostituita da un inglese perfetto, frutto di lezioni private da insegnante rigorosamente madrelingua e ascoltate sin dal ventre materno. Ma assicuro ai lettori al di sotto dei 35 anni di età che era molto usata e alquanto folkloristica.
Capitava poi che, mentre giocavamo spensierati oppure non facevamo un bel niente, mio cugino Nino, che in effetti era quello che si era beccato il virus in modo più aggressivo, avesse dei momenti di malessere.
Allora io, mia sorella e mia cugina diventavamo delle super infermiere, un misto tra Candy candy e Madre Teresa di Calcutta. E noi lì ad asciugare il sudore, impedirgli di grattarsi, proporgli bevande o merende succulente.
E poi, ogni tanto, ma solo io e Federica eravamo abilitate perché più grandi, ci affacciamo dal terrazzo, sperando di intravedere qualche amico o conoscente passare da sotto. Cosa che capitava spesso:
Ogni tanto, qualche minchiata accadeva.
Che ne so, una volta ho rotto la bottiglia dell’anice Tutone (perché io sono sempre stata maldestra) e allora, dall’alto dei miei sette anni, decisi che nessuno dei grandi avrebbe dovuto saperlo.
Mi misi a pulire tutto e, racimolando tutti gli spicci che trovai in casa, andai a comprare una bottiglia nuova.
Immaginate quante trasgressioni in un colpo solo: rottura bottiglia, latrocinio di pìccioli, trasgressione della regola di stare a casa (la più grave).
Peccato che La Tedesca, entrando a casa, sentì subito il forte odore di anice e, senza neppure fiatare, si voltò verso mia sorella e mia cugina, le più panzalenta.
Sempre senza proferire parola, le guardò ancora più minacciosa. E fu così che loro sbottarono.
Fui gravemente punita. Certo, perché negli anni Ottanta non è che se stavi male eri esonerato dalle cazziate; se facevi una minchiata era sempre una minchiata!
Era una questione di coerenza.
Così tra una febbricola, una merenda, un concerto e qualche cazziatone, passarono due settimane buone.
Quello fu il momento in cui La Tedesca e mia madre, decisero che ormai stavamo bene e che già avevamo perso troppo tempo a fare i malati e che stavamo diventando verdi senza prendere il sole che ci spettava di diritto.
Così fu dichiarata la fine del lockdown.
Quella prima mattina dopo la quarantena, mia madre mi lanciò il costume che dovevo mettere e, come se stesse dicendo la cosa più normale del mondo:
Io restai in silenzio; mi misi il costume… e piano piano uscì dalla persiana di casa.
Mi ricordo ancora quella sensazione, mi sentivo libera, sana, più forte e senza dubbio invincibile.
Perché se ti veniva la varicella, negli anni Ottanta, eri quasi invidiato dagli altri, adulti e bambini, e adesso sapevo pure perché.
Perché da quel momento in poi eri invincibile così, come un supereroe, e se nel quartiere qualcuno aveva la varicella, tu te la ridevi sotto i baffi, camminavi tronfio di orgoglio e ti sentivi la persona più forte del mondo.
E in effetti un po’ lo eri: eri più grande, pieno di armi batteriologiche chiamate anticorpi e ricco in esperienza, e con una sensazione di invincibilità e sicurezza che avrebbe gettato le basi per affrontare tutte le avversità future…
A mia mamma e alla Tedesca, con affetto.