Categoria: Politiche professionali

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Incontro Nazionale: Identità, rete, pensiero critico

Dalle perplessità critiche sulla gestione della salute nel tempo dell’emergenza Covid-19, alla gestione della campagna vaccinale; dalla valutazione sui rischi di un concetto di salute sempre più identificato con un sapere dogmatico e tecnocratico, incurante dell’unicità della persona fino alle continue richieste, quasi sempre negate, di partecipazione politica come cittadini e professionisti alle scelte culturali e di indirizzo degli organi dirigenziali (governativi e ordinistici).

Da tutto questo sono nati gruppi sempre più ampi come l’Associazione #DallaStessaParte, il Comitato Nazionale Psicologi, Sinergetica, il gruppo de Il No che unisce, Contiamo-Ci, etc.
Uomini e donne, professionisti e cittadini, che negli anni hanno elaborato pensieri e azioni di dibattito e di critica, hanno dato origine a movimenti aggregativi spontanei di riaffermazione di bisogni fondamentali e di diritti universali che fondano e sostengono il vivere in comune.
Alcuni gruppi si sono formalizzati all’interno di categorie previste dall’assetto normativo italiano, altri hanno preferito restare movimenti informali.
In questi anni, hanno lavorato in autonomia o in rete, spesso con obiettivi comuni, altre volte con obiettivi differenti, con modalità e strategie simili o diverse, ma certamente legati dal riconoscimento del valore di ognuno e della preziosità di tutte le azioni.

Da tali premesse nasce l’idea dell’Incontro Nazionale: Identità, rete, pensiero critico. Un grande momento di incontro tra persone che dialogano, che ragionano su se stesse e su temi di rilievo, con il desiderio condiviso di favorire un processo culturale di scambio reciproco e la creazione di legami relazionali solidi.

L’OBIETTIVO prioritario sarà quello di INCONTRARSI, CONOSCERSI e RACCONTARSI per:
– restituire a noi stessi e a chi partecipa le nostre storie ed il loro significato;
– sviluppare un processo di cultura di gruppo e di rete;
– aumentare il livello di gioia, propositività e di fiducia reciproca.

L’incontro è rivolto ai componenti delle organizzazioni coinvolte o che gravitano attorno ad esse (referenti, soci, simpatizzanti, etc.). Gruppi di interesse: #DallaStessaParte, Sinergetica, Consulta degli Psicologi Contiamo-Ci, Comitato Nazionale Psicologi, Il No che unisce, gruppo Regione Marche Interlocuzione.

Per informazioni: info@dallastessaparte.com

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Dalla parte della Psicologia: la pratica clinica si apre al confronto attraverso il racconto di terapeuti esperti

Gli psicoterapeuti che animano l’associazione #dallastessaparte provengono da ambiti di formazione molteplici.

Per questo motivo le supervisioni sono una delle attività più interessanti che propone l’associazione: un preziosissimo confronto tra professionisti di grande esperienza che adoperano differenti modelli teorici e di intervento clinico.
Nelle nostre riunioni, che si svolgono regolarmente ogni mese da più di due anni, abbiamo sviluppato una rete di lavoro e solidarietà che ha prodotto piacevoli evoluzioni.

Una di queste è il ciclo di appuntamenti che abbiamo voluto chiamare “Dalla parte della Psicologia: la pratica clinica si apre al confronto attraverso il racconto di terapeuti esperti”.

Seguendo il Progetto e lo Statuto dell’Associazione abbiamo immaginato di realizzare tre incontri tra allievi in formazione e psicoterapeuti esperti, in cui inizieremo a ragionare insieme su alcuni aspetti essenziali della pratica clinica, a partire dal racconto di ciò che realmente accade nella stanza di psicoterapia.

Gli incontri avranno luogo il venerdì dalle 17.00 alle 19.30, nella sede di via dell’Artigliere n. 6 a Palermo.

Il 31 maggio ci occuperemo del colloquio clinico.
Il 14 giugno ci dedicheremo a valutazione e psicodiagnosi.
Il 28 giugno proveremo a raccontare l’esperienza clinica.

La partecipazione è gratuita, e aperta a studenti di psicologia e allievi delle scuole di specializzazione.

È necessario comunicare la propria adesione inviando una mail all’indirizzo info@dallastessaparte.it oppure telefonando al numero 3284787228.

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Ad Agrigento: Lo spietato repertorio della contemporaneità

Sabato prossimo 14 ottobre 2023 ci vediamo ad Agrigento!

Inizieremo con la presentazione del libro “Lo spietato repertorio della contemporaneità. Verso una normopatia sociopatica” e avvieremo un piacevole confronto con l’Autore Gabriele Mignosi e i soci #dallastessaparte.

Sarà l’occasione per conoscerci, e per ragionare insieme sulla funzione che la Psicologia sta assumendo nella società contemporanea.

Ci vediamo sabato alle 17, all’Hotel Tre Torri di Agrigento, in via Cannatello 7.

Qui sotto trovi la locandina dell’evento, se vuoi puoi condividerla con i colleghi che pensi siano interessati.

Per iscriverti e per ricevere informazioni sulle attività dell’associazione #dallastessaparte puoi utilizzare questo modulo.

locandina Agrigento
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Convegno #dallastessaparte sulla proposta di revisione del Codice Deontologico

Sabato 16 settembre ti invitiamo al convegno organizzato dall’associazione #dallastessaparte per discutere insieme sulla proposta di revisione del nostro Codice Deontologico.

Codice Deontologico delle Psicologhe e degli Psicologi: verso quale revisione?

Il referendum si svolgerà online dal 21 al 25 settembre 2023.

Ci sembra doveroso organizzare prima un momento di informazione e dibattito su questioni davvero importanti, che riguardano tutti noi.

Nel frattempo ti invitiamo a leggere tutti gli articoli del nostro blog (lo Scrittoio), in particolare l’ultimo articolo appena pubblicato da Roberta Campo, che individua alcuni dei temi più delicati.

Considerata la particolare rilevanza della questione, ti chiediamo di pubblicizzare l’evento a tutti i colleghi che potrebbero essere interessati.

Qui trovi la locandina dell’evento che si svolgerà a Palermo, presso la Casa dei Sogni, in via Mura di San Vito n. 10 (dietro il teatro Massimo).

Se vuoi partecipare, iscriviti da questa pagina: https://www.dallastessaparte.it/iscrizione-convegno/

Ci vediamo presto.

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La revisione del Codice Deontologico: una riflessione critica

La proposta di revisione del nostro Codice Deontologico, approvata dal Consiglio Nazionale dell’Ordine ad aprile di quest’anno e resa pubblica il 21 del mese di giugno, si trova adesso prossima al giudizio referendario, che avrà luogo dal 21 al 25 settembre 2023, con modalità di voto online.

La nostra collega e socia Roberta Campo, con la passione e la raffinata capacità di analisi che le sono proprie, ci offre alcune riflessioni maturate in questi mesi estivi sulla proposta di revisione. Si addentra nell’architettura dell’impianto della proposta deontologica, ci restituisce la cornice di contesto entro cui si sviluppa, ne chiarisce la struttura, individuandone i pilastri portanti e segnalandoci anche alcune assi pericolanti.

La comunità degli psicologi italiani è chiamata al referendario e dicotomico esprimersi per un sì o per un no su questioni davvero ampie, che richiedono un grande tempo di elaborazione e un dibattito congruo, per le conseguenze che hanno sul ruolo e sull’agire professionali.

Ed è a tal fine che vi invitiamo calorosamente, dunque, a leggere e studiare insieme a noi la proposta di revisione attraverso l’articolo di Roberta, a condividere con noi le vostre riflessioni.

E a partecipare al convegno che stiamo organizzando per sabato 16 settembre a Palermo, sul quale daremo presto tutti i dettagli.

Il 28 Aprile del 2023 con deliberazione n. 14 il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) approva all’unanimità la proposta di revisione del “Codice Deontologico delle psicologhe e degli psicologi”.

Il passaggio successivo, così come istituito dalla legge 56/89, sarà il giudizio referendario, previsto per metà settembre. Se dovesse essere approvata, la proposta entrerebbe in vigore e sarà vincolante per tutti gli iscritti agli Ordini e sarà la base a partire dalla quale avverranno tutte le successive modifiche.  

Prima di entrare nel merito della revisione del Codice Deontologico mi sembra opportuno fare alcune premesse che possono aiutarmi a inquadrare lo specifico taglio di lettura attraverso cui ho analizzato alcune delle attuali proposte di modifica. È chiaro che non debbano necessariamente essere condivise, o condivise in toto: credo piuttosto che possano servire per avviare futuri dibattiti rispetto al dove vogliamo andare come psicologi.

L’articolo non vuole essere esaustivo di tutte le revisioni intervenute sul codice, ma si propone come una riflessione in merito a quei cambiamenti di carattere etico/deontologico che vanno verso una progressiva professionalizzazione e sanitarizzazione. Di questo processo dovremmo essere ben consapevoli, perché sta cambiando dall’interno la nostra pratica professionale.

Il Codice Deontologico fa parte di quella disciplina giuridica che si chiama diritto disciplinare e in virtù di questa specificità occupa una precisa posizione nella gerarchia delle fonti del diritto (e a quelle si deve potere ispirare).

Il codice, quindi, non è solo una bussola per la “migliore regola deontologica”, ma è prima di tutto un “dovere, declinato in termini giuridici, per consentire l’applicazione di un’espressa sanzione in caso di violazione” (Parmentola, 2018, p. 39), “costringendo” il professionista al rispetto della norma ivi prescritta.

Perché la revisione del Codice deontologico?

La revisione del Codice Deontologico è un atto dovuto dal CNOP, così come definito dal legislatore con la legge 56/89. L’attuale revisione, quindi, non è un fatto straordinario, ma un compito specifico: la legge prevede che ogni nuovo consiglio dell’Ordine possa monitorare l’eventuale necessità di aggiornamenti nel Codice per intervenuti cambiamenti legislativi, normativi e scientifici, o per un diverso sentire comune all’interno della comunità professionale.

Probabilmente sarebbe stato auspicabile un coinvolgimento maggiore della comunità di colleghi ma, dal mio punto di vista, il “prodotto” finale sarebbe cambiato poco: la revisione è stata presentata come un puro atto tecnico, “formale” e neutro, di adeguamento all’ordinamento giuridico. 

Se, però, è un atto dovuto revisionare il codice, altrettanto dovuta sarebbe stata una riflessione a vertice epistemologico su come l’ordinamento giuridico, la tecnologia e la cultura della cura possano di volta in volta “cambiare” e trasformare gli oggetti e i soggetti della psicologia (Parmentola, 2023). Sarebbe stato quantomeno opportuno avviare un pensiero su come i cambiamenti normativi, culturali e tecnologici stanno “ri-ordinando” il nostro modo di fare comunità, e comunità professionale. 

Non posso fare a meno di notare il “silenzio” generale, l’assenza di dibattito all’interno dei nostri Ordini regionali a fronte di un evento così importante come la revisione di un Codice Deontologico.

Il rispetto formale delle “regole del gioco” può, da sé, garantire la bontà di questa revisione del Codice?

Il rispetto delle “regole” può essere visto, a mio avviso, come una sorta di “peccato originale” che attraversa l’intero articolato: questa revisione sembra essere, infatti, figlia di quella cultura legalista (fatta di consensi informati, di protocolli e di buone prassi) che vede nei regolamenti, sovradeterminati e nel rispetto delle regole, la garanzia etica al principio di legittimità.

Così, fare le cose “da regolamento” (secondo la legge), seguire i vari protocolli stilati dal CNOP nei diversi ambiti (uno per tutti il protocollo MIUR-CNOP), adeguarsi alle buone prassi, considerare solo la medicina evidence-based, fa dello psicologo non solo una brava persona ma anche un buon professionista.

Ma la legalità, ed è questo il punto su cui proverò a concentrarmi nel corso di questo lavoro, può davvero sostituire la riflessione sul principio di legittimità di qualcosa?

Il primo cambiamento riguarda l’adeguamento, tecnicamente corretto, al linguaggio di genere. Abbiamo così “Il Codice Deontologico delle psicologhe e degli psicologi” e la sostituzione del termine soggetto con il più neutro e adattabile termine di “persona”.
La revisione adegua il lessico anche alla legge sulla responsabilità genitoriale (D.Lgs. 154/2013) e introduce l’attenzione all’ambiente come vincolo etico.

Le revisioni più significative, però, riguardano l’adeguamento del codice alla logica sanitaria così come previsto delle leggi 219/17 sul consenso informato e 3/18 sul riordino delle professioni sanitarie. Leggi che si sostengono a vicenda e animano il nuovo ethos professionale sanitario fondato sulla sussidiarietà e sulla salute come tema universale (Lazzari, 2022)).

Da una prima lettura sembrerebbe che il senso generale dell’articolato rimanga più o meno inalterato; una lettura più attenta ci consegna, al contrario, una deontologia che sagoma il nuovo ruolo professionale dello psicologo all’interno del più complessivo Sistema Salute (Sala, 2009; Campo, 2022b).

Intendo per Sistema Salute quell’insieme di organizzazioni, istituzioni, risorse, persone e procedure necessarie ad assicurare e fornire servizi per il mantenimento e per la tutela della salute della popolazione. Il “prodotto” offerto da questi servizi (la salute) deve garantire degli specifici standard che possano consentire, tra le altre cose, il controllo di qualità. 

Le leggi 219/17 e la 3/18 avrebbero la funzione di garantire una maggiore tenuta del Sistema Salute (fatto di soglie di accesso, di giustizia distributiva, di esigibilità del diritto alla salute).
Il cambiamento del codice deontologico è ciò che permette di mettere a terra il processo immaginato nelle sedi deputate (Europa, Governo, vari Summit…), e deve potersi tradurre in comportamenti concreti che permettono di cambiare nella direzione in cui si desidera che si cambi, altrimenti l’operazione rischia di rimanere monca (Lorenzin, 2021). 

È innegabile l’importanza di una rete sanitaria per la salute della popolazione, ma sarebbe anche importante chiederci se la direzione verso la quale ci si sta chiedendo di andare implichi davvero un miglioramento nella tutela dell’utenza, dei professionisti e della comunità stessa.

Se da un lato è vero che non possiamo ignorare le leggi dello Stato né come cittadini né come professionisti, dall’altro è altrettanto vero che dovremmo continuare a mantenere uno sguardo critico sulle cose.

Un aspetto della psicologia, non tutta a dir la verità, con cui sono sempre stata a mio agio è il suo voler mantenere uno sguardo “non politicamente corretto” sulle cose, andando a guardare tra le pieghe dei processi.

Professioni, utilità e responsabilità sociale

La psicologia come professione ha un’origine relativamente recente: è la legge 56/89 a istituire per la prima volta gli Ordini a livello nazionale e regionale. 

La storia della nascita della psicologia come professione si accompagna a un cambiamento più generale nella sensibilità politica del tempo, in merito ai temi di “pertinenza” psicologica e di salute. 

La nascita degli Ordini è stata accolta da molti protagonisti e testimoni come una vittoria in quanto ciò avrebbe consentito un maggiore monopolio e una sistematizzazione delle conoscenze, dei metodi e delle tecniche psicologiche, di conseguenza, uno sviluppo più rapido e ordinato della professione.

Il Codice Deontologico divenne lo strumento principale per sagomare l’identità del professionista ideale (Calvi, 2020) da presentare alla società. 

L’ordine professionale è un Ente Pubblico che deve poter perseguire (e far perseguire ai professionisti) l’interesse pubblico: lo Stato delega in parte le proprie funzioni e per tale motivo esercita un controllo su come queste vengono rappresentate. Da parte sua, lo Stato si impegna a predisporre e mantenere strutture sociali di presa in carico e/o di prevenzione dei comportamenti a rischio, organizza e finanzia campagne di sensibilizzazione e di promozione di valori e di quei comportamenti utili alla stabilità sociale ed economica del Paese.

Riconoscere il valore sociale della tutela e del mantenimento della salute mentale tra la popolazione fa sì che sempre più la salute psicologica si qualifichi come questione pubblica, non più privata.

I nostri Ordini si assunsero fin da subito questo obiettivo tanto che nel nostro Codice Deontologico è ben espresso il concetto di responsabilità sociale dello psicologo. 

Gli anni a cavallo della nascita degli Ordini erano anni difficili; non si era ancora pienamente usciti dalla minaccia del terrorismo nostrano e le strade erano ancora macchiate dalla violenza mafiosa: lo psicologo poteva rivestire un ruolo determinante in quanto esperto delle interconnessioni tra salute psicologica e fatti sociali. Di fatto, l’expertise professionale poteva concorrere alla ripresa di un Paese in difficoltà, e al suo sviluppo morale, sociale ed economico. 

Proprio con la finalità pubblicistica dell’Ordine, però, si introduce un’asimmetria tra chi richiede un intervento e il professionista; vi è sicuramente la responsabilità del professionista all’interno della relazione, ma vi è anche una responsabilità davanti alla comunità politica e sociale.

Vediamo che significa.

Con la professionalizzazione del lavoro psicologico si è introdotto un terzo nella relazione clinica (Sala, op. cit.): il professionista inizia ad avere un committente non immediatamente visibile e a cui bisogna dare una risposta.

Sottratta all’ambito privatistico, la salute diventa qualcosa che può essere gestita solo grazie alla presenza di un professionista che di salute se ne intenda e che si faccia interprete di un lavoro che abbia finalità “civiche”.

Secondo D’Elia la funzione sociale dello psicologo si realizza ogni qualvolta riusciamo ad andare oltre al mandato privatistico con il cliente; significa sentire di ricevere una committenza, ogni volta che incontriamo qualcuno, “dalla società e dal disagio condiviso socialmente” (D’Elia, 2019). Questo è ciò che impedisce alla relazione professionale di essere un semplice incontro tra persone impegnate nel “prendersi cura della relazione”, e che permette allo psicologo di diventare interprete – all’interno del setting – della componente sociale.

Anche il professionista che lavori in ambito privato dovrebbe riuscire a mettere al centro il proprio mandato pubblico e sociale: la responsabilità sociale è quell’orientamento valoriale che fa sentire l’importanza del proprio contributo alla società, e che si dovrebbe qualificare nel motivare le persone a mettere in atto comportamenti civici e di alto spessore morale per il bene comune.

Detto altrimenti, con l’introduzione della finalità pubblicistica, il professionista ha iniziato a rintracciare obiettivi di lavoro che sono al di fuori della relazione con il paziente e che si configurano come aspetti morali che entrano nella relazione.

Perché, altrimenti, uno psicologo dovrebbe interessarsi a priori (cioè al di fuori della relazione) del fatto che un paziente non creda nell’emergenza climatica? Perché questa convinzione dovrebbe diventare oggetto di chi si occupa di salute mentale? Solo sulla base della propria responsabilità nei confronti della società: l’assunto sociale è che chi non crede nell’emergenza climatica sicuramente mette in atto comportamenti non civici, al limite della devianza, che denotano un cattivo funzionamento mentale.

Credo che – in quanto psicologi – sia importante poter questionare con la persona che abbiamo davanti, il proprio “non credere nell’emergenza climatica” (qualsiasi comunicazione ha valore nella relazione), ma credo anche che dobbiamo stare molto attenti a non considerare problemi di “salute mentale” alcune posizioni non conformi a livello sociale. Restituire alla persona il senso di un comportamento, o il senso di una certa comunicazione all’interno della relazione è molto diverso dal “trattare” o educare la persona al corretto comportamento civico.

Nessun professionista, oggi, potrebbe mai pensare che la relazione clinica si dispieghi in un vuoto sociale, ma diventare interpreti in questo modo della componente sociale sta portando a far diventare la nostra professione uno strumento di attivismo politico.

Il rischio insito nella funzione pubblicistica della professione introduce un nuovo rapporto di forze e di potere tra chi “cura” e chi “viene curato”; un rapporto che vede il primo favorito in quanto un soggetto terzo – lo Stato – interviene nella relazione e nella definizione stessa dell’oggetto di lavoro.

Nonostante da più parti venga sottolineata la funzione di responsabilità sociale, i professionisti hanno fatto fatica a uscire dall’ambito privato. La motivazione è stata rintracciata nell’insufficiente collocazione pubblica della professione.

L’attuale riforma sulle professioni sanitarie vuole, così, valorizzare proprio questa funzione sociale dei professionisti della salute, e quindi anche dello psicologo, potenziando e ridefinendo la collocazione pubblica delle professioni sanitarie. 

La recente legge 3/18, che riconosce agli Ordini la funzione sussidiaria dello Stato, tende a sagomare in maniera ancora più netta la figura di un professionista a tutela dell’ordine pubblico, del mantenimento del PIL e della tenuta stessa delle politiche governative (Lazzari, 2022). 

Averci istituito della funzione di Enti Sussidiari significa diventare garanti di un Bene definito a livello statale e aumentare in maniera ancora più significativa l’asimmetria nelle relazioni di “cura”.

Questo cambiamento normativo trova il proprio fondamento all’interno di una visione politico-economica che definisce la salute come Bene Meritorio.

I “beni meritori” sono una tipologia molto particolare di Bene che viene definito e amministrato dallo Stato. Esso si fa interprete della tutela della Salute, e in quanto tale ha il potere di regolamentare i comportamenti che ritiene indispensabili a tutela della popolazione (pensiamo al ruolo delle leggi che istituiscono fondi di finanziamento per specifici programmi di intervento o di promozione).

In questa accezione, non è importante che la popolazione senta l’importanza, il valore o il bisogno di un intervento. Lo Stato sa meglio dei propri cittadini cosa sia meglio per loro, in un’ottica paternalistica.

Lo Stato, grazie a una consulenza tecnico-scientifica, riesce a mappare i “bisogni di salute” e si intesta il compito di soddisfarli, a prescindere dal fatto che le persone sentano la necessità di quel bisogno specifico. Ciò che fa discrimine non è che la popolazione avverta in qualche modo quel bisogno, ma la valutazione politica del beneficio che se ne può trarre. È possibile così imporre una vaccinazione di massa per la tutela della salute, così come proibire un determinato comportamento (come il fumo nei luoghi pubblici). I cittadini e la popolazione possono non sentire né l’urgenza né l’importanza di un bene meritorio ma tutti devono provvedere al mantenimento di quel bene.

L’epidemiologia, fatta di algoritmi espressi in fattori di rischio e fattori di protezione, permette ai tecnici della salute di comprendere e definire i “bisogni di salute” e i “bisogni di psicologia” della popolazione; di predisporre, conseguenzialmente, programmi di prevenzione e promozione: imparare a riconoscere questi bisogni è il primo passo per stare in salute. 

Parlare di Salute in questi termini comporta inevitabilmente uno sbilanciamento della “cura di sé” dalla persona al professionista, in quanto la persona non può sapere mai, se non quando una malattia si manifesta, se è sano oppure no, se è asintomatico oppure no. Solo il professionista, in possesso delle conoscenze scientifiche e tecniche può valutare e indirizzare la persona verso le scelte decisionali più opportune rispetto al proprio “bisogno di salute”.

La salute, ricorda Sala (op. cit.), rischia di diventare una dichiarazione medica e non un “sentire” della persona, un sentire dal quale si rimane inesorabilmente lontani. È sempre più lontano il tempo in cui la persona era una “esperta di sé”, seppur in difficoltà.

È chiaro che, in questo sbilanciamento di competenze (e di potere), il professionista ha una responsabilità enorme: da qui deriva la richiesta di una maggiore professionalizzazione nei confronti di chi lavora nel campo sanitario.
Il lavoro sulla professionalizzazione della formazione e del professionista è un punto cardine di questo sistema: i professionisti devono garantire un range di competenze omogenee e standardizzate (certificate), ma soprattutto basate sulle “evidenze scientifiche”. 

Se lo Stato si intesta in maniera così totalizzante la tutela della salute, prioritaria diventa la definizione di protocolli che possano “certificare” la correttezza “formale” delle procedure e dei protocolli. 

Purtroppo, a mio avviso, stiamo pagando il privilegio “professionale” con una progressiva perdita di autonomia e libertà da parte dello psicologo.

La cultura psicologica del “professionista sanitario”

Fino a qualche tempo fa per “sanitario” si intendeva un ambito di applicazione del professionista psicologo. Con “sanitario” oggi si intende un processo di professionalizzazione che in maniera inequivocabile comporta, come abbiamo visto, uno sbilanciamento del potere che i professionisti hanno nei confronti dei propri clienti

Alla progressiva normazione del lavoro psicologico descritto nel paragrafo precedente, ha fatto eco, in questi ultimi anni in particolare, una “cultura” psicologica che fa della Salute Psicologica un fatto specialistico e tecnico (Lazzari, 2023). Credo, tuttavia, che dovremmo continuare a riflettere sul potenziale effetto dis-abilitante della gestione professionale e specialistica della salute mentale (Sala, 2009; Illich, 1977; Campo, 2022b).

Promuovere la cultura psicologica significa di fatto educare la popolazione a riconoscere quei “bisogni psicologici” che sono alla base di una “buona cura di sé”, al servizio del proprio benessere personale.

Ritorna però una domanda: cosa sono questi “bisogni psicologici”? da chi vengono espressi? su quale base? in virtù di cosa? è possibile ancora riflettere su cosa si intenda per bisogni psicologici al di fuori della scienza epidemiologica?

A me sembra che questi “bisogni psicologici”, di cui lo psicologo si intesta il soddisfacimento, siano vincolati quasi esclusivamente a criteri di carattere tecnico-scientifico che permettono di inquadrare correttamente problema sociale nonché le procedure idonee a risolverlo: se il problema è una depressione post-partum, è sicuramente necessario individuare l’ambito di intervento elettivo per prevenirne l’insorgenza e definire le linee guida di intervento ritenute più efficaci.

La stessa psicoterapia sta prendendo la forma di un “bisogno psicologico” da soddisfare. Messi così, i bisogni psicologici si definiscono per un “problema pubblico” (come una depressione) da risolvere grazie all’intervento dello psicologo che si muove su base tecnico-scientifica.

Sono una psicoterapeuta e so bene quanto possa essere utile, a chi soffre per una depressione, trovare un sostegno e una relazione di cura, ma non ho mai pensato che l’intervento terapeutico sia l’unico modo per “gestire” una sofferenza di questo tipo. È chiaro, la psicoterapia è il modo elettivo per “gestire” un sintomo, ma non è l’unico. Spesso, ad esempio, si arriva alla psicoterapia quando tutto il resto è risultato non efficace. E forse è anche normale che sia così. È vasta, inoltre, la letteratura che si interroga su quei fattori aspecifici ed extraterapeutici che intervengono sulla “guarigione” (eventi fortuiti, remissione spontanea, supporto sociale, età) (Mandolino, Iossa Fasano, Cardamone, 2020; Fava, 2004;  Acharya, Agius, 2017) e la cui funzione rimane troppo spesso sottovalutata e ignorata da parte di noi professionisti.

Rendere la salute un fatto specialistico, significa dire che davanti a un momento difficile, una crisi, un lutto o qualsiasi altro evento doloroso, gli amici non bastano, né basta la famiglia, né l’ascolto attento ed empatico del prete di fiducia. L’intervento tecnico prende il posto di un sapere più antico e depositato all’interno delle relazioni significative, e la tempestività prende il posto dell’attesa (Campo, 2022b).

Così, lo psicologo non entra in campo quando si manifesta una difficoltà, quando “qualcosa non sta funzionando”, ma prima, per aiutare a riconoscere tempestivamente i segnali di una possibile cronicizzazione di una crisi. Basti pensare alle richieste di intervento da parte di quei genitori preoccupati che affidano a un consulente la gestione dello sviluppo (quasi sempre fisiologico in realtà) dei propri figli. Sempre più spesso la consulenza del professionista viene invocata per valutare se le modalità con cui si sta affrontando un problema siano quelle corrette. Come fa del resto una persona comune a comprendere se il modo in cui sta affrontando una perdita è quello giusto o se sfocerà in una grave depressione, se non grazie alla presenza di un professionista che lo aiuta a riconoscere i propri “bisogni psicologici”? 

Perfino gli studenti reclamano a gran voce la presenza dello psicologo scolastico non tanto per essere aiutati qualora si presentassero dei problemi, ma perché devono essere aiutati e supportati a imparare a prendersi cura di sé per stare bene. Come se ci fosse un manuale che possono acquistare per imparare a stare bene!?

Mi si potrebbe obiettare: ma abbiamo sempre lavorato così, qual è il problema? Altrimenti come potremmo mettere a punto qualsiasi programma di prevenzione?

L’affermare che lo abbiamo sempre fatto non implica sospendere una riflessione su cosa stiamo facendo e su come lo stiamo facendo. Abbiamo più di trent’anni di storia della professione alle spalle per poter iniziare a fare un bilancio dell’esperienza maturata in questo periodo.
Trent’anni sono un periodo abbastanza lungo per potere iniziare a fare il punto della situazione? e soprattutto per chiederci se siamo ancora disponibili ad andare verso una definizione “sanitarizzata” della nostra professione? o per chiederci se questa sia l’unica direzione verso la quale è possibile andare?

Dal mio punto di vista, questa onnipresenza del professionista psicologo rischia di qualificarsi nei termini di una vera e propria “sorveglianza sanitaria”: un sistema che si attiva nell’ordine della tutela della salute è un sistema che lavora all’interno di un regime di protezione quando non di approccio alla cura di tipo protezionistico.

Mi chiedo se sia questa la cultura psicologica da promuovere, a cui fa riferimento la revisione dell’art. 21 dell’attuale codice deontologico.

Una cultura che rischia di alimentare posizioni fobiche, ipocondriache, ossessive, isterico-paranoiche (Mignosi, 2023) nei confronti del proprio corpo, della propria mente, di ciò che è “umano”.

Come possiamo continuare a fidarci del nostro corpo e della nostra capacità di ascoltarci quando la “cura” del corpo e della mente è un puro atto specialistico? Quanto non colludiamo con la promozione di una cultura eteronoma, che veicola l’idea di una rassicurazione, di un “appoggio” solo ed esclusivamente all’esterno, da noi e dal campo delle nostre relazioni significative? Quanto favoriamo richieste di protesi tecniche e tecnologiche? Così, al rapporto diretto rischia di sostituirsi il rapporto mediato dalla presenza di un professionista.

All’interno di questo paradigma culturale della cura, sempre meno lo psicologo può prendere la posizione di “osservatore” che, pur nella sua funzione pubblica originaria, ha sempre cercato di tenere. Diventare parte integrante del sistema, anche quando è il sistema che “fa ammalare”, ci rende sicuramente una professione meno autonoma e meno libera, e forse ci espone maggiormente a un rischio collusivo di cui dovremmo essere quantomeno consapevoli.

Come sarà possibile, all’interno di questa prospettiva, mantenere uno sguardo epistemologico su come costruiamo gli oggetti e i soggetti della psicologia? di quali pratiche professionali saremo interpreti se il nostro ruolo è di sussidiarietà alle politiche governative? dal mio punto di vista è una perdita di autonomia importante e significativa: anche quando ci riteniamo autonomi nella definizione dei nostri oggetti di lavoro, in realtà lo siamo molto meno di quanto pensiamo. Certo, non siamo mai pienamente autonomi nella costruzione della realtà, ma proprio per questo è importante potere continuare a “pensare ciò che ci pensa”; il rischio è di rimanere, anche noi, dipendenti da logiche eteronome rispetto al nostro lavoro.

In una prospettiva in cui la Salute è definita “altrove” (senza la partecipazione dei cittadini o dei pazienti) e amministrata da specialisti della salute, che fine fa il soggetto?

Se il professionista è colui che “sa”, che possiede le competenze per aiutare le persone a stare in Salute, che sa cosa è giusto fare per qualsiasi problema (per cui sono sempre pronte nuove definizioni a cui corrisponde una tecnica che ci aiuta a liberarcene) quale competenza di sé rimane al soggetto?

Il codice deontologico delle psicologhe e degli psicologi

La revisione del codice deontologico prevede l’introduzione di una premessa etica che non sarà oggetto di quesito referendario. Inoltre, tutti gli articoli sono stati titolati in modo da rendere più fruibile il senso dell’articolo stesso.

La Premessa Etica

La Premessa Etica accompagnerà il nuovo Codice Deontologico e sarà vincolante per tutti gli iscritti all’Ordine; nonostante ciò, questa non sarà oggetto di quesito referendario. Non se ne comprende bene il motivo.
Questa Premessa Etica è liberamente ispirata al metacodice EFPA (Federazione Europea delle Associazioni di Psicologi) che fornisce le linee guida per i contenuti dei Codici Etici delle Associazioni che ne fanno parte (Ruberto, 2023). Per questo motivo è ipotizzabile che non abbia bisogno di una riflessione pubblica né tanto meno di una approvazione, ma chiaramente rimaniamo nel campo delle ipotesi.

Più volte i rappresentanti dell’attuale CNOP (Ruberto 2022, 2023; Lazzari, 2022) hanno segnalato la necessità di una Premessa Etica; una valida deontologia professionale deve poter definire con precisione i principi etici da introiettare per cucire correttamente il proprio abito deontologico e favorire l’acquisizione delle corrette procedure di pensiero.

La Premessa Etica, che accompagna la revisione del Codice delle psicologhe e degli psicologi, tratteggia e sagoma un professionista che fonda la propria etica professionale sulla scienza e sulla tecnica. Secondo Parmentola (2022), uno dei primi estensori, il vertice etico dovrebbe potersi dispiegare sul vertice scientifico e darsi nell’appropriatezza tecnico-scientifica: la responsabilità verso le persone e la società àncora lo psicologo in un discorso di competenze, per cui i ragionamenti dovrebbero attenersi a ciò che viene ritenuto essere valido e scientifico, i riferimenti scientifici dovrebbero rispettare un certo standard per essere attendibili e i curricula professionali dovrebbero essere certificabili.

Secondo i revisori, la capacità di costruirsi una propria pratica professionale deontologicamente orientata deve rifarsi necessariamente e prioritariamente a conoscenze scientifiche accreditate che ne possano garantire l’attendibilità.

Non posso fare a meno di ricordare come la storia dell’uomo testimoni di pratiche che, ammantante dall’aura della scientificità, si siano rivelate essere inefficaci quando non pericolose.

Pur non di meno, la revisione sostiene la figura di uno psicologo che per potere essere etico deve essere molto tecnico.

Questo accento sulla tecnica espone lo psicologo alla gestione di un altro tipo di responsabilità, di carattere più professionale. Come ci ricorda il metacodice EFPA il sapere tecnico si configura come una forma di potere.

Il sapere tecnico tende a creare una diseguaglianza di conoscenze, e quindi di potere, che il professionista detiene nei confronti delle persone. Più è ampia questa diseguaglianza di conoscenze all’interno della relazione, maggiore è la responsabilità dello psicologo.

Quindi, la competenza professionale si configura come un potere che viene assegnato al professionista nei confronti delle persone che a lui si rivolgono, che dovrebbe essere amministrato con grande professionalità. L’uso tecnico della conoscenza sembra volersi proporre come un uso “buono” di questo potere.

Questo aspetto “tecnico”, poco presente nella prima estensione del codice, oggi diviene la premessa con la quale formulare la migliore regola professionale.

Vincolare lo psicologo a una formazione valida è indispensabile, ma questa premessa etica sembra andare oltre. Sembra essere, infatti, un tentativo per normare la responsabilità del professionista nei confronti degli utenti e dei committenti, definendo con chiarezza in che modo è possibile esercitare o non esercitare la propria influenza (art. 3). La Premessa Etica sembra voler stabilire, una volta e per tutte, i confini tra ciò che è scientifico e morale, e ciò che è riferibile al campo della “superstizione” e della “irrazionalità”.
La tecnica, infatti, risponde all’esigenza di qualificare il nostro lavoro in quanto professione scientifica e sanitaria, ed espressione di un potere buono. 

La revisione del Codice vuole proporre quindi degli ethical standard, oggettivabili, standardizzati e condivisi per costruire la propria regola professionale. Gli ethical standard sono, però, prima di tutto dei technical standard: la loro introiezione permette di sagomare professionisti moralmente e tecnicamente validi. La garanzia di un potere neutro e non arbitrario sembra risiedere proprio nel discorso scientifico.

La coscienza del clinico che si muove “caso per caso” sembra essere ridotta all’osso e derubricata a qualcosa di arbitrario.

Prima, ciò che muoveva la coscienza del clinico era un’etica fondata sulla relazione, sul rispetto e su un continuo lavoro su di sé capace di tenere dentro il ragionamento sugli assunti epistemologici e sulle premesse culturali del periodo. Questo costante lavoro permetteva al clinico di assumersi la responsabilità di ciò che faceva all’interno della relazione.

A mio avviso, una riflessione etica non dovrebbe cercare fuori degli appigli oggettivabili, ma cercare di fondarsi dentro un discorso interpersonale ed epistemologico sul potere.

Gli standard etici, invece, sembrano rispondere alla ricerca di un “valore” al di fuori della relazione.

Il vecchio professionista sagomato “con scienza e coscienza” lascia il posto al professionista per il quale la “scienza è coscienza”: i ragionamenti clinici, la libertà e l’autonomia lasciano il posto alle conoscenze tecnico-scientifiche.
Sicuramente la scienza risponde a un bisogno di sistematizzazione dell’insieme di conoscenze che è riuscita ad acquisire nel corso dei secoli, ma non si può pensare di sostituire l’esperienza reale con quel paziente reale, che fonda una deontologia pensata “caso per caso”.

Spinsanti (2020) evidenzia come l’attuale ricorso al modello scientifico comporti un sempre più ridotto grado di libertà del clinico rispetto alla possibilità di interrogare il proprio sapere secondo le contingenze del caso.

Il tentativo di definire gli standard etico/scientifici rischia di far fuori quella componente soggettiva del professionista che, operando in scienza e coscienza, rende non standardizzabile la misura deontologica. Il dato soggettivo, che fino ad oggi era legato alla coscienza del professionista e ai suoi ragionamenti clinici, rischia di non trovare spazio all’interno dell’attuale revisione.

Così sembra essere conferita una posizione di superiorità alla Scienza rispetto a tutte le altre fonti di conoscenza, perfino quella derivante dalla persona che incontriamo. È da verificare sul campo, chiaramente, se questa posizione di superiorità garantisca la migliore regola deontologica. Secondo Spinsanti (ibidem) il rischio che attualmente corre la professione medica è di vedere aumentata la propria subalternità alla “politica politicante”, quella politica che ci chiede di diventare erogatori di protocolli ben lontani da una reale preoccupazione per la salute dell’altro.

Il vertice introdotto nell’attuale revisione apre, infatti, ai protocolli, alla medicina evidence based, ma anche alla medicina difensiva.

La stessa revisione dell’articolo 22 sulle “condotte non lesive” prescrive l’ancoraggio professionale alle linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali. 

Il concetto di standard, necessario quando si tende a un maggiore controllo sulla qualità dei servizi e del trattamento erogato, ci espone anche a una visione professionale appiattita sulla performance e sulla semplice valutazione di una performance. La logica performativa e valutativa è ciò che spinge molti clinici a chiudersi dentro una medicina difensiva, scegliendo di proporre solo quei trattamenti che garantiscano l’impunità davanti alla legge.

Le linee guida, secondo Spinsanti (op. cit.) non dovrebbero avere una rilevanza giuridica.

Con l’attuale revisione, il Codice Deontologico sembra volere indicare, come più volte suggerito da Stampa (2019), la strada della legalità di una determinata condotta.

Ma il discorso sulla legalità non risolve il discorso sulla legittimità di una professione così standardizzata. Questa revisione rende sicuramente il Codice più adatto a interfacciarsi con il nostro sistema giuridico fondato sul principio della legalità e del giusto processo (qualora ci dovessero essere dei procedimenti disciplinari, civili e/o penali) ma meno adatto a rispondere alle questioni etiche alla base della professione.

Il principio della legalità (cosa fare per non incorrere in sanzioni) e della regola (certificazioni, standard, qualità) sembra essere penetrato con troppa facilità all’interno delle riflessioni sul Codice Deontologico.
La riflessione sulla legalità di un’azione non può prendere il posto della riflessione su ciò che è lecito e legittimo.
Si rischia, così, di scambiare la legittimità (ad esempio lavorare senza essersi vaccinati) con la legalità (ad esempio obbligo e sospensione per illecito deontologico).
L’etica dovrebbe rispondere alla domanda di ciò che è lecito o non lecito fare mentre, a livello culturale, sembra esservi un appiattimento dell’etica sulle leggi.

Davvero possiamo dire che la pratica fondata su “scienza e coscienza” sia arrivata al suo tramonto naturale? davvero lo standard (un valore numerico, esterno e arbitrario) può garantire da solo la validità, la correttezza, la legittimità di un determinato trattamento posto in essere da un professionista?

Basta affidarsi alla tecnica per essere sicuri di non usare indebitamente il potere assegnato allo psicologo?

Pensare che la Scienza sia “esatta” è abbastanza opinabile, soprattutto alla luce delle conoscenze e delle riflessioni epistemologiche attuali (Ceruti, 2018). La scienza è un prodotto della riflessione e della pratica umana, e come tale andrebbe sottoposta a una costante interrogazione di carattere epistemologico.

Già nel 2005 Ioannidis poneva un dubbio sull’attendibilità delle ricerche scientifiche: secondo lo scienziato la maggior parte delle ricerche pubblicate e accreditate non riescono a rispondere ai criteri di replicabilità alla base del metodo scientifico.
Qualche anno dopo (2017), insieme a un gruppo di ricercatori, Ioannidis pubblicava il Manifesto per la scienza riproducibile, denunciando gli innumerevoli conflitti di interesse nel campo delle sperimentazioni scientifiche, spesso sovvenzionate dal lobby e case farmaceutiche.
E non possiamo negare le pressioni che i ricercatori ricevono per pubblicare contributi scientifici e mantenersi, anche loro, dentro certi standard professionali.

Ma, anche se volessimo ammettere una presunta neutralità alla scienza, sarebbe etico delegare in toto alla scienza le scelte che ci riguardano e che riguardano la nostra salute?

Sicuramente questo approccio proposto dai revisori si sposa con la visione della Salute come un fatto specialistico che dai tecnici della salute deve essere amministrato. Solo uno specialista scientificamente e tecnicamente preparato usa il proprio potere in maniera etica e deontologica. La certificazione ECM, per fare un esempio, dovrebbe garantire di trovarsi in presenza di un professionista deontologicamente orientato. 

Nel tentativo di rifondare la deontologia in termini tecnico-scientifici, questa premessa etica rischia di appiattirla all’interno di una dimensione tecnico-amministrativa della salute e della malattia. Non posso fare a meno di notare come sia sparito qualsiasi riferimento al diritto all’autodeterminazione delle persone: non se ne trova traccia né nella premessa etica né nell’articolato revisionato: se la Salute è un Bene Meritorio, se è un fatto specialistico/professionale, quale spazio rimane per l’autodeterminazione?

Dal mio punto di vista, una riflessione etica, peraltro, non si dovrebbe limitare a costruire la migliore regola deontologica per amministrare questo potere (e rendere meno arbitraria la scelta del professionista), ma dovrebbe includere un discorso sulla legittimità di questo potere. È legittimo conferire al professionista tutto questo potere sulla vita delle persone?

Quella “parte” della psicologia che opera “caso per caso”, in ascolto della persona prima ancora che del sintomo, riuscirà a possedere i requisiti per ottenere le “condizioni di cittadinanza” nel mondo delle professioni sanitarie? a quale prezzo?

L’istituzione di un Ordine, qualunque esso sia, apre necessariamente a una riflessione sulla tutela dell’utente che si rivolge a noi. Si può essere d’accordo o meno sulla necessità di un Ordine che regolamenti la professione, ma una volta istituito, esso deve vigilare sulla qualità dell’offerta.
Ma siamo sicuri che la deriva tecnica conseguente alla logica degli standard sia al servizio di una professione così varia, ricca e plurima (Campo, 2022a)?

È chiaro, le leggi non le possiamo cambiare, ma non possiamo neppure esimerci da una riflessione su ciò che ci precede e ci istituisce. 

Trattamenti sanitari e rispetto della dignità della persona: verso una revisione

La revisione del Codice, che è attualmente in fase di approvazione, aggiunge una valenza etico-deontologica al Consenso Informato.

Anche qui potremmo dire “nulla di nuovo all’orizzonte”: il consenso informato ormai è prassi per qualsiasi professionista.

In questo caso non si tratta di mettere in discussione un principio importante e di civiltà, ma domandarsi a cosa risponda farlo diventare ciò che fonda eticamente la relazione con l’altro.

Nelle intenzioni del legislatore, il consenso informato vorrebbe andare oltre quella logica paternalistica che ha attraversato buona parte della pratica medica; ma, proprio dove cerca di scardinarla, la legittima. Nulla del vecchio apparato paternalistico viene messo in discussione, piuttosto si conferma l’ineguaglianza nelle informazioni tra medico e paziente. Viene solo ammesso che nessun trattamento può essere eseguito senza un consenso che sia informato, libero e consapevole. 

Il consenso informato è uno strumento/processo previsto solamente nel caso dei trattamenti sanitari. Da quando, con la legge 3/18 siamo diventati professionisti sanitari, siamo anche noi (giustamente) vincolati all’obbligo del consenso informato.

La revisione, quindi, è necessaria per ridefinire il lavoro degli psicologici che prestano la propria opera nel campo della salute. Il “vecchio” codice parla infatti ancora di semplici prestazioni psicologiche. In linea con la legge, da questo momento in poi gli psicologi si occupano di trattamenti e il consenso informato è ciò che permette al professionista di agire in tal senso.

Proviamo a chiarire cosa significhi questo passaggio.
Gli psicologi (esclusi pochi casi professionali) non “prestano” più “la propria opera nell’espletamento di un’attività intellettuale”, ma offrono “trattamenti”.
Il concetto di “trattamento” ci introduce dentro un discorso tecnico e scientifico che necessita di un’alta professionalizzazione.

Trattamento diventa, coerentemente con la legge, qualsiasi intervento di carattere preventivo, terapeutico o diagnostico, di carattere volontario o obbligatorio, da praticare sulla persona per migliorarne le condizioni di vita e di salute.
Nessun trattamento può essere praticato senza il consenso della persona; il professionista, valutata un determinata situazione, aiuta la persona a prendere la scelta più adeguata alla propria salute.

Ciò significa, ad esempio, che la prevenzione è diventata un trattamento sanitario. Fare prevenzione significa “trattare” la popolazione o una popolazione target indirizzando i comportamenti verso posizioni più salutari.
La stessa psicoterapia diventa un “trattamento di cura” e come tale deve poter rispondere a criteri di scientificità e attenersi a protocolli per la gestione del sintomo. Fare diventare così, la psicoterapia il “trattamento” tecnico per un disagio, sia pure per una psicopatologia, significa appiattire l’esperienza esistenziale di una persona, l’esperienza relazionale del prendersi cura, in una “gestione del sintomo”.

La logica sanitaria della legge 3/18 entra, senza se e senza ma, all’interno di una pratica che ha sempre coltivato al suo interno anche una visione umanistico-esistenziale dell’essere umano.
Per una beffa del destino, l’approccio centrato sulla persona, sulla relazione e sul rispetto dell’autodeterminazione potrebbe di fatto diventare l’ambito specifico dei counselor, consulenti non professionalizzati per la cura relazionale al servizio di un approccio umanistico.

I professionisti, al contrario, diventano titolari (manager) della gestione dei processi di “cura”: è sempre il professionista a sapere cosa è il bene del paziente. Se il “Sapere” è allocato nelle mani del professionista, la persona può solo dare il proprio consenso.

Il principio alla base del consenso informato trova la sua ragione d’essere proprio nel processo di professionalizzazione del sanitario: l’evidente squilibrio di conoscenze tra chi cura e chi viene curato dovrebbe essere contenuto grazie a una comunicazione sincera e professionale tra medico e paziente.

È un atteggiamento che paragona il paziente a un consumatore (del prodotto Salute) che va informato: la corretta informazione permette al consumatore di prendere delle scelte sul prodotto in maniera consapevole.

Non vi è ombra di dubbio che, in questa prospettiva, il consenso informato sia un atto civile rispetto all’abuso di potere che i medici hanno perpetrato sulla vita delle persone in barba ai principi costituzionali dell’indisponibilità del corpo, dell’inviolabilità della libertà della persona e del diritto a scegliere sulla propria salute. Troppi sono i danni di cure “estorte” senza il consenso della persona.

La comunicazione, nella logica del consenso informato, ha un ruolo centrale: il professionista informa e condivide con la persona tutte le informazioni in proprio possesso rispetto allo stato di salute della persona, al trattamento necessario per quel tipo di problema, argomentandolo e rendendo chiari benefici e rischi.
La comunicazione chiara e trasparente vuole trasformare la persona in un soggetto capace di prendere decisioni responsabili sulla propria vita e di diventare un soggetto attivo nella gestione della malattia. 

Da un lato, quindi, c’è un professionista in possesso di tutte le conoscenze scientifiche e tecniche disponibili, dall’altro una persona che dipende dal professionista rispetto a quanto c’è da fare; da un lato un professionista titolare del trattamento, dall’altro un paziente titolare di un consenso.

Il ruolo del professionista è di avere grande cura di questo momento comunicativo con il paziente perché da questo discenderà la possibilità della persona di prendere delle scelte responsabili. Qualora il clinico dovesse valutare la necessità di cambiare le “cure” per la persona, questa va informata e deve poter dare un nuovo consenso.

Sostenere la persona nel processo decisionale rispetto alla somministrazione di una cura è una parte centrale del processo terapeutico. L’obiettivo è fornire, dentro una comunicazione autentica, tutte le informazioni per aiutare la persona a comprendere l’importanza di quella cura, accettandola; la motivazione alla cura, inoltre, aumenterebbe la compliance al trattamento.

Insomma, in linea teorica, i principi costituzionali alla base del rispetto della dignità della persona sarebbero così tutelati.

A differenza però del consumatore tipo, nel campo della salute non si possono mai riuscire a dare tutte le precise informazioni che si potrebbero fornire, quanto meno in linea teorica, per la scelta di un prodotto commerciale. Al contrario, il paziente dipenderà costantemente da un soggetto che ne saprà sempre di più di lui. È il professionista a padroneggiare una competenza e una tecnica da cui il paziente è escluso, nonostante tutte le informazioni che può ricevere a riguardo. Il paziente nulla sa di cosa potrebbe accadere se le proprie condizioni di salute dovessero cambiare, né è capace di prevedere l’impatto delle sue decisioni sulla propria vita. 

Le informazioni che un professionista comunica al proprio assistito rendono solo fittiziamente l’altro veramente edotto. Non voglio certo negare l’importanza “civile” di questo atto; mi chiedo, semmai, se effettivamente basti una comunicazione trasparente per eliminare definitivamente l’ombra paternalistica dai processi di cura, visto che la persona, per quante informazioni possa ricevere, non potrà mai “sapere” cosa “tecnicamente e scientificamente” sia giusto per sé. La co-costruzione di un percorso di guarigione della persona, la costruzione della stessa alleanza terapeutica rischiano di svilirsi nella costruzione condivisa e partecipata del processo decisionale.

La proposta di revisione del Codice Deontologico vuole mettere al centro dell’operatività del professionista l’informazione e il consenso. Non basta più che questo venga dettagliato nell’articolo specifico (art. 24), ma l’informazione e il consenso diventano ciò che qualifica la relazione professionale, tanto da comparire fin dai primi precetti del Codice Deontologico.

La revisione dell’articolo 4 è forse quella che più di tutti riformula il ruolo dello psicologo, in quanto vuole fondare la tenuta dell’agire professionale (per come espresso nell’art. 3) sull’assunto che non vi può essere rispetto senza consenso (Leardini, 2023).

Infatti, la revisione dell’art. 4 riprende fedelmente una parte dell’attuale e ancora vigente art. 24 per inserirlo come primo comma dell’art. 4: il consenso (anche se non nella declinazione del consenso informato) è necessario non solo per sviluppare la motivazione della persona e la sua adesione al trattamento, ma anche per garantire alla relazione professionale un governo consapevole e appropriato (ibidem).

Il vigente art. 4 (“Nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità […]”) verrà sostituito con il seguente precetto: “La psicologa e lo psicologo, nella fase iniziale del rapporto professionale, forniscono all’individuo, al gruppo, all’istituzione o alla comunità, siano essi utenti o committenti, informazioni adeguate e comprensibili circa le proprie prestazioni, le finalità e le modalità delle stesse, nonché circa il grado e i limiti giuridici della riservatezza”.

Quindi il consenso (sia quello generale che quello informato) si dovrebbe qualificare come strumento indispensabile per il rispetto della libertà, della dignità e dell’autodeterminazione, ma l’unico potere di cui rimane titolare la persona è il potere di accettare o negare le cure (sempre che il “non consenso” non venga letto come una resistenza o esitazione da “trattare”).

Ma, al di là del rispetto formale e legale dei principi costituzionali, davvero un consenso informato protegge i diritti all’autodeterminazione, alla libertà e alla dignità di una persona?

Dove finisce quella spinta etico esistenziale presente nel vigente art. 4, che fonda eticamente la relazione, vincolando il professionista al rispetto della dignità, al diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione e autonomia di chi si avvale della sua competenza? Che fine fa lo psicologo sagomato sull’idea di un’accettazione vera e incondizionata della persona, disposto a non imporre i propri sistemi di valori e di visioni del mondo e della salute stessa?

L’eticità, dal mio punto di vista, si fonda sul rispetto della dignità della persona, sulla sospensione del giudizio e sulla non discriminazione. Autodeterminarsi, per altro, è qualcosa di più che un semplice essere padrone delle scelte che ci riguardano. L’autodeterminazione personale, infatti, è qualcosa di più dell’autodeterminazione terapeutica, quanto più la prima si qualifica come libera espressione di sé in relazione alla propria vita, tanto più la seconda si inquadra come libera scelta in relazione a una cura e alle scelte prospettate da altri.  

Non sono una esperta di diritti costituzionali, ovviamente, ma formulato in questo modo il consenso sembra essere una liberatoria legale, per quanto nella forma di un processo comunicativo, per continuare ad agire in nome di un paternalismo professionale e sociale.

Inutile girarci attorno, il consenso informato, oltre ad essere un processo comunicativo tra la persona e il professionista, è anche uno strumento che tutela dal realizzare illeciti deontologici o reati penali. Il consenso informato è figlio di quella logica contrattualistica di carattere neoliberale che esonera le persone dall’assumere in prima persona le proprie responsabilità. 

Sicuramente penso che avremmo bisogno di comprendere un po’ di più queste questioni: come già detto, mi sembra che il consenso solo fittiziamente risolva il problema di una visione paternalistica della cura, e così rischi di lasciare un enorme vuoto etico. Ad esempio: cosa rende dignitoso e rispettoso un trattamento terapeutico? Può essere l’adesione al principio della legalità?

Davvero le persone che si sono sottoposte in maniera obbligata alla vaccinazione hanno sentito rispettata la propria dignità e il diritto all’autodeterminazione solo perché avevano apposto una firma sul consenso informato?

La loro dignità, davanti a un obbligo surrettizio, è stata forse ripristinata da una firma che ne consentiva la somministrazione? Ci sono persone che hanno inventato gli stratagemmi più estremi (perfino un braccio finto) nella speranza di vedere ripristinato il valore della propria persona ad autodeterminarsi, e tutelati i propri diritti umani, prima ancora che costituzionali. Il mancato consenso, pur essendo nel diritto delle persone, è stato trattato da un punto di vista sanitario (pubblico) come una esitazione da sciogliere per vincere le irrazionali “resistenze”; l’esitazione andava trattata come intervento sanitario volto a sviluppare nelle persone un valore civico a tutela della salute pubblica.

Mi si può chiaramente obiettare che questo è un esempio che riguarda il campo medico. Ma vorrei ricordare che gli psicologi hanno avuto un gran da fare nel trattare le esitazioni vaccinali grazie a un loro reclutamento di massa in quella campagna vaccinale che ha discriminato e negato diritti, nonché leso la dignità delle persone.

Gli psicologi hanno favorito forme di discriminazione e imposto alle persone un sistema di valori, per quanto dichiaratamente tecnico/scientifico. So per certo di terapie che si sono concluse perché i terapeuti erano impegnati a interpretare le resistenze alla vaccinazione dei propri pazienti, o di terapeuti che hanno invitato i propri pazienti a vaccinarsi, altrimenti avrebbero interrotto il trattamento. Si può continuare a negare la lesione dei diritti a livello giuridico, ma ciò non cambia la sostanza.

Nel corso della campagna vaccinale, il rispetto della dignità, della riservatezza, dell’autodeterminazione, della libertà, dell’indisponibilità del corpo sono stati solo una chimera.

Sicuramente il consenso informato riesce a rispondere al principio della legalità di un trattamento, ma non risolve l’intero spettro delle questioni etiche che si prospettano davanti, tra cui il rispetto della dignità della persona e la dignità della cura.

Di nuovo, si confonde l’aspetto della legalità con quello della legittimità: il fatto che una cosa sia legale non significa che sia legittima, e questo noi psicologi dovremmo saperlo bene.

Dal mio punto di vista, il cambio di paradigma in questa proposta è evidente. Non più i principi etici che dovrebbero portare alla sagomatura della migliore regola deontologica, ma sembra quasi che la deontologia si fondi sulla liberatoria ad agire.

Sembra una deontologia alla Sheldon Cooper! Il consenso fa prevalere il potere di alcuni sugli altri: è un contratto, seppur nella formula di consenso informato, che regola i rapporti di potere rendendoli legali. Pur in tutta la sua simpatia, Sheldon era incapace di stare nei rapporti senza che questi fossero vincolati, tutelato quindi da un contratto. Sheldon, in virtù della firma su questi contratti, poteva rendere “legali” perfino dei veri abusi di potere! Un approccio che fa eco a quella visione neoliberista in cui la libertà, la dignità e l’autodeterminazione si riducono a una semplice accettazione delle condizioni imposte da un altro (il consenso informato si può solo accettare o rifiutare).

La nostra società prima e la comunità professionale dopo sembrano avere fatto propria la logica neoliberista che vuole comprimere i rapporti (generativi, sessuali, terapeutici) dentro logiche consensuali e contrattuali, per riequilibrarne il potere all’interno (Pateman, 1988, De Carolis, 2018). Secondo Pateman (1988) il rapporto neoliberista nasce da un libero accordo tra le parti, che qualificandosi come accordo sul managing, pone il diritto di comando nelle mani di una delle parti contraenti. Una logica che nasconde l’ombra paternalistica di una pratica professionale che si sente legittimata ad agire a partire dalla pretesa di relazioni di iperprotezione/dipendenza del soggetto e della sua comunità di appartenenza.

Pur riconoscendo l’importanza che la persona possa decidere fino all’ultimo istante sulle scelte che altri prendono sulla propria vita, è anche vero che la questione della dignità personale non si può appiattire solo su questo.

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Politiche professionaliAttualità

Neoliberismo e sviluppo psicologico sostenibile: la psicologia è ancora capace di pensare l’umano?

La nostra collega Roberta Campo, attraverso sguardo acuto e rigoroso ragionamento, ci mostra alcuni tra i travisamenti più insidiosi del nostro tempo, con i gustosi strumenti della sua scrittura.

Nel suo discorso opera un prezioso disvelamento di significati e intenzionalità sottese ai dispositivi sanitari e culturali messi in atto da sempre più organismi istituzionali, e riesce a demistificarli, identificandoli per ciò che sono, e cioè dispositivi di attribuzione di significato, cornici di senso verso cui l’umanità sta dirigendosi.

Il prezzo sembra essere una normatività etico-morale di odore totalitario, e la perdita da parte dell’individuo della capacità di essere Soggetto, dunque legittimo titolare della propria vita, dello sviluppo di sé e del proprio ambiente. Ma anche lo smarrimento di una dimensione d’Anima, entro cui intimo sentire e culture locali orientino al senso della vita, ed entro le istanze più pregnanti dell’esistenza umana.


La nostra madre-terra (…) soffre e non sopporta più gli effetti devastanti del neoliberismo
Jo-Bonet

Premessa

L’ipermodernità (Kaës, 2013), e con essa il capitalismo liberale, ha prodotto un’accelerazione tale, tanto nei costumi quanto nei modi di sentire, da esporre l’essere umano a una fatica per certi versi inedita del vivere. Diversi Autori, a partire da prospettive anche molto differenti tra loro, hanno provato a comprenderne non solo la portata, ma anche la posta in gioco (Kaës, 2013; Sennett, 2002; Le Breton, 2016; Fina, Mariotti, 2019; Mignosi, 2020).

Parole nuove si affacciano per interpretare il reale, entrate a far parte del lessico professionale di tutte quelle figure che si occupano dell’umano.

L’obiettivo di questo articolo è di aprire una riflessione di senso sulle premesse culturali che sostengono tanto le teorie quanto la nostra pratica professionale. Ritengo conditio sine qua non ripensare gli assunti impliciti dei nostri paradigmi di riferimento, in quanto essi sostanziano i nostri stessi ragionamenti clinici.

L’utilità di interrogare gli impliciti liberisti (Schiera, 2022) ci può forse evitare possibili collusioni culturali che rischiano di reificare, nei nostri setting, esattamente quelle istanze culturali che sono alla base della sofferenza e dell’angoscia dell’uomo contemporaneo.

Un “fare” avulso da una riflessione sulle premesse culturali che orientano la conoscenza rischia di far fuori la domanda e il dubbio. Anzi, più volte in questi anni abbiamo visto la domanda godere di una brutta fama, accusata di favorire lo sviluppo di teorie complottiste; il dubbio, dal canto suo, è stato velocemente licenziato dal dibattito in quanto espressione di una radicale mancanza di fiducia (nell’autorità, nella scienza).

Eppure, fino a pochi anni fa, il dubbio e le domande non erano così avversati.

Durante gli anni della mia formazione universitaria e post-universitaria mi è stato insegnato ad aspettare, al massimo a fare domande: le domande, si diceva, sono più importanti delle risposte, perché “costringono” a mettersi e far mettere in una posizione diversa rispetto a quella consueta. Nel 1969 Blanchot scriveva:

“la réponse est le malheur de la question”.

Intervenire troppo, così come interpretare troppo, può essere dannoso: il rischio è di sostituirsi al paziente nel suo tentativo di trovare le soluzioni per e da sé.
Al contrario, oggi siamo sempre più al cospetto di un Sapere che riesce perfino a prevedere ciò che ci aspetta nel futuro, e gli obiettivi che devono essere perseguiti[1].

Nella cultura contemporanea, Sala (2019) segnala un’eccedenza, un troppo, rispetto a un fare che non permette, in primis al clinico, di lasciare che il tempo possa offrire i chiarimenti utili per la valutazione di una determinata situazione.
I professionisti della Salute, invece, sembrano ossessionati dall’idea di intervenire in qualsiasi campo della vita umana, nella convinzione che più si interviene, più si previene.
Prevenire è ciò che giustifica, in tutti i campi della scienza e della tecnica, il moltiplicarsi degli ambiti di applicazione dell’intervento specialistico. Questo interventismo trova fondamento nell’attuale “Modello Salute”[2].

Essere in salute è diventato un dovere al quale non ci si può sottrarre.

Ricordo ancora chiaramente una frase che mi è stata detta da una collega all’indomani dell’obbligo vaccinale: “tu, noi, siamo dei sanitari e in quanto professionisti abbiamo il dovere di stare bene. Soprattutto, non ti puoi permettere di stare male!”.
Questa frase mi è rimbombata in testa per molti mesi: da lì probabilmente ho iniziato a sentire l’esigenza di approfondire certe tematiche. Questa frase, apparentemente banale, mi restituiva l’immagine di una persona che, appunto, ha il dovere di restare in salute.

Ma che significa che ho il dovere di restare in salute? Non mi posso ammalare? Perché tutto questo mi suonava come un imperativo al quale non potevo sottrarmi?

Se la salute diventa un “obbligo”, diventa anche prioritario stabilire il confine tra il normale e il patologico. Anzi, come professionisti siamo costantemente presi nel tentativo di tracciare una linea tra il sano e il non sano, tra il funzionale e il patologico.

Stiamo forse rispondendo a un richiamo verso una normativizzazione (diremmo anche patologizzazione) della vita? Quanto, dentro questo “fare”, rischiamo di rimanere prigionieri di un sistema fondato sulla protezione e sulle tecnologie della sicurezza[3]?

L’uomo, dentro questo sistema, rischia di essere sottoposto a un regime di sorveglianza sanitaria?

La cultura contemporanea ha assegnato alla medicina il compito di seguire l’essere umano durante tutto l’arco della vita – dalla nascita alla morte – accompagnandolo e sostenendolo nei momenti topici delle crisi evolutive. La speranza è che l’intervento specialistico possa, da sé, aiutare l’essere umano a far fronte a quel senso di smarrimento davanti ai misteri della vita[4].

La necessità di intervenire per qualsiasi cosa ci parla di un mondo idealmente più sicuro, ma anche più distante dalla possibilità di trovare parole che parlino all’animo umano di sofferenza, fatica, morte e malattia. Nonostante abbia affinato le tecniche per migliorare le aspettative di vita individuali, la scienza non è riuscita, e forse non riuscirà mai, a risolvere e comprendere il mistero della vita e della morte (Sala, ibidem).

L’essere umano ha davvero bisogno di più scienza? Ha davvero bisogno di più cure? 

La contemporaneità sollecita costantemente un senso di disorientamento, e il tentativo di andare alla ricerca di istruzioni per l’uso è molto alto. A questo si aggiunge una prassi fondata su protocolli e procedure standardizzate.

La presenza massiccia del professionista nella vita delle persone serve così a scongiurare in via preventiva il dolore, la sofferenza o comunque un inutile aggravamento dello stato di salute fisico e psichico.

Nel corso dell’articolo avremo modo di vedere come alcune novità normative e disciplinanti la professione, accolte come meri accadimenti burocratici, possono rappresentare la porta dalla quale certi assunti liberisti stanno entrando, senza neppure troppo pudore, all’interno della nostra pratica professionale.
Il fatto che il Ministero della Sanità sia oggi Ministero della Salute non è solo un passaggio burocratico e amministrativo: simbolicamente, in termini di appartenenza culturale, è niente affatto irrilevante.

È lo stesso Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, infatti, a indicarci il senso di questo passaggio, quando riconosce che la Psicologia si è assegnata il compito costituzionale di difesa e tutela della Salute psichica[5].

1. Critica allo sviluppo sostenibile

Queste premesse ci portano direttamente a una tematica che ci riguarda profondamente: quella dello sviluppo sostenibile

Per rispondere in modo completo ai cambiamenti climatici e ai problemi di sostenibilità attuale, secondo le direttive prescrittive della “Agenda 2030”[6], sono state scomodate anche le scienze psicologiche che, forse per la prima volta, parlano di “sostenibilità psicologica”.

Ma cosa c’entra la psicologia con la sostenibilità?

In virtù del fatto che il concetto di sostenibilità è entrato a pieno titolo nel gergo professionale di uno psicologo, ho deciso di iniziare ad approfondire la questione. Dal mio punto di vista, è importante addentrarci dentro le pieghe del concetto di sostenibilità perché a questa si associa un certo ideale e modello di Uomo.

Sviluppo sostenibile, consumo sostenibile, società sostenibile, agricoltura sostenibile, mobilità sostenibile, turismo sostenibile, salute psicologica sostenibile: in qualsiasi campo dell’esistenza, la parola d’ordine sembra essere la sostenibilità di qualcosa.
Il progresso e lo sviluppo sostenibile oggi fanno parte dell’agenda di quasi tutti gli organismi di governo nazionali e sovranazionali.

Per sviluppo sostenibile si intende la possibilità di “soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni” (ONU, Agenda 2030).

L’Italia stessa, recentemente, ha modificato gli articoli 9 e 41 della Costituzione, nella direzione dello sviluppo sostenibile[7].
Il cambiamento climatico, dentro la logica dell’emergenza climatica, è diventato una questione di interesse generale: il clima è un bene comune e deve essere salvaguardato prima che sia troppo tardi. Il bene comune è qui inteso come il minimo comun denominatore di tutti i “beni comuni”.

L’obiettivo, in questa sede, è quello di addentrarci in una riflessione che ci aiuti a capire in che modo la sostenibilità riguardi la vita delle persone, e in che modo contribuisca a declinare la sofferenza contemporanea.

Procediamo per passi.

Gli accadimenti degli ultimi anni hanno evidenziato un potenziale collasso del modello del capitalismo liberale, sempre più violento e distruttivo.
Già verso la fine del secolo scorso sembrava abbastanza chiaro come il sistema liberale/capitalista stesse cedendo; le conseguenze di questo collasso sulla politica, sull’economia, sulla salute delle persone e sull’ambiente diventavano sempre più visibili.

Così, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, si è andata affermando una narrativa che ha visto l’essere umano e la sua stessa esistenza come la causa dei problemi attuali, dell’instabilità economica, del buco nell’ozono, dei disastri ambientali, delle crisi alimentari e naturali, della violenza sociale: causa, insomma, dell’insostenibilità sociale, ambientale e produttiva del pianeta.

L’essere umano mangia troppo, si riproduce troppo, usa troppa plastica, si diverte troppo.
Il problema non è mai la filiera industriale che si nutre dei desideri umani, ma sono i desideri dell’uomo che, essendo indisciplinati, devono essere regolamentati e sostenibili.
Gli influencer, così come i divi della tv, indicano la strada, non solo del desiderabile, ma anche le declinazioni del desiderabile e del sostenibile (un tempo si chiamavano pubblicità progresso).

Per Moore (2017), ad esempio, il problema non è che la gente mangia troppo, ma che il globalismo del capitale liberale porta con sé delle relazioni di potere che necessitano, per essere sostenibili, di un “sano” comportamento alimentare.

Certo che bisogna desiderare, ma con responsabilità!
L’etica entra dentro gli acquisti e ne disciplina il desiderio; lo stile di vita di una persona è direttamente proporzionale al livello di sviluppo morale acquisito dalla stessa. In un siffatto panorama, il desiderio rischia di essere sempre più amministrato dal diritto, come vedremo in seguito.

A cavallo tra il 2007 e il 2009, il periodo di una delle più grandi crisi economiche del dopoguerra, si è affermata definitivamente l’idea che gli esseri umani avevano vissuto al di sopra delle loro aspettative e ci si doveva dare tutti (?) una regolata.
In altre parole: l’uomo aveva scialacquato oltre misura le risorse disponibili.

La conseguenza di questa retorica è stata la colpevolizzazione del comportamento della persona comune, e la sua responsabilità sulle crisi politico-economiche, sociali e ambientali. L’uomo, infatti, è solo un granello difettoso di un sistema più ampio potenzialmente perfetto.

Se questo è di fatto il migliore dei mondi possibili (Campo, 2007), come sostiene la narrativa ufficiale, allora tutti gli sforzi devono convergere verso la sostenibilità che permette il progresso e lo sviluppo (altra narrativa ufficiale) per un periodo indefinito.

L’essere umano “irresponsabile” per natura va tempestivamente educato al rispetto delle regole poste a garanzia del Bene Collettivo.
Detto in maniera più semplice, l’essere umano dovrebbe imparare a usare in maniera razionale le proprie risorse, dovrebbe controllarsi e autogestirsi rispetto alle proprie istanze consumistiche, e dovrebbe imparare ad avere cura dell’ambiente, magari iscrivendosi ai movimenti plastic free.
La raccolta differenziata dei rifiuti, la riduzione della loro quantità, il controllo delle emissioni di CO2, l’uso razionale delle risorse, il cambiamento degli stili di vita e delle abitudini alimentari, il rispetto delle norme, sono tutti assi importanti del modello sostenibile.
Chiaramente, la partecipazione responsabile di tutti è indispensabile, pena il fallimento del progetto.

L’umanità omogenea, unitaria, consapevole della propria irresponsabilità congenita è quindi il presupposto di base dello sviluppo sostenibile.

Ma perché formare il cittadino “ideale”?

Disciplinare l’uomo per permettere lo sviluppo del sistema è sembrata la buona soluzione per evitare il collasso del sistema. Dal mio punto di vista, il disciplinamento dell’uomo permetterebbe al Capitale nuove forme di circolazione a basso costo e a basso impatto ambientale.

Il concetto di sostenibilità si è diffuso capillarmente a partire dagli anni ’80 in relazione all’inevitabile transizione ecologica, e da quel momento in poi si è andato applicando a tutti i campi dell’esistente. 

Il fatto che la sostenibilità sia poi associata a parole come etica, responsabilità, ecologia, maturità, salute (fisica e mentale) permette non solo la facile comprensione della proposta, ma anche di  accettarne l’ineluttabilità.

Diversi Autori (ad esempio, Illich, 1977 e Latouche, 2005) hanno messo in discussione il concetto stesso di sostenibilità e il suo statuto epistemologico.

Secondo Latouche (2005), il modello di sviluppo sostenibile può essere paragonato a un’odierna mitologia che, come tale, svolge una funzione euristica e interpretativa sulle cose del mondo. Tale mitologia sostiene una visione esclusivamente consumistica, utilitaristica ed economicamente orientata; la prospettiva sostenibile, infatti, nasconde di fatto la sua profonda matrice economica, anche quando si veste di parole ecologiste o pacifiste. Per l’Autore sono proprio questi assunti che dovremmo provare meglio a questionare.

Il “mito dello sviluppo” prima, e dello “sviluppo sostenibile” dopo, è quindi al servizio dei processi capitalistici, della globalizzazione (oggi anche globalismo), del progresso scientifico e tecnologico. Il singolo da solo viene inchiodato alle proprie responsabilità e reso colpevole del fallimento dell’intero sistema.

Più recentemente Moore (ibidem) ha messo in discussione l’intero paradigma di sostenibilità in quanto, a suo dire, esso serve a perpetuare, teoricamente all’infinito, il sistema capitalistico.

Il Capitalismo, dice, si caratterizza per la sua capacità camaleontica di appropriarsi delle risorse naturali e mercificarle (si pensi a tutto il progresso nel campo delle biotecnologie): e ciò vale tanto per gli elementi naturali (chiamati appunto “prodotti”) quanto per la “natura umana”[8].

Moore (ibidem) così ritiene più adeguato parlare di Capitalocene, piuttosto che di Antropocene[9] per descrivere l’attuale era geologica.

Tutta la narrativa sullo sviluppo sostenibile è, infatti, fondata sull’idea che sia la semplice azione umana a danneggiare l’approvvigionamento o il benessere all’interno delle città (“troppe macchine al servizio della pigrizia delle persone”). Secondo l’Autore questa è una lettura fin troppo semplicistica.

Al contrario, sarebbe più utile ragionare dentro ottiche complesse, capaci di includere i rapporti di potere che sostanziano il globalismo capitalistico e liberale. Questi rapporti di potere riorganizzano e modificano non solo “la natura” ma anche il nostro rapporto con essa.

La tecnologia e la scienza sono prima di tutto strumenti essenziali di quel capitalismo che ha bisogno di depredare, sfruttare e appropriarsi della natura per poi rivenderla all’uomo[10]. Questa azione di appropriazione riorganizza la natura (in campi a coltivazione unica, o destinati al fotovoltaico, o in miniere per estrarre il carbone): quando parliamo di natura, quindi, abbiamo sempre in mente la natura “riorganizzata” dall’intenzione del capitale.

Sono queste logiche che dovrebbero essere questionate.

L’ecologismo green, così di moda di questi tempi, studia la globalizzazione, l’industrializzazione, il comportamento agrario ma non ha mai analizzato come la globalizzazione, l’industrializzazione e il comportamento agrario riorganizzano la natura attraverso pratiche di sfruttamento e di predazione (il capitalismo, dice Moore, è sempre alla ricerca della natura a buon mercato)[11].

Secondo Moore (ibidem), la visione di un mondo standardizzabile, oggettivabile, astorico serve alla codificazione di un immaginario comune organizzato attorno all’idea di sviluppo. La scienza e la tecnica definiscono gli standard, competenze, protocolli, parametri, algoritmi, calcoli ai quali bisogna attenersi per sviluppare il sistema (cibo finto, biotecnologie volte al contenimento della popolazione, eugenetica applicata alla filiera agricola, zoologica, addirittura umana).

Attraverso la tecnica, la matematica e la statistica, la complessità del reale collassa in una versione semplificata del mondo, solo idealmente prevedibile e apparentemente gestibile, controllabile e sostenibile.

È prioritario, secondo tutti gli Autori citati, rileggere il concetto di sostenibilità all’interno di queste relazioni di potere e avviare una riflessione su come l’agency economica e politica dipinga e costruisca un immaginario che vuole nascondere la propria intenzione (Moore, 2017).

Della stessa opinione è Naomi Klein (2008) che, parlando di capitalismo dei disastri, ritiene lo stato di emergenza un metodo di governo per legittimare le politiche della sicurezza. Certe politiche sarebbero altrimenti inaccettabili, in quanto aumentano le disuguaglianze tra le persone[12].
L’emergenza rende la disuguaglianza un semplice e inevitabile danno collaterale.
Sembra così che nella proposta emergenziale si chieda ad alcuni di sostenere il sistema a beneficio di altri.

Parlare di emergenza climatica permette di legittimare una transizione green inserendola all’interno di un registro logico che rimanda all’ineluttabilità: nessuno dotato di intelligenza, di responsabilità e solidarietà potrebbe mettere in dubbio questo assunto così Vero!?

Ma a quale natura stiamo pensando quando parliamo di emergenza climatica? E quale tipologia di uomo abita, in questo tempo, questa natura?

L’ambiente, si dice, va tutelato in tutti i modi e con tutti gli sforzi possibili. Si delinea, a mio avviso, una particolare forma di “ecologia della mente”[13]: è l’ambiente umano, modificato dal capitalismo e dall’organizzazione sociale a esso funzionale, a dover essere salvaguardato.

Molto diverso, ad esempio, sarebbe un approccio capace di valorizzare un rapporto archetipico con la natura. Un rapporto che potrebbe restituire un’idea diversa di cura ambientale.

Lo sviluppo è, più propriamente, sviluppo dei processi del capitale, della globalizzazione, del progresso scientifico e tecnologico. L’ecosostenibilità a cui si fa riferimento ha come obiettivo lo sviluppo di nuove risorse da sfruttare, e il contemporaneo contenimento dell’impatto che l’intero sistema produttivo ha sull’ambiente, sulla gestione delle città, sull’organizzazione del lavoro. Le soluzioni proposte, infatti, di ecologico hanno ben poco.

Del resto, a cosa ci serve il 5G o l’ultimo modello dell’IPhone? I critici del 5G, ridicolizzati dentro la retorica no-vax, ponevano delle domande non da poco rispetto all’impatto ambientale di questa nuova tecnologia.

Potremmo continuare con gli esempi ma la questione rimane: lo sviluppo è sostenibile se i comportamenti virtuosi e responsabili delle persone consentono di sostenere un progresso economico, scientifico e tecnologico sempre più tech e sempre più performante.

Sostenibilità ed emergenza poi, come ci ricorda Naomi Klein (2008), sono due facce della stessa medaglia.

Cosa fare allora?

In molti iniziano a proporre soluzioni locali e di prossimità.

Le soluzioni non possono essere ricercate dal sistema globalizzato, all’interno di Commissioni, Summit, Forum, ma dovrebbero essere partecipate dal basso, sviluppate da coloro che vivono, sentono e pensano un determinato problema.

Così diverrebbe possibile pensare pratiche che valorizzano la differenza prima ancora dell’universalità; pratiche rivolte a un pensiero locale, soluzioni pensate dall’uomo e a misura dell’uomo, in grado di restituire alle persone e alle comunità la capacità di risolvere i problemi che le riguardano.

Qui stiamo parlando non solo di problemi materiali, ma in primo luogo umani.

Secondo Bollas (2018), ad esempio, il riconoscimento che la scienza possiede nell’epoca attuale è collegato alla sua capacità di sostenere l’illusione di potere “controllare” tutto.
L’illusione permetterebbe di contenere, per quanto provvisoriamente, il senso di impotenza e l’angoscia di chi si sente di vivere sull’orlo di una catastrofe (personale, sociale, collettiva, mondiale).

Di Fasano (2011) ipotizza che alcune teorie scientifiche si possano addirittura prestare per essere usate come derive del “pensiero magico”, cioè come forme di pensiero che cercano di dare onnipotentemente una soluzione ai problemi che affliggono l’essere umano.

Il sapere tradizionale, vernacolare, è molto diverso da quello scientifico, e da sempre ha svolto un ruolo importante nell’elaborazione delle soluzioni locali (materiali ed esistenziali). Esso custodisce con cura una sapienza sulla vita e sulla morte, sui problemi che affliggono l’uomo, sulla natura, sull’invisibile ed è capace di offrire un immaginario collettivo di senso molto potente. Quel sapere oggi è stato smantellato e, come vedremo, ridotto a folklore.

La tecnica, la scienza, la medicina sembrerebbero andare a occupare proprio quel posto rimasto vacante. Offrendosi come universale, la scienza/tecnica riconosce poco valore al locale.
Il modello di sviluppo globale, economico, equo ed ecologico intende proporsi ugualmente valido per tutti, in tutte le parti del pianeta e a prescindere dalle tradizioni autoctone.

Esso valorizza sì le tradizioni, ma dentro un’ambivalenza di fondo: queste da un lato sono ricercate per la loro valenza folkloristica, mentre dall’altro, proprio in quanto folklore, vengono depotenziate nella loro valenza antropologica.
Secondo il sistema di valori globalista, il folklore non ha nulla da insegnarci anzi, se preso sul serio, rischia di favorire lo sviluppo di modelli culturali retrogradi, irrazionali e “magici”.

Il modello globale purtroppo tende a far fuori i localismi e quelle culture tradizionali che molto probabilmente avrebbero molto da insegnarci; ma soprattutto tende a far fuori quelle risorse particolari e personali che non sono previste dal modello omologato e omologante. Sarebbe auspicabile, a mio avviso, restituire alle comunità locali la capacità di affrontare e decidere il proprio destino, come da sempre è accaduto nella storia dell’umano.

Non voglio certo affermare che l’inquinamento, ad esempio, non sia un problema: tutti vogliamo i mari e le spiagge pulite e libere dalla plastica, aria fresca da respirare, boschi non distrutti dall’indifferenza umana, una “soluzione” al cambiamento climatico.
Non si tratta di negarne l’importanza, ma di chiederci se sia il caso di agire per il tramite di un modello globale e algoritmizzato. Il rischio del modello unico è non riuscire più a immaginare alternative possibili, e censurare chiunque provi a sviluppare idee e processi alternativi.

Possiamo prenderci cura dell’ambiente tramite un pensiero diverso da quello di sviluppo?

La verità è che siamo talmente abituati a pensare questo come l’unico modello possibile da non riuscire a elaborare strategie diverse, rispettose dell’uomo quanto della natura.

2. Sostenibilità, comportamenti virtuosi e Psicologia Etica

Abbiamo già visto come, secondo il modello capitalistico globalista, l’umanità (quella senza differenza di genere, provenienza geografica, credo religioso) debba rimanere insieme, compatta, responsabile, matura, e capace di mettere al primo posto il bene di tutti.
Gli effetti di questo modello sono una sempre maggiore pressione verso il conformismo, l’omologazione e la normalità intesa come valore verso cui tendere[14].

L’uomo educato[15] dallo sviluppo sostenibile è un uomo rispettoso dell’Altro, delle norme civiche, capace di autodisciplina e rigore. Tutte queste caratteristiche risultano indispensabili per sviluppare nella persona l’auto-orientamentoverso il Bene Comune.

A rendersi garante di questo passaggio, uno Stato[16] e un apparato pubblico che si intestano il compito di una legiferazione volta a educare i cittadini a comportarsi correttamente. 

Ricordiamo tutti le affermazioni di chi, all’indomani dell’introduzione dell’obbligo delle mascherine all’aperto, ne sosteneva l’importanza solo in termini educativi. Oggi, invece, è il nuovo Presidente del Consiglio Meloni che fa dell’ergastolo ostativo uno strumento educativo.

Diversi sono coloro che in questo ravvedono una vocazione etica dello Stato[17], che si pone nella posizione di stabilire il confine tra ciò che è bene e ciò che è male, assimilando l’etica a una legge e al suo rispetto (Nerozzi, 2010). Sembrerebbe il trionfo di un certo tipo di pensiero legalitario, quando non legalista, che trova nel rispetto della legge il proprio stesso orientamento etico.

Etica e legge, in questo scenario, stringono una strana alleanza, e si propongono di “formare” l’uomo del futuro.

Inoltre, in virtù del proprio mandato etico, lo Stato può teoricamente legiferare su tutto, penetrando nella vita e nei corpi delle persone libere. È compito dello Stato Etico perfino stabilire la definizione di famiglia o di salute o, in maniera più sorprendente, di amore.

Nello Stato Etico postmoderno tutte le azioni individuali hanno valore soltanto se sono orientate alla vita e alla salvaguardia della collettività (rappresentata dallo Stato e dalle sue leggi). Poco importa se riguardano i vaccini o la guerra. In nome della buona scusa morale è possibile persuadere le persone a mettere in atto qualsiasi comportamento. 

I governi, tanto di destra quanto di sinistra, stanno vietando per legge raggruppamenti di persone non autorizzate, ora per prevenire un contagio, ora per prevenire comportamenti rischiosi.
Il problema, quindi, non è che si proibisca alle persone il diritto di incontrarsi, ma a chi vanno vietati gli “assembramenti” e a quale scopo. Se troviamo un motivo morale, allora è accettabile. Lo Stato ha il dovere di normare i comportamenti, poi nell’arena di qualche talk show possiamo liberamente discutere su quale sia il comportamento virtuoso.

L’etica non fonda più l’attività umana dentro una logica interpersonale, ma si astrae per farsi legge. Lo Stato e tutti i suoi organi di trasmissione si intestano un ruolo di potere dal quale definire il comportamento, il pensiero, lo stile di vita cui bisogna aderire.

Accade così che l’individuo non sia più portatore di diritti inalienabili (la propria indissolubile sacralità) ma solo di doveri collettivi.

È chiaro che la differenza non è “pensabile” in una simile organizzazione sociale. La differenza, infatti, parla del fatto che io e l’Altro siamo portatori di una diversità strutturale che costringe a fare i conti con degli istituiti interni non sempre conciliabili.

Il pensare la differenza è un problema.

Ma di quali difficoltà dovrebbe farsi carico una comunità che non riesce a “pensare la differenza”? Ha ancora senso parlare di differenza?

Il mondo contemporaneo sembra avversare tutto ciò che di individuale può essere espresso[18]: ciò che proviene dal singolo, soprattutto se in contrasto con il sentire collettivo, è sinonimo di egoismo. Questo, come qualsiasi altro comportamento riprovevole, va messo alla gogna[19].
Secondo Hopper (2021), spesso l’avversione per la prima persona singolare si accompagna a un funzionamento gruppale caratterizzato da indifferenziazione, massificazione e adesività.

Tornando alla sostenibilità, essa è diventata l’organizzatore culturale per tutti gli altri valori dell’uomo contemporaneo (lo vedremo meglio nel prossimo paragrafo).

Sostenibilità ambientale, sostenibilità economica e sostenibilità sociale: tutte insieme fanno lo sviluppo sostenibile.

L’etica comune è la sostenibilità del sistema, in primis quello sociale: le regole sono “buone” in quanto sostengono, appunto, l’intero sistema sociale, ambientale, economico e politico, sia nazionale che globale.

L’Agenda 2030[20] impegna tutti gli stati europei a intraprendere azioni sostenibili e predetermina i valori di riferimento che devono essere comuni a tutti (pena multe per gli Stati inadempienti).
I sofisticati sistemi di certificazione hanno un enorme valore in questo senso. Senza un certificato di sostenibilità (pensiamo alle aziende che devono corrispondere ad alcuni standard equosolidali) non è possibile accedere all’utilizzo delle risorse “comuni”.
Ogni certificazione viene rilasciata solo a condizione che vengano rispettati standard, criteri e protocolli. Quanti di noi sanno che per accedere alla candidatura agli Oscar, i registi devono rispettare almeno due dei quattro criteri di inclusività[21] previsti dall’Academy?

Così, chi non rispetta gli indirizzi etico/legali previsti dalla normativa può essere multato, sanzionato o escluso dall’accesso ad alcune pratiche e contesti[22].

A nulla vale se una persona non ha i soldi per passare all’auto elettrica, se ha comprato il televisore l’anno precedente l’entrata in vigore del nuovo sistema di trasmissione del segnale, se un anziano fa fatica a usare il digitale, o se la legge tradisce ideali securitari: la persona che non si adegua è un “immorale” ed è giusto che sia punito, “educato”.

Cercare di mettere fuori legge il “Male” sembra essere l’obiettivo finale dello stato etico. In questo senso la scienza, la medicina e l’educazione svolgono un ruolo centrale, in quanto istituti che si ergono a tutela del processo formativo dell’Uomo nell’era della sostenibilità.

Tale paradigma non è nuovo, ne troviamo i primi vagiti nel carteggio tra Einstein e Freud del 1932: poco prima della seconda guerra mondiale i due si scambiarono opinioni e provarono a comprendere perché le persone e gli Stati si facessero la guerra. Entrambi convenivano sulla necessità di istituire un organismo mondiale sovranazionale capace di orientare l’uomo verso un sano sviluppo psichico, e tale da arginare definitivamente le derive catastrofiche dell’aggressività e dell’istinto di morte.

Il processo di civilizzazione (oggi sempre più in mano ai tecnici), che segnala mete socialmente utili e buone, è indispensabile per l’attuazione di questo progetto riformatore.
Le grandi rivoluzioni culturali del ’68, infine, sulla scia di questo stesso progetto, aprirono la strada a una cultura affettiva caratterizzata dal dialogo, dall’amore, dall’educazione, dal confronto pacifico e dall’ascolto attivo. Questa cultura si è andata affermando all’interno di un sistema educativo volto a forgiare “una bella persona” (Pietropolli Charmet, 2000).

Si diffuse velocemente l’interesse istituzionale per la gestione dei percorsi di sviluppo di “belle persone”, si svilupparono i primi programmi di educazione affettiva, alla pace, alla diversità, civica. Questi avevano l’obiettivo di sviluppare un orientamento personale verso emozioni positive, propositi sociali benevoli e comportamenti virtuosi. Si è insegnato a stare dentro i conflitti sani non strumentali, prediligendo pratiche pacifiche.

Il tentativo di neutralizzare la parte litigiosa, quella impossibilitata a scendere a compromessi, di negare l’ostilità in quanto processo da attraversare ha portato allo sviluppo di persone che non sanno litigare, che anzi hanno paura della propria rabbia, della propria parte “violenta”, schiacciate da sentimenti di invidia.

Le persone, in altre parole, non sanno più identificare e mentalizzare quei sentimenti che sono stati culturalmente appellati come negativi[23]. E non basta renderli illegali o indicare l’adesione a standard certificabili, come vuole lo Stato Etico, per risolvere il problema.

I dispositivi di produzione dell’umano, oggi, formano soggettività orientate a un vuoto pacifismo, a banali ideologie fondate sull’amore, sul rispetto e sulla solidarietà, su un ecologismo globalizzato sprezzante delle tradizioni. 

È così che si vuole perseguire un mondo sostenibile, senza guerre, senza discriminazioni, senza violenza?
Né la violenza sociale è sparita, né la guerra è stata eliminata. Anzi, forse siamo la società che più di tutte sfiora realmente il rischio dell’utilizzo della bomba atomica dopo Hiroshima e Nagasaki.
Persino la guerra, a ben vedere, potrebbe essere sostenibile!

Negare la presenza di una nostra parte “insana” significa non poterla più guardare, e non capire come essa agisca dentro di noi. Come ci ricorda Pigozzi (2018), gli infanticidi si sviluppano spesso attorno all’idea di un materno totalmente buono, sempre pronto e amorevole (che nega la presenza anche dell’odio all’interno del legame); un materno che schiaccia le madri dentro stati dissociativi. Queste madri, non potendo integrare la propria parte “insana”, possono solo agirla.

La rabbia stessa, per alcuni Autori (Costa, Tonini, Fersurella, 1995), è alla base della capacità di stare da solo, a sostegno dei processi di individuazione e differenziazione.

Eliminare il “male” dalla vita priva il funzionamento psichico di una parte importante della mente. L’illusione di purificare la natura umana rischia di disabilitarci nel rapporto con l’aspetto tragico dell’esistenza (Illich, 1977).
“L’odierna società sembra essere divenuta incapace di accettare la propria parte maledetta, il Perturbante, e tenta drammaticamente di esorcizzarla tramite politiche che, implicitamente, si pongono l’obiettivo di isolare l’elemento che perturba e che mette in crisi” il sistema collettivo di tenuta (Campo, 2007).

Oggi la professione psicologica si è intestata una visione etica della “cura”, tanto che potremmo parlare di Psicologia Etica (in analogia allo Stato Etico).
Pensiamo al proliferare di programmi di educazione alla pace, alla sessualità, alla corretta alimentazione, o di sensibilizzazione allo sport, sempre più interessati a “formare” fin dai suoi primi vagiti, un modello di umanità consapevole, responsabile, salutista, amante della diversità, non “egoista”, flessibile e adattabile, capace di derogare ai propri bisogni e interessi personali in favore dell’interesse sociale.

Così recita il documento programmatico dell’attuale consiliatura del CNOP (2020): “le scienze psicologiche mostrano come i nostri comportamenti, le nostre azioni, le relazioni che abbiamo con le persone con cui siamo legate e con gli altri dipendono in buona parte dai nostri valori” (pag. 9). 

I valori, in altre parole, fondano lo sviluppo armonico di una persona e sono alla base di un buon funzionamento mentale: quest’ultimo, vedremo più avanti, permette di rivolgersi al bene, alla pace, alla cooperazione e alla solidarietà globale.
Sembra essere tornato in auge il mito secondo cui è la mancanza di moralità[24] a generare la patologia.

Potremmo quasi affermare che la psicologia, sempre meno interessata a una analisi etica (questa sì!) dei rapporti di potere, rischia di sposare una visione etica della cura.

Tutto l’architrave delle leggi che regolamentano la professione possono essere viste all’interno di un percorso istituzionale più ampio che ha reso gli Ordini semplici interpreti di una funzione politico-sanitaria di carattere etico/morale. Gli Ordini sono esecutori di impianti normativi che poco hanno a che fare con il reale benessere dei cittadini.

La stessa legge 3/18 trasforma gli Organi di rappresentanza istituzionale (e di conseguenza i professionisti ivi iscritti) in enti subordinati allo Stato e alle politiche governative, sempre meno autonomi e indipendenti nella formulazione di una propria visione dell’umano e della “cura”.

Quanto spazio di autonomia può rimanere a un professionista quando il “bene del paziente” è stabilito fuori dalla relazione con il paziente? quando la presenza dello Stato all’interno dei percorsi di “cura” è così invadente?

Allo psicologo potrebbe rimanere un’autonomia da giocarsi all’interno dei perimetri tracciati di volta in volta dall’economia, dalla politica, dall’ecologia.

Curtotti (2022), in un recente articolo dal titolo “Lo Psicologo di stato”, avanza l’ipotesi di “una nuova figura di Psicologo da calare nel contesto sociale come valore non solo aggiunto ma, a quanto pare, fondante nella logica di un nuovo assetto globale della Sanità pubblica”.

La nuova figura dello psicologo rischia di essere al servizio di un sistema che definisce a priori la figura di uomo da “formare”.

Le professioni sanitarie, uniche ormai a gestire il Sistema Salute, pongono le proprie formulazioni sotto forma di norme in tutti gli ambiti della vita: dall’alimentazione, all’igiene, alla sessualità, alla procreazione, al fine vita.
La salute, e non più la malattia, è diventata l’ambito di intervento del professionista.

La salute mentale, dentro un tale sistema normativo e legislativo, rischia di diventare un problema di ordine pubblico e l’etica, non più fondativa di una prassi, diventa Valore[25].

3. Dallo sviluppo sostenibile allo sviluppo psicologico sostenibile

Qualche anno fa partecipai a un gruppo di lavoro che aveva l’obiettivo di riflettere sul significato della contemporaneità e sugli echi nel mondo interno.
Ciò che mi colpiva era il ritorno sistematico di una domanda che potrei riformulare in questo modo: “dobbiamo costruire nuove mappe interpretative per comprendere i fenomeni attuali, oppure dobbiamo soltanto aggiornare le vecchie mappe?”.
Una domanda alla quale non è possibile dare una risposta, ma che è importante perché permette di mantenere uno sguardo aperto su ciò che guida la nostra pratica.

Sono passati pochi anni e già le Istituzioni che ci rappresentano come professionisti sembrerebbero aver trovato una risposta: la psicologia si deve dotare di mappe aggiornate, che tengano conto degli attuali cambiamenti politici, economici e sociali, e che siano capaci di rispondere adeguatamente alle sfide del tempo!

Ma quali sono le sfide del tempo? Siamo ancora interessati a capire come ognuno di noi si colloca in relazione a queste sfide prima di accettarle?

È proprio il Presidente del CNOP a evidenziare l’importante fase di transizione che la professione sta vivendo a fronte dei grandi cambiamenti sociali. A tal fine, segnala la necessità di dotarsi di validi protocolli di lavoro volti a sostenere le persone nei loro processi di adattamento e resilienza[26].

Lazzari (2022), durante un convegno dal titolo “Deontologia e valori per la Comunità professionale psicologica”, ha introdotto l’espressione “sviluppo psicologico sostenibile” quale obiettivo prioritario del professionista psicologo.

Secondo Lazzari, i grandi cambiamenti radicali che attraversano la nostra società non possono essere gestiti e compresi dai cittadini “nel loro valore intrinseco”, senza un valido sostegno psicologico, senza cioè “un sostegno che ci aiuti a cambiare e comprendere i cambiamenti”.

Per il Presidente del CNOP, gli psicologi devono dare un loro contributo allo sviluppo sostenibile, in linea con gli obiettivi e i valori espressi nell’agenda 2030 e nel PNRR. Devono altresì definire le linee guida “per la costruzione di una società post moderna e post pandemica”[27].

In questa chiave, il benessere psicologico e la salute individuale vengono descritti come “capacità dell’individuo di costruire equilibri adattivi in un contesto relazionale”, e divengono elementi chiave per la valutazione delle performance[28] di un Paese rispetto alle proprie politiche.

Dovremmo guardare più attentamente nelle pieghe di questo discorso, in quanto dichiarare che la salute psicologica diventa un elemento di valutazione delle politiche di un Paese significa fare entrare la psicologia in un ruolo inedito. Da quando ne ho memoria, nessuno psicologo ha posto la soddisfazione e l’adattamento alle politiche governative a fondamento del proprio lavoro (almeno in maniera esplicita), tanto meno ha rinunciato a mantenere uno sguardo terzo sulle cose.

Il nostro Ordine Nazionale si impegna a sviluppare una Salute sostenibile, intendendo per sostenibilità ciò che definisce il valore di un’azione, mentre la psicologia, interprete di questo mandato valoriale a livello sociale, se ne fa interprete e garante.

La sostenibilità così diventa al contempo valore e obiettivo del lavoro del professionista. 

La psicologia si intesta gli obiettivi di una sostenibilità per legge [29] la cui eticità è tutta da “verificare”.

Nessun confronto su questo tema è mai avvenuto.
Anzi sembra esservi stato un percorso, ben gestito dall’alto, che non ha lasciato spazio a dubbi e perplessità sulla validità epistemologica del concetto di sostenibilità applicata all’umano. Nè è stato lasciato spazio per riflettere sulle implicazioni professionali derivanti dall’accettazione della sostenibilità come valore e obiettivo del nostro lavoro.

Ancora, nel documento programmatico dell’attuale CNOP (2000) troviamo che il “nostro modello sociale ha bisogno di ripensare la centralità dei bisogni per la vita umana” (pag. 3). Una frase per certi versi condivisibile, ma che tradisce una possibile stortura di fondo: in questa prospettiva i cittadini – che vivono in un determinato spazio sociale – non possono negoziare, modificare o ripensare un modello di comunità più a misura dei propri bisogni relazionali, spirituali, trascendenti; al contrario, per potere essere sostenibile, è l’organizzazione sociale – eterna e immutabile – che deve rimettere al centro i bisogni delle persone (stabiliti da chi?).

In tal modo comprendiamo meglio cosa si intende quando si afferma che i cambiamenti sociali e le sfide per il futuro non possono essere comprese senza un adeguato sostegno psicologico.

La società sostenibile (in equilibrio per un tempo indefinito) ha bisogno che tutti si muovano verso l’adesione ad alcuni comportamenti e stili di vita; in tutti coloro che mettono in atto comportamenti difformi, il “nuovo” psicologo vede la presenza di resistenze che, grazie al suo tempestivo intervento, possono essere sciolte.

Così la psicologia rischia di avere un mandato “politico” su chi non comprende l’ineluttabilità di alcune scelte: chi rema in direzione contraria, chi sta male al lavoro, chi sta scomodo nel vivere dentro percorsi normativi stabilmente definiti da altri.

Per arrivare a chi, proprio a causa di alcune narrative, sviluppa forme di disagio immediatamente “diagnosticate” e “curate”. Pensiamo, ad esempio, alla recente comparsa del termine “eco-ansia” per definire le emozioni negative – preoccupazione, senso di colpa e disperazione – legate al cambiamento climatico. L’American Psychological Association (APA) riconosce l’eco-ansia come una “paura cronica del destino ambientale”.
Secondo Papa (2022), in linea con le più recenti formulazioni sul tema, è necessario che le persone comprendano il senso del cambiamento climatico. Solo così possono acquisire gli strumenti utili “per far fronte alle emozioni che accompagnano questa conoscenza” (ibidem).
Grazie al tempestivo intervento del “nuovo” psicologo è possibile contrastare quei sentimenti di disperazione e negazione (negazionismo?) che non permettono di assumere comportamenti responsabili.

E così il “nuovo” psicologo si impegna a sostenere le politiche globali, sviluppando programmi di intervento che possono aiutare le persone ad attraversare i cambiamenti, a comprenderli e ad assumersene la responsabilità, personalmente e collettivamente.

Ancora una volta l’interesse del singolo e della società, intesa come organizzazione sociale, devono coincidere.

La centratura sulle capacità adattive in relazione alla salute mentale è fondamentale in questa nuova mission: il benessere psicologico è associato a un buon funzionamento mentale individuale, e quest’ultimo, e solo quest’ultimo, permette di mettere in atto comportamenti virtuosi.

Un esempio recente è stato l’accento sulla sanità mentale del cittadino che andava a vaccinarsi: una persona con un buon funzionamento mentale è capace di mettere da parte i propri interessi personali se non coincidono con quelli collettivi[30].

Il funzionamento mentale è un Valore, di quelli con la maiuscola, ed è grazie allo sviluppo di una mentalità sana e integra che si può vivere dentro la società; un uomo “sano” può accettare, senza troppe remore, il ruolo civilizzatore della società e la Psicologia può aiutare le persone a sviluppare quel controllo cognitivo necessario ad accedere al contratto sociale.

In questo tipo di ragionamento vi è una grande insidia che dovremmo tutti tenere a mente: lavorare per l’adattamento alle politiche sostenibili, progressiste e globaliste di uno Stato implica che la psicologia e tutta la sanità diventino il perno sulle quali esse si sostengono. Tale cornice rischia di trascurare una pratica professionale capace di mettersi al fianco della persona in difficoltà e aiutarla a trovare le proprie strategie soggettivamente credibili.

Nel nostro “documento di Interlocuzione all’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia” ci siamo chiesti quanto “gli psicologi oggi sono al servizio di un adattamento umano all’ambiente culturale (anche se nessuno può mai essere definitivamente e perfettamente adattato) o al contrario incentivano specifici percorsi di soggettivizzazione, individuali e gruppali? In quanto psicologi professionisti, siamo consapevoli di essere figli di questo tempo, anche noi assoggettati a vincoli di potere (di cui dovremmo essere il più possibile consapevoli) che ci abitano e che agiamo?” (pag. 1).

Come ripensiamo il nostro essere iscritti nelle matrici socio-culturali del nostro tempo? Quanto ci stiamo attrezzando per imparare a muoverci tra il fare parte del sistema (essere figli del tempo) e lo stare fuori (capire quale parte stiamo giocando)? Quanto anche noi rischiamo di diventare sistema e parlare lo stesso linguaggio di ciò che fa ammalare?

Io questo rischio lo sento.

Credo che sarebbe utile avviare una riflessione su tutte queste tematiche: parlare tanto e parlarne tanto, non darle per scontate.
Il sapere non può mai sottrarsi, a mio avviso, dall’interrogare se stesso. Il rischio è di diventare l’ennesimo replicante dei discorsi del potere.
Un approccio etico/scientifico, al contrario, riporterebbe il dubbio e la domanda dentro il processo conoscitivo.

Le persone che incontro nel mio lavoro soffrono spesso di oppressione. Certo, posso provare la strada della resilienza per aiutarle. Oppure potrei andare alla radice di questa sensazione e aiutare la persona a ritrovarsi come Soggetto della propria vita.
All’ascolto analitico, l’oppressione si presenta nella forma di un Sé adattato senza guizzo, in balìa degli eventi, schiacciato dalla sensazione di non avere presa sulla propria vita. Gli eventi accadono senza che la persona senta di potere avere effetto su di loro.
Nel già citato documento di Interlocuzione all’Ordine abbiamo visto come le attuali forme di mal’essere siano specifiche della “società degli individui”[31].

Bollas (2018) ipotizza l’oppressione come nuova forma dell’essere: “il ritiro nelle terre mentalmente spoglie dell’universo normopatico isola il Sé dall’attribuzione di un significato al vissuto.  (…) I momenti di intensità psichica non sono (…) registrati dal Sé che, essendo difeso rispetto alla possibilità di accoglierli, non è in grado di trasformarli in vertici di significato” (pp. 135-136). La persona assiste a uno scorrere degli eventi senza che questi possano entrare pienamente nel proprio campo della coscienza. La mancata “esperienza” del mondo impoverisce la funzione simbolopoietica della mente.
Dal mio punto di vista, in accordo con Bollas, lo sforzo nella “cura” avrebbe anche a che fare con la possibilità di risvegliare un interesse nella persona a poter essere Soggetto.

Personalmente ritengo fondamentale un lavoro volto a sostenere il processo di individuazione (Jung, 1935) o di soggettivizzazione (Napolitani, 1986), ovvero un lavoro a sostegno di una riappropriazione personale di quanto “appreso” dal mondo, rielaborato e valutato a seconda della propria storia, dei propri valori e della propria propensione a “essere”.

Come non ricordare l’importante insegnamento di Napolitani (ibidem) sulle “parti non nate” e sull’importanza di un ascolto attivo per riconnettere l’individuo a una parte di sé negata.

Un approccio molto distante da quello della psicologia e della psicoterapia al servizio dell’adattamento e della resilienza[32].

Nell’imperativo Etico del Bene Comune l’individuo, con i suoi valori e i suoi bisogni, è scomparso. L’uomo contemporaneo fa fatica a formulare per sé un proprio sapere “situato” nel proprio corpo, nella propria storia, nella propria visione del mondo e del futuro.

Ecco cosa rischia di diventare la resilienza: adattarsi a città invivibili, a lockdown forzati, a burocrazie estenuanti, allo smart working, all’alimentazione con cibi chimici prodotti dentro laboratori, o con farina di insetti.
Cosa accade quando la definizione di Salute è stabilita in uno spazio diverso da quello individuale e comunitario? Quale spazio rimane per il consenso informato?

Conclusioni

La radicale desimbolizzazione di ogni aspetto della vita porta alla presenza di oggetti che non rimandano a nulla se non a se stessi.
La medicalizzazione del vivente, a pensarci bene, non è altro che questo: ridurre il senso della vita a qualcosa che rimanda solo a se stessa (la preoccupazione di stare bene al lavoro, in famiglia, mangiare bene, fare le visite di controllo, fare sport, occuparsi dei rifiuti).

Ma come ci ricorda Fachinelli (1979), abbiamo anche bisogno di andare alla ricerca di un senso altro della vita. Lo psicoanalista racconta di un episodio il cui protagonista è un bambino.

Pochi giorni fa, in un piccolo gruppo, una psicoanalista raccontò qualcosa che era successo tempo prima ad uno dei suoi figli. Il bambino, giunto all’età classica per queste domande, un giorno le chiese: ‘da dove vengono i bambini?’. La madre rispose ‘scientificamente’, spiegandogli che i bambini nascono dal rapporto con i genitori etc. Qualche tempo dopo, il bambino si trovò a parlare dello stesso argomento con altri bambini, i quali viceversa sostenevano la tesi della cicogna. (…) Il bambino rinnegò e criticò la tesi ‘scientifica’ dei genitori e passò (o forse meglio ritornò) decisamente alla tesi fiabesca dei compagni. (…). C’è pure una intrinseca debolezza o insufficienza della verità dei genitori sul sesso. Che cosa significa la domanda ‘da dove vengono i bambini?’ (…) la domanda va molto più in là: chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? Alle domande sulla vita sono immediatamente legate quelle sulla non esistenza e sulla morte. La domanda sulla nascita sembra dunque avere, sia pure in modo per lo più implicito, il senso di una domanda più complessa, direi metafisica. (…) Possiamo postulare una situazione in cui la risposta ‘scientifica’ dei genitori (o degli insegnanti…) risulta per il bambino del tutto insufficiente per i problemi che pone; non solo insufficiente: egli la può trovare angosciante, se gli si pone in modo diretto (pagg. 125-127).


Fachinelli ci segnala quindi un aspetto importante della mente umana: il bisogno di sfuggire alla “nuda vita” (Di Petta, 2020) delle spiegazioni scientifiche e dei protocolli.

Più recentemente Han (2016) ci ricorda come “non è possibile giocare con la nuda carne. Il gioco ha bisogno di un’apparenza, di una non-veridicità (…) L’imperativo neoliberista di prestazione, sexyness e fitness alla fine riduce il corpo a oggetto funzionale che occorre ottimizzare (…) L’espulsione dell’Altro produce un adiposo vuoto di pienezza” (pag. 15).
Ogni cosa è resa mera funzione e, in questo collasso del piano simbolico, tutto può essere mercificato, persino un pezzo di corpo o di secrezione umana.

È qui che possiamo rintracciare il mito della neutralità, un mito che fa fuori sia le questioni simboliche che etiche, andando verso la costruzione di un uomo “normale”.
L’essere umano “normale” riconosce la diversità, ma solo in quanto declinazione dell’Uno e del neutro come valore positivo. La diversità, al contrario del concetto di differenza[33], non minaccia quell’Uno a cui guarda il concetto di normalità; vi è una buona tolleranza dei diversi modi di interpretare e declinare un unico Modello.
Più si accetta la neutralità di qualcosa, più se ne afferma l’intrinseca positività. Il neutro è un Valore al quale tutti dobbiamo tendere.

La deriva tecnico-procedurale, così come avvenuto in questi due anni, affonda le radici all’interno di quel paradigma che vuole l’utilizzo imperante di protocolli, procedure, tecnicismi stabiliti da un sapere “neutro”.

Se noi professionisti continuiamo a essere costretti a “pensare” solo dentro i vincoli di procedimenti validi per tutti – che ci dicono cosa fare, perché farlo e quando farlo – rischiamo di far fuori quel ragionamento clinico capace di sostenere la vita nei suoi risvolti creativi, simbolici e simbolo-poietici.

Siamo catturati e prigionieri dentro un mondo di procedure, di carte e di burocrazie che ci toglie tempo (anzi ci costringe a usarlo per cose inutili).

La vita è sempre più svuotata di qualsiasi riferimento trascendentale, spirituale e di senso.

Con l’illusione di poter controllare tutto, stiamo perdendo la capacità di pensare ciò che di ingovernabile e incomprensibile c’è nella vita.

La proliferazione di certe pratiche salutiste sta portando anche al progressivo smantellamento di quei dispositivi di supporto (familiare, sociale, culturale) ancora rimasti indenni.


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[1] Pensiamo alla lungimiranza dell’AGENDA 2030 quando “prevede” la sostenibilità dell’attuale sistema sociale ed economico anche per le generazioni future. Se la “preoccupazione” per le generazioni future è lodevole, non si capisce quali siano i criteri per stabilire cosa sarà sostenibile per le generazioni a venire.

[2] L’Industria della Salute, come la chiama sapientemente Sala (2019), porta ad alimentare l’idea che medici, psicologi e assistenti sociali possano riuscire a intervenire preventivamente per eliminare le patologie, la violenza o la cattiveria dal mondo. Ogni volta, davanti alle tragedie più grandi, che sia un’emergenza sanitaria o un infanticidio, si invoca una maggiore presenza dei servizi, un maggiore controllo da parte delle istituzioni quasi a volersi illudere che basti realmente questo per eliminare l’orrore, la tragedia o la morte. Purtroppo la storia ci restituisce non solo che gli orrori non si possono eliminare, ma che sono tragicamente parte della vita; i sistemi di controllo, per quanto sofisticati, non possono eliminarli. Le professioni mediche e sanitarie sono sempre più animate dalle logiche del biopotere (Foucault, 1976); quest’ultimo richiede un controllo dei corpi tramite l’impiego di pratiche di igiene, alimentari, sessuali. Gli esseri umani, di fronte alla promessa di agi, comfort, assenza di malattia e violenza, sono disposti a sottomettersi alle tecnologie di controllo, arrivando perfino a disumanizzare e a medicalizzare il senso della vita.

[3] Per Manghi (2022) il continuo interrogarsi dei professionisti della Salute sui confini tra normale e patologico (si vedano, ad esempio, le ultime riedizioni del DSM) rimanda a un orizzonte in cui parte importante del nostro vivere è patologizzato e/o sottoposto a sorveglianza medica. Il ruolo dello Stato è fondamentale in questo processo perché, come vedremo, è esso che, in nome del diritto alla Salute, se ne fa carico e garante, normando le abitudini, gli stili di vita, quando non i pensieri stessi.

[4] Il controllo medico, ricorda Illich (1977), frammenta le fasi di passaggio in una serie di episodi a rischio che hanno bisogno di tutela e vigilanza speciale. Nelle culture tradizionali, al contrario, i passaggi “evolutivi” sono ancora questioni che riguardano la comunità intera.

[5] Documento programmatico CNOP (2020) 2019-2024.

[6] L’Agenda 2030 rappresenta il quadro di riferimento per l’impegno nazionale e internazionale e ha come obiettivo quello di trovare  delle soluzioni globali a problemi come la povertà, i cambiamenti climatici, il degrado dell’ambiente e le crisi sanitarie.

[7] Articolo 9: l’Italia “riconosce e garantisce la tutela dell’ambiente come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Promuove le condizioni per uno sviluppo sostenibile”. Articolo 41: “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute, all’ambiente”.

[8] Si pensi, ad esempio, a parte della critica femminista sulla prostituzione del corpo femminile mercificato a uso del “maschio”. O ancora, si pensi alla pratica della Gestazione per Altri che vede mercificata una parte del corpo (l’utero) e una funzione (la gestazione) a uso di coppie spesso bianche, ricche e occidentali; una pratica, quest’ultima, che assimila la gestazione al pari di qualsiasi altro lavoro, così come precedentemente era successo per la prostituzione (Danna, 2017; Corradi, 2021).

[9] Si definisce Antropocene l’attuale epoca geologica in cui l’azione umana modifica, su scala locale e globale, l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche (Crutzen, 2002).

[10] Ogni qualvolta che il capitalismo si appropria della natura, questa viene sottratta all’uomo e trasformata in “prodotto”; da quel momento in poi l’uomo vede mediato il suo rapporto con il prodotto attraverso  leggi, regole, funzioni. Un esempio: la legna, trasformata in “prodotto di consumo”, è rivenduta all’uomo tramite un sistema che ne regolamenta la vendita e l’uso.

[11] Un esempio di come il capitalismo riorganizzi la natura e favorisca pratiche di sfruttamento viene raccontato da Fukuyama (1994) quando rilegge la storia delle piantagioni di cotone negli Stati Uniti all’interno della storia dello sfruttamento della terra e dell’uomo. L’imposizione del cotone come grande protagonista della rivoluzione industriale è coinciso con lo sfruttamento monopolistico della terra, destinata e dedicata alle grandi coltivazioni di cotone e all’introduzione dello schiavismo per la cura delle stesse.

[12] Pensiamo ad esempio che tutte le grandi riforme sul sistema pensionistico (dettate dai mercati, dalle élite e da organismi sovranazionali) sono state introdotte da governi tecnici e a seguito di una crisi economica.

[13] L’ecologia della mente è, al giorno d’oggi, incapsulata dentro una visione di biosicurezza (interventismo terapeutico e libertà negate) appiattita all’interno di una sempre più penetrante medicalizzazione del vivente.

[14] Durante una discussione in merito alle politiche governative degli ultimi due anni e mezzo, un collega mi segnalò il mio personale bias che dovevo correggere se volevo tornare a pensare normalmente: “più dell’ottanta per cento delle persone la pensa così e io con loro: sei tu che pensi strano. E io sono felice di pensare come quell’ottanta per cento, significa che sono normale”.

[15] L’educazione è importante in questa prospettiva in quanto permette all’uomo di addomesticare i propri istinti: l’uomo educato (come vedremo dopo, anche curato) è un uomo che ha imparato a dominare il proprio egoismo, la propria malvagità e, grazie al processo di civilizzazione, a vivere in società.

[16] Lo Stato oggi ha perso la propria autonomia nazionale, è anch’esso globalizzato, attento alla cura responsabile di un bilancio economico, anche quando questo va a discapito dei cittadini.

[17] Per Hegel (1814) lo Stato è “etico” in quanto ha il compito di fondare la vita individuale su valori e principi etici “universali”; questi sono al tempo stesso rappresentazione del e orientamento verso il bene supremo.    

[18] Oggi parlare a titolo personale è sinonimo di egoismo, di cecità interpersonale. Ma parlare in prima persona è, come ci ricorda Lacan (2002), un aspetto importante per la costruzione di una propria soggettività. E invece siamo ancora capaci di riconoscere il valore della prima persona plurale (il Noi) ma siamo sospettosi di qualsiasi aspetto che tradisca la presenza di un Soggetto.

[19] La compulsione a commentare qualsiasi cosa nei nostri profili facebook risponde all’esigenza, quasi “rituale”, di condannare pubblicamente un certo comportamento: chi condanna, dandone testimonianza pubblica, si fa riconoscere anche come persona dotata di un buon profilo morale. La paura di provare vergogna ed essere messo alla “gogna” pubblica diventa l’organizzatore sociale che facilita l’assunzione di buoni comportamenti, espressione di un Ideale dell’Io ipertrofico. Si veda a tal proposito anche “L’ambiguità come marker culturale” in https://www.dallastessaparte.it/interlocuzione-allordine-2/.

[20] Ecco alcuni obiettivi dell’Agenda 2030: raggiungere la sicurezza alimentare e promuovere l’agricoltura sostenibile, garantire una vita sana, raggiungere l’uguaglianza di genere, garantire l’accesso all’energia a prezzo accessibile, affidabile e sostenibile, promuovere una crescita economica duratura inclusiva e sostenibile, costruire un’infrastruttura resiliente, ridurre le disuguaglianze, rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, resilienti e sicuri, garantire modelli di consumo e produzione sostenibile, promuovere società pacifiche e inclusive orientate allo sviluppo sostenibile, adottare misure urgenti per combattere i cambiamenti climatici, conservare e utilizzare in modo sostenibile gli oceani e i mari.

[21] I criteri in questione sono: la  presenza di donne, attori provenienti da etnie scarsamente rappresentate, espondenti LGBTQ+, persone con disabilità.

[22] Si veda la ferocia delle leggi etico/morali degli ultimi due anni, passate come leggi contro i cosiddetti no-vax. O ancora pensiamo alle multe che minacciano chi non mette a norma il proprio camino, o non regoli il termostato alla temperatura stabilita per legge.

[23] Parlando della rabbia come sentimento negativo, si fa in modo che venga percepita come Male.

[24] Questo mito era molto diffuso durante gli anni ’70 come euristica per spiegare la tossicodipendenza: i ragazzi che cadevano “nel tunnel della droga” mancavano di valori solidi e la “cura” coincideva con la “cura dei valori”. Alcune delle prime comunità terapeutiche (pensiamo a San Patrignano) avevano una chiara impostazione educativa e di rigenerazione del giovane attraverso l’acquisizione di valori positivi.

[25] Proprio a partire da questa considerazione, all’interno dell’associazione #dallastessaparte siamo impegnati a costruire un metodo che renda l’etica qualcosa di vivo e concreto. Rivitalizzata nella dimensione interpersonale, l’etica rimane vincolata al senso delle relazioni e dei processi che si sviluppano all’interno dei gruppi di lavoro. Una dimensione etica, la nostra, che vuole reincludere una riflessione sulle relazioni di potere e su come queste influiscano e determinino i “contenitori” che abitiamo. Una pratica corale in cui centro e margine si parlano e provano a evolvere insieme nel rispetto di ciò che si è, contenendo le spinte a volere cambiare l’Altro.

[26] Per una rilettura del concetto di resilienza e la sua relazione con i processi di adattamento si rimanda alla Tavola Rotonda in https://www.dallastessaparte.it/resilienza-adattamento-o-resistenza/.

[27] I temi di interesse – oltre a quelli dell’infanzia e dell’adolescenza, della parità di genere e la riduzione delle diseguaglianze e delle discriminazioni – sono le nuove forme di lavoro work life balance e il rapporto tra sostenibilità ambientale, spazi urbani e benessere psicologico. Un esempio può aiutarci a focalizzare ciò di cui sto parlando: la Psicologia si vuole porre come interlocutore indispensabile nella progettazione degli spazi urbani. Bene, chi stabilisce che l’urbanizzazione sia l’insediamento umano da garantire in termini di benessere e qualità della vita? E anche una volta definito ciò, chi definisce l’abitabilità stessa degli spazi urbani? lo Stato? l’economia? la politica? e in base a quali standard? O, al contrario, non sarebbe più importante e prioritario ridare potere alle persone per ridefinire quale insediamento possa essere utile per una qualità della vita “buona”? O, ancora, pensiamo alla “banale” cartella dei nostri bambini. Gli esperti hanno valutato che la schiena dei bambini può sopportare il 10-15% rispetto al loro peso totale. Ma è davvero necessaria una buona educazione alla salute che insegni ai nostri bambini a portare un tal carico sulla propria schiena senza comprometterne in futuro la funzionalità? Pensare una gestione diversa dei compiti e dei libri da portare a scuola è fuori discussione.

[28] La sostenibilità diventa sinonimo di stabilità globale e di benessere sociale.

[29] Diventare Enti Sussidiari dello Stato significa sostenere le politiche governative, e farle rispettare e comprendere.

[30] Nel “Position Statement sui comportamenti antiscientifici e/o contrari all’obbligo vaccinale dei Professionisti Sanitari e sociosanitari rispetto alla pandemia da SARS-CoV-2 atto a chiarire il tema delle violazioni deontologiche da parte degli iscritti e configurate da comportamenti manifestamente antiscientifici, rispetto alla pandemia da SARS-CoV-2 ed al ruolo dei vaccini antivirali, quale patrimonio culturale e valoriale condiviso”, la vaccinazione è definita valore e bene comune. A partire da questa unica premessa discende un impianto tecnico-procedurale che ha portato alla condanna deontologica dei professionisti non vaccinati. Nel documento, il consenso informato assume una veste inedita. Gli Ordini, in particolare quello degli Psicologi, hanno invitato i professionisti a sensibilizzare i soggetti non vaccinati: l’obiettivo era vincere le resistenze alla vaccinazione. Tutto questo, lo ricordiamo, è avvenuto senza mai avviare o permettere una riflessione collettiva volta a comprendere il senso e le conseguenze di certe politiche securitarie. La vaccinazione, assunta a valore, è diventata espressione di un comportamento virtuoso per la salvaguardia della propria salute e del Bene Collettivo (poco importa se in molti avessero un’idea diversa). Così il legittimo rifiuto alla vaccinazione, ovvero il rifiuto ad apporre la propria firma sul consenso informato, è diventato “esitazione vaccinale” che doveva essere trattata dagli psicologi. Chi non dava il proprio consenso doveva essere aiutato a superare i blocchi del tutto irrazionali, chi non accettava la somministrazione del vaccino testimoniava la propria noncuranza nei confronti della salute pubblica e un cattivo esempio morale (come nel caso degli insegnanti reintegrati lasciati fuori dalle proprie classi). Gli psicologi, esperti di funzionamento umano, avrebbero dovuto supportare la persona a vincere le proprie resistenze personali, facilitando così il processo di accettazione delle cure – così come definite dal bene Comune. Una trama perfetta per un film distopico. Una logica molto pericolosa, che porta a domandarci a quale idea di Psicologia stiamo ammiccando.

[31] Per Elias (1990) questa può essere intesa come una società che disegna forme anonime, omologate di stare nel mondo. Questa forma di società amplifica la sensazione di sentirsi schiacciato da forze di cui non si conosce né il senso né la natura. Siamo di fronte a un’organizzazione sociale che non permette la formazione di Soggetti, ovvero di persone capaci di prendere posizioni, di parlare a titolo personale, seppur riconoscendone l’arbitrarietà.

[32] La parola resilienza, per altro, è stata centrale soprattutto durante la gestione delle politiche di contenimento della diffusione della COVID-19: i bambini, dotati naturalmente di resilienza, sarebbero riusciti ad adattarsi facilmente alla nuova normalità; gli adulti avrebbero meglio usufruito del sostegno psicologico volto a promuovere la resilienza. Come categoria professionale avremmo potuto dire di più “dalla parte dei bambini”, avremmo dovuto chiedere politiche più a misura dello sviluppo e volta alla tutela dei legami significativi: familiari, amicali. Invece l’obiettivo sanitario ha messo in secondo piano i bisogni dei nostri bambini, anzi gli abbiamo chiesto di non essere egoisti. Oggi stiamo iniziando a contare i morti e i feriti dei lockdown e dell’uso protratto delle mascherine sullo sviluppo dei bambini e degli adolescenti. E continuiamo a vederlo come l’inevitabile effetto collaterale.

[33] La differenza, al contrario della diversità, secondo Cigoli e Scabini (2013) permette di accedere all’ordine simbolico che consente di pensare l’Altro come non riducibile a se stesso.

AzioniPolitiche professionali

Interlocuzione all’Ordine Professionale della Regione Sicilia. Aggiornamento.

Come concordato durante l’incontro del 21 giugno 2022 tra i delegati dell’associazione #dallastessaparte e il consiglio dell’Ordine degli psicologi siciliani, il 5 settembre scorso abbiamo inviato la nostra proposta progettuale.

Questa è frutto di un lavoro di concertazione tra i colleghi promotori dell’incontro che esplicitano, ancora una volta, l’intento di dialogare con i referenti dell’Ordine sulle modalità di gestione dell’emergenza COVID e sulle sue conseguenze psico-sociali.
Conseguenze che già abbiamo ampiamente esplicitato e relazionato nel documento portato all’attenzione il 21 giugno, consegnato alla lettura e studio dei colleghi dell’Ordine, e pubblicato sui nostri social.
Purtroppo, fino ad oggi non abbiamo avuto alcuna risposta né dal Presidente né dai consiglieri.

Il silenzio assordante di coloro che hanno ricevuto il nostro mandato per promuovere la nostra categoria, rappresentarci politicamente e proteggerci nella prestazione dei nostri servizi continua ad alimentare una frattura, riguardo a credibilità e fiducia, che diventa sempre più insanabile.

Nonostante ciò, come associazione di categoria, crediamo fortemente che sia ancora possibile poterci esprimere in difesa dei valori che fondano noi tutti, come esseri umani e professionisti delle relazioni.

Per questo continueremo a lavorare, con o senza il sostegno istituzionale.

Di seguito riportiamo il testo della PEC da noi inviata lo scorso 2 novembre per sollecitare la risposta dell’OPRS.


Gentili Presidente e Consiglieri dell’Ordine Regionali degli Psicologi della Regione Siciliana,
a seguito della nostra proposta progettuale a Voi inviata in data 5 settembre 2022, avente come oggetto la programmazione e lo sviluppo di un ciclo di incontri volti ad avviare dentro l’Ordine una riflessione attiva sulle “Implicazioni psicosociali delle politiche sanitarie d’emergenza”, restiamo ancora in attesa di un Vostro riscontro.

Ci preme ricordare come la proposta progettuale sia nata a seguito di un lungo ed intenso incontro, avvenuto il 21 giugno 2022, tenuto presso la sede dell’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia, con una delegazione di colleghi che si è fatta interprete di rappresentare a Codesto Ordine il malessere istituzionale e la lesione dei rapporti fiduciari con chi in questo momento ci rappresenta.

L’incontro, lo ricordiamo, è successivo a un lungo periodo di silenzio da parte degli Ordini in merito alle discriminazioni introdotte dal DL 44/21 e successivi aggiornamenti, e alle implicazioni per la nostra professione. L’associazione #dallastessaparte e il Coordinamento Nazionale Psicologi sono stati attenti testimoni di numerosi iscritti che, in questi mesi, ne hanno lamentato le gravi e drammatiche conseguenze.

Il silenzio dell’Ordine è stato interrotto, dobbiamo tristemente constatare, solo da comunicati ufficiali nei quali veniva ribadito l’impegno di tutti gli Ordini, incluso quello al quale scriviamo, nel far rispettare l’obbligo vaccinale, nella noncuranza dell’impatto che certe scelte hanno sulla vita di molti iscritti. Tale obbligo, per altro, riguarda un farmaco ancora in fase di sperimentazione, non testato per il contenimento della diffusione del virus all’interno della popolazione generale. Inoltre, esso introduce un criterio arbitrario per consentire l’esercizio di una professione per la quale si è in possesso di tutti i titoli previsti dalla legge (Laurea, Esame di Stato, Iscrizione all’Ordine). Tanti colleghi sono stati sospesi, e tanti altri hanno lavorato con la paura di poterlo diventare.

La nostra proposta progettuale è stata elaborata a seguito della dichiarazione di disponibilità da parte del Presente dell’Ordine ad avviare uno spazio di riflessione interno, in linea con il proprio mandato istituzionale.

L’Ordine deve proporsi, secondo la legge 3/18, come interlocutore importante e necessario che concorre con gli Enti e le Autorità locali e centrali “nello studio e nell’attuazione dei provvedimenti che possano interessare l’Ordine”. Lo spirito della legge era anche quello di avvicinare l’Ordine ai propri iscritti, ma ciò sembra non essere avvenuto  proprio sulle questioni inerenti gli aspetti più fondanti la nostra professione (quale modello di salute si delinea con certe politiche? Quale tipo di comunità viene tratteggiata? Che tipo di professionisti possiamo ancora essere?).

Tali questioni sono state abbondantemente trattate all’interno dei due documenti, il primo redatto dall’Associazione #dallastessaparte, l’altro a firma del Coordinamento Nazionale Psicologi, consegnati proprio durante l’incontro dello scorso 21 giugno. Ricordiamo inoltre che il documento a firma #dallastessaparte è stato inviato per posta elettronica in data 27 giugno 2022.

Fino ad oggi, nonostante le dichiarazioni verbali di disponibilità al confronto, viene mantenuta la posizione ufficiale, ribadita a tutte le delegazioni di colleghi che sono state ricevute dai diversi Ordini Professionali, secondo la quale l’Ordine, in quanto Ente Sussidiario dello Stato, può solo rispettare e fare rispettare la legge, e che ad esso non spetta nessun altro tipo di adempimento.

Una risposta parziale che, come abbiamo più volte ribadito nel corso dell’incontro del 21 giugno, non tiene conto di tutte le altre importanti funzioni che la legge intesta agli Ordini Professionali Sanitari, e che li vede sia concorrenti nell’elaborazione dei provvedimenti che in dialogo costante con i propri iscritti.

Rimane così una profonda frattura tra l’Ordine e una parte dei suoi iscritti che, se ignorata ulteriormente, rischia di diventare insanabile.

Non basta un incontro per ritenere soddisfatto il necessario coinvolgimento degli iscritti rispetto alle questioni che li riguardano, né per ritenere soddisfatta la funzione di tutela di una parte che, proprio perché  minoritaria, ha vissuto drammatiche discriminazioni. Queste, per altro, come ribadito nel corso del nostro incontro, sono questioni che riguardano tutti gli iscritti, sebbene le conseguenze gravino solo su alcuni.

Ricordiamo, ancora, che l’Ordine, essendo totalmente finanziato dagli iscritti, ha il dovere di rispondere davanti ad essi rispetto all’espletamento di tutte le specifiche funzioni attribuite dalla legge, e sul modo in cui sta interpretando il mandato sociale e professionale.

A tal fine, quindi, ribadiamo la necessità che l’Ordine:

  • si faccia garante e assicuri “l’indipendenza, l’autonomia e la responsabilità delle professioni e dell’esercizio professionale, la qualità tecnico-professionale, la valorizzazione della funzione sociale, la salvaguardia dei diritti umani e dei princìpi etici dell’esercizio professionale indicati nei rispettivi codici deontologici, al fine di garantire la tutela della salute individuale e collettiva” (Legge 3/18);
  • sia interlocutore attivo per i diritti di tutti gli iscritti, e non soltanto di una parte;
  • dia seguito a ulteriori momenti di confronto con gli iscritti, così come anche indicato dalla nostra proposta progettuale.

Alleghiamo:

  • documento redatto ad opera dell’Associazione #dallastessaparte;
  • documento redatto dal Coordinamento Nazionale Psicologi;
  • proposta progettuale redatta ad opera dell’Associazione #dallastessaparte.

Chiediamo altresì che ci venga  confermato il ricevimento delle mail e dei documenti inviati (insieme al numero di protocollo), e che si possa avere un celere riscontro rispetto alla proposta progettuale inviata lo scorso 5 settembre.

Ancora fiduciosi di poter ristabilire un dialogo sereno, autentico e costruttivo, inviamo cordiali saluti.

Associazione DallaStessaParte

AzioniPolitiche professionali

Interlocuzione all’Ordine: testo completo

La sofferenza umana non può diventare un residuo muto della politica
Guerrasi, 2019

Con il presente documento intendiamo proporre una serie di riflessioni su alcuni aspetti della professione psicologica che sarebbero già dovuti essere oggetto di un confronto approfondito. Infatti, sarebbe stato auspicabile riflettere prima sulle conseguenze psicosociali delle normative che riguardano gli psicologi in quanto sanitari.

L’assorbimento dell’area psicologica all’interno delle professioni sanitarie (L. 3/18) non dovrebbe farci dimenticare che il mentale necessita di una visione propria e specifica, non subordinata a una pratica unicamente sanitaria che risente molto dell’epistemologia medica.

Il documento, nello specifico, pone al centro la riflessione su come le comunità occidentali contemporanee accolgano l’umano e la sofferenza umana. La domanda è fondamentale, in quanto dalla risposta discendono pratiche di lavoro anche molto diverse tra di loro, e differenti modalità di interpretazione del nostro specifico mandato sociale.

Gli psicologi oggi sono al servizio di un adattamento umano all’ambiente culturale (anche se nessuno può mai essere definitivamente e perfettamente adattato) o al contrario incentivano specifici percorsi di soggettivizzazione, individuali e gruppali? In quanto psicologi professionisti, siamo consapevoli di essere figli di questo tempo, anche noi assoggettati a vincoli di potere (di cui dovremmo essere il più possibile consapevoli) che ci abitano e che agiamo? Quali sono le attuali strutture organizzative in grado di generare automaticamente mentalità e forme di comportamento all’interno di una società?

La definizione di “sanitario” sembra essere stata l’unica motivazione che ci ha visti coinvolti all’interno di un obbligo vaccinale discutibile per diversi motivi, da quelli legali a quelli legati alle conseguenze di breve e lungo termine connesse alla somministrazione del farmaco.

Il D.L. n. 172 del novembre 2021[1] stabilisce che siano gli Ordini professionali a verificare la posizione vaccinale del collega e, in caso di inadempimento senza “giusta causa”, a stabilirne la sospensione.

Segnaliamo che una prima questione si pone già in relazione al termine “vaccino”,  termine che useremo in questo documento riferendoci ai farmaci cosiddetti anti-COVID approvati con procedura “fast track” condizionata (secondo criteri ancora oggi molto controversi: la letalità del Sars Cov 2 e l’assenza di cure per la malattia COVID). Lo useremo per convenzione, sapendo che l’uso potrebbe essere improprio, e implica molti interrogativi che non hanno ancora avuto una risposta esaustiva[2].

La vaccinazione diviene requisito all’esercizio della professione, e persino i nuovi iscritti devono presentare, tra i documenti necessari, il certificato che attesti il completamento del ciclo vaccinale primario ed anche di tutte le dosi di richiamo previste per legge[3]; in tal modo lo svolgimento della professione risulta de facto subordinato a un trattamento sanitario obbligatorio.

La posizione degli Ordini regionali e del CNOP fin dall’inizio non ha previsto alcun dibattito interno e non ha dato “ascolto” a quella parte di colleghi che sulla legittimità (sanitaria, legale, politica) dell’obbligo vaccinale nutre e continua a nutrire dubbi.

Le questioni, lo comprendiamo, non sono di poco conto e ci chiedono di tornare ad interrogare i paradigmi che guidano le nostre pratiche professionali.

È purtroppo un dato di fatto che né gli Ordini professionali né il CNOP abbiano coinvolto gli iscritti, e che non abbiano adempiuto alle funzioni di tutela nei confronti di coloro che hanno scelto di non vaccinarsi o di non proseguire con l’inoculazione delle ulteriori dosi di richiamo.

Riteniamo, quindi, non più procrastinabile rappresentare ufficialmente a codesto Ordine il malessere professionale, sociale e culturale connesso all’applicazione delle Leggi, nel modo in cui sta avvenendo. Segnaliamo il grave rischio di rottura del rapporto di fiducia con tutte le istituzioni, sempre più percepite e trasformate in istituti di mero controllo sociale[4] (si veda a tal proposito il paragrafo: “Frattura del patto sociale”).

Le istituzioni, e gli Ordini tra queste, rischiano di qualificarsi come funzionari di “processi senza soggetto”, che si muovono dentro una logica eteronoma e che non si risolvono mai dentro forme di soggettivizzazione reali. Tali processi, lo ricordiamo, attraversano gli individui restituendo loro una sensazione di impotenza, annichilimento e schiacciamento, in quanto li espropriano della volontà e del potere, inteso come possibilità di “avere presa” sul mondo (descriveremo meglio alcuni aspetti all’interno del paragrafo “Tutela dei pazienti”).

Diversi Autori hanno evidenziato come la sensazione di essere sottomessi a una volontà anonima, impersonale e trasparente abbia come conseguenza non certamente innocua il dissolvimento della volontà individuale e del legame sociale.

Ciò che rimane fuori è proprio il senso “plurale” della convivenza.

In più occasioni sia Elias (1990), sul piano sociologico, che Kaës (2013) in una prospettiva psicoanalitica, hanno evidenziato il profondo livello di malessere che crea una società (in questo caso una comunità professionale) caratterizzata da “processi senza soggetto”, processi che gravano particolarmente sull’attività di simbolizzazione e sul “pensiero che lavora per donare un senso alla complessità”.

Riteniamo che le conoscenze scientifiche debbano essere prese sempre in considerazione, ma crediamo anche che esse non possano ridursi ad aspetti procedurali tecnico-amministrativi, perché ciò non rende conto della specificità umana che, lo ripetiamo, è “plurima”[5].

Se la riflessione sulla pluralità umana poteva forse essere sospesa all’inizio della emergenza sanitaria da COVID-19, oggi alla luce non solo della fine dello stato di emergenza ma anche di evidenze scientifiche più solide, non possiamo continuare a procrastinare un confronto sul tema.

Diviene prioritario, in un momento storico come questo, segnalare la progressiva “distruzione” di spazi che possano garantire quelle differenze di cui “gli esseri umani sono interpreti e testimoni diretti. Fuori dalla logica di controllo, che vuole invece regolare o distruggere il diverso e la differenza” (Fina, Mariotti, 2019, p. 119).

Riteniamo utile che gli psicologi, che dovrebbero riconoscere il valore della diversità come qualcosa di fondativo della condizione umana, possano tornare a confrontarsi sui temi del documento al fine di valorizzare, come ci aspettiamo, la caratteristica “plurale” delle comunità umane.

La possibilità di accedere ad una polis e sentirsi impegnati nel processo di “trasformazione” del mondo è un’ottima alternativa alla rassegnazione di “essere adatti e adattati”, con tanto di certificato di “adattamento abilitante e abilitato”.

L’obiettivo più specifico del presente documento è quello di condividere delle letture di carattere psicologico e psicosociale sulle conseguenze di quanto sta avvenendo in Italia rispetto alla gestione sanitaria, ma ancor più sui danni a breve, medio e lungo termine che ha prodotto l’obbligo vaccinale, sia sulla salute individuale che collettiva.

Il documento, suddiviso in punti, rappresenta il frutto di un confronto costante con colleghi di tutta Italia, che hanno deciso di raccontare il malessere sorto all’interno della professione, per pensarlo e rileggerlo alla luce di una riflessione di più ampio respiro.

In aggiunta ai colleghi psicologi, riteniamo che uno degli interlocutori privilegiati sia l’Ordine professionale, in quanto Organo pubblico di tutela della professione, che assume l’importante funzione di innalzarne il valore sociale.

Il CNOP è composto dai Presidenti degli Ordini Regionali, e dunque avrebbe potuto agire sia a livello locale sia nazionale. Nel primo caso non ha avviato alcuna azione di tutela, ad esempio creando tavoli di lavoro su tali spinose questioni; nel secondo caso non ha avviato con i Legislatori un processo di consulenza per salvaguardare i diritti dei propri colleghi, nonché dei fruitori delle prestazioni professionali.

L’Ordine in via elettiva cura l’osservanza delle leggi dello Stato; ma se queste rischiano di essere discriminatorie nei confronti dei propri iscritti, o contraddittorie rispetto ad altre normative, ha la possibilità, se non il dovere di rappresentarlo.

A tal proposito non possiamo fare a meno di citare l’ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa del 17 marzo 2022, emessa a pochi giorni dall’invio, da parte dell’Ordine, dei provvedimenti di sospensione nei confronti dei colleghi. L’ordinanza per altro è l’ultima di una lunga serie di provvedimenti ad opera dei TAR[6] e della Giustizia Ordinaria, che segnalano i pericoli di incostituzionalità, e l’ingiustificata sproporzione tra la misura disciplinare adottata e la motivazione della stessa[7].

Nello specifico, i giudici del CGA sono molto chiari nel dichiarare rilevante e non manifestamente infondata la questione della legittimità costituzionale, articolo 4, comma 1 e 2 D.L. 44/21.

Le motivazioni dell’ordinanza sono talmente chiare da fugare ogni dubbio, sia nei termini della legittimità dell’obbligo sia nei termini della misura disciplinare adottata[8]. L’ordinanza tiene molto in considerazione la letteratura scientifica (ad esempio quella sugli eventi avversi) e non sottovaluta le gravi lacune procedurali avvenute nel corso della campagna vaccinale (inadeguatezza della farmacovigilanza, mancato coinvolgimento dei medici di famiglia nel triage prevaccinale, la mancanza, nella fase di triage, di approfonditi accertamenti e perfino dei test di positività)[9].

Per i giudici, lo stato attuale dello sviluppo dei vaccini anti-COVID, così come le evidenze scientifiche in merito, non soddisfano la condizione posta dalla Corte Costituzionale di legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale. Un vaccino, si legge nell’ordinanza, può essere reso obbligatorio solo se si prevede che esso non incida negativamente e in maniera irreversibile sullo stato di salute di chi è obbligato. L’evento avverso “morte”, anche nella misura di un solo caso dimostrabile, esclude la Costituzionalità di un obbligo: le ricadute etiche sono enormi perché si sottintende non solo che vi possa essere una quota di cittadini sacrificabili, ma anche che possa essere fissata una percentuale di cittadini sacrificabili.

Infine, rispetto alla questione su quanto spazio discrezionale poteva avere un Ordine professionale, ricordiamo ad esempio che in occasione del Decreto Legge del 1 aprile 2021, n. 44, convertito con modifiche nella Legge 28 maggio 2021, n. 76,  il Consiglio Nazionale degli Assistenti Sociali aveva richiesto al Ministero della Salute un parere interpretativo dell’obbligo vaccinale, dal quale si è potuto chiarire che gli Assistenti Sociali, pur essendo compresi nell’area delle professioni sanitarie, per il loro specifico lavoro, non erano da ritenersi soggetti all’obbligo vaccinale.

Per questi motivi abbiamo preparato per l’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia una proposta di discussione sui seguenti punti:

  1. Ambiguità come marker culturale della moderna società occidentale
  2. Requisito professionale e abuso della professione
  3. Scienza e responsabilità
  4. Frattura del patto sociale
  5. Dinamica del capro espiatorio
  6. Tutela dei colleghi
  7. Tutela dei diritti dei pazienti

Qui puoi scaricare il documento completo in formato pdf.

Ambiguità come marker culturale della moderna società occidentale

Il D.L. 44/21 è una delle tante leggi eccezionali emesse durante gli ultimi due anni. Un atto governativo che, insieme ai successivi, sancisce un’ambiguità[10] che non può passare inosservata: la compresenza di un obbligo e di un consenso informato.

La COVID-19, così come l’epidemia da SARS-CoV-2, non ha creato nulla di nuovo; ha solo fatto emergere processi, significati e dimensioni culturali che sono sempre stati presenti, seppure sullo sfondo. Anche le nostre riflessioni non hanno niente di nuovo, in quanto riteniamo che la vicenda pandemica e la vicenda vaccinale siano solo dei marker che hanno palesato le premesse culturali di cui, nel nostro lavoro di psicologi, è bene essere consapevoli.

Un elemento che ha colpito tutti è stato la presenza di leggi, condotte e linguaggi[11] che manifestavano un’evidente ambiguità di fondo.

Si è parlato di libera scelta mentre venivano introdotte misure che obbligavano in maniera surrettizia. Si è parlato di libertà mentre si accettava qualsiasi misura di controllo sociale. Si è parlato di comportamenti inclusivi mentre si decretava l’uscita dei cosiddetti no vax dalla socialità comune[12].

Il green pass è uno strumento di libertà e sicurezza; il vaccino è sperimentale, ma è sicuro, fidatevi della scienza: i test di efficacia e di sicurezza sono svolti dalle aziende farmaceutiche produttrici; immunizzati sono coloro che sono inoculati con un farmaco che non sterilizza. Queste sono alcune frasi esemplificative in cui sono compresenti, senza creare alcun problema, referenti simbolici anche molto diversi, che richiamano alla memoria espressioni ambigue come “la nostra non è una guerra ma una missione di pace”.

Frasi del genere evidenziano un atteggiamento in cui si mette in atto (o si afferma) una posizione e contemporaneamente la posizione diametralmente opposta. A volte la persona, o il gruppo, è perfettamente consapevole della duplicità delle posizioni, ma il senso di contraddizione interna, e la sofferenza che ne deriva, non vengono rilevati né denunciati.

Da Argentieri (2008) questi atteggiamenti vengono definiti “ambigui”: gli atteggiamenti, i comportamenti, così come i linguaggi ambigui hanno la funzione di evitare e disattivare il valore e la portata intersoggettiva delle differenze; sfuggono all’angoscia della contraddizione, alla fatica dell’ambivalenza e allo sforzo di doversi porre dei problemi e decidere, infine, da che parte stare.

Eludere stati d’animo penosi è il fine dell’ambiguità. È questo il motivo per cui l’ambiguità, restando nel mondo dell’indifferenziato, nega pericolosamente il registro mentale della differenza. L’assenza e lo smantellamento di istituti e dispositivi atti a mediare e garantire il senso della differenza, lascia gli esseri umani sempre più in balia di quella che Girard (1982) definisce “violenza mimetica”.

Inoltre, la violazione dei fondamenti logici della comunicazione, come il principio aristotelico di non contraddizione, consegna il discorso a una ambiguità ulteriore, fonte di un disorientamento che invalida ogni possibilità di coerenza e consequenzialità logica. Il discorso è invalidato nelle sue possibilità di razionale acquisizione di significato: dove A è uguale e contemporaneamente diverso da A stesso, là è il luogo dell’irrazionale (del sogno o della follia), in cui tutto può essere affermato e contraddetto senza limitazione, in cui la conoscenza razionale è compromessa. Gli effetti di tale operazione sulla comunicazione di massa sono la confusione, uno sforzo interpretativo senza fine, l’adesione passiva, o ancora la difesa irrazionale (o contro l’irrazionale, potremmo dire a questo punto).

Secondo Amati Sas (2020) sono ambigui tutti gli atteggiamenti che rendono vago il valore delle cose. Così si diventa accomodanti, senza però riuscire mai a prendere posizione[13]; si rimane indefinitamente sospesi, fluttuanti (proprio al fine di evitare di fare una scelta).

Secondo l’Autrice, il fine principale dell’ambiguità, anche in termini evolutivi, rimanda ad una funzione di adattamento importante dell’essere umano: l’ambiguità è quella malleabilità, flessibilità, fluidità che permette di adattarci a qualsiasi condizione, consentendoci di negare al contempo la violenza specifica della contemporaneità. L’ambiguità in questo senso sembra essere proprio un marker culturale della società moderna occidentale: se non possiamo sognare il mondo che vorremmo abitare, non ci resta che adattarci ad esso, e rendere meno angosciante la violenza, la corruzione e la sensazione di essere perennemente sull’orlo di un precipizio.

È il “sì… (certo è ingiusto) però… (la scienza dice che)” che fa fuori la partecipazione sociale. Per partecipare ad una comunità, socialmente e attivamente in termini “politici”, è necessario prendere posizione. Proprio per questo motivo Argentieri (2019) definisce gli atteggiamenti ambigui “piccoli crimini della coscienza”, e segnala che questa modalità di relazione con gli altri e con se stessi è sempre più diffusa: dal campo dei rapporti amorosi, al campo della politica fino alla bioetica.

Non è un caso che l’ambiguità sia un atteggiamento così diffuso, perché permette di tenere insieme due caratteristiche della contemporaneità inconciliabili e “impensabili insieme”. Ideali sociali[14] alti e assoluti (quali “il bene comune”) sono assolutamente inconciliabili con la violazione dei diritti umani e costituzionali, ad esempio.

L’ambiguità è quindi un modo per non soccombere ad un Ideale dell’Io troppo elevato, impossibile da sostenere: così è facile poter dichiarare un alto valore morale, senza che il comportamento “immorale” messo in atto possa creare alcun senso di smarrimento. In un mondo in cui i sistemi di sfruttamento, di corruzione e di violenza convivono costantemente con l’interesse proclamato al più alto “bene comune”, è facile che l’ambiguità permetta di trovare un compromesso tra una natura umana “non risolta mai definitivamente” e gli idealietici, che invece ci vorrebbero sempre risolti e dalla parte del giusto, garantendoci così, al contempo, un senso di superiorità morale.

L’ambiguità come modo per sfuggire alla necessità di pensare l’impensabile è anche un modo per iniziare a “sostenere lo sguardo sulla realtà” (Arendt, 1951) ed uscire dalla posizione in cui si conosce e al contempo si ignora. Una posizione dalla quale chiediamo che l’Ordine degli Psicologi si tiri fuori.

In tanti hanno inviato diffide, lettere o hanno cercato contatti personali con i referenti istituzionali, segnalando all’Ordine la situazione spiacevole e drammatica verso la quale si stava andando: le lesioni alla dignità personale, i potenziali pericoli per pazienti e utenti, la sensazione di essere lasciati davanti ad una violenza programmatica, le possibili violazioni costituzionali[15]. Ma l’Ordine ha scelto di ignorare e di non prendere in considerazione l’altro lato della medaglia del “bene-comune”, del “fidatevi-della-scienza”, del “vaccino-salva-la-vita”.

Per certi versi l’ambiguità sta al polo opposto della responsabilità. Per Arendt (1951) prendere posizione è uno sforzo necessario per iniziare a reggere il peso che il pensare la realtà comporta, significa “portare il fardello che il nostro secolo ci ha messo sulle spalle” (Boella, 2020).

Prendere posizione rispetto alle gravi lesioni e alla discriminazione di cui sono oggetto i colleghi iscritti all’Ordine, è per noi un modo per tirarci fuori dall’ambiguità.

Noi non ci abituiamo alla violenza della nostra contemporaneità. Fuori da una posizione vittimistica, ci dichiariamo portatori di uno “sguardo altro” sulla realtà (Bell Hooks, 2018).

Non possiamo che essere d’accordo con Mariotti quando individua nella relazione la matrice fondante dell’etica: solo quando l’altro non è più solo qualcosa di esterno a me, ma una persona libera in mezzo a persone libere, solo quando vi è riconoscimento intersoggettivo della human condition, si può transitare dalla morale divieto (da cui discendono tutte le leggi che “vietano” e “sanzionano pensieri”) “alla morale della risorsa”, “dalla prescrizione esterna ed astratta” “alla situazione impegnata” (Fina, Mariotti,  2019, p. 37).

Requisito professionale e abuso della professione

Non possiamo fare a meno di notare quanto sia difficile aprire un confronto tra professionisti rispetto alla questione vaccinale.

Ogni volta che si prova ad esprimere perplessità o punti di vista “non allineati” (come adesso si usa definirli) sembra calare imbarazzo; sembra di entrare in un ambito “sacro” di cui non si può parlare, e il solo pronunciare la parola tabù diventa “eresia”.

Espressioni quali “lo dice la scienza”, “fidatevi della scienza”, “bisogna credere nella scienza” implicano un atto di fede che è proprio delle religioni: la scienza ha preso il posto della religione come istanza sociale e parlare “spudoratamente” del “sacro” crea imbarazzo. Sembra essersi sviluppato un rapporto con la scienza identico a quello che il fedele del medioevo aveva con la Chiesa. La scienza si dota di un suo Clero e di un tribunale dell’Inquisizione. Le persone vi aderiscono in massa, dando per certo che ciò che essa promulga sia il Vero. Nessuno deve osare contraddirla. Chi non aderisce è un eretico e va escluso dalla collettività, a prescindere dagli argomenti che propone.

È ingenuo pensare che il sacro, nel nostro caso, sia rappresentato dal codice deontologico sempre più interpretato in chiave medico-scientifica? L’imbarazzo può rimandare ad una “grave” violazione deontologica?

Fino al mese di novembre 2021, per iscriversi all’Ordine degli Psicologi Italiani[16] era necessaria una laurea, un periodo di tirocinio e un esame di stato abilitante. La ratio di questi tre requisiti per l’esercizio della professione è talmente evidente da non necessitare spiegazione.

Mentre però si discute di creare lauree abilitanti per rendere più agevole l’ingresso nel mondo del lavoro da parte dei giovani colleghi, come requisito all’esercizio della professione viene imposto per legge, e da non esperti del settore, il possesso della certificazione attestante l’ottemperamento dell’obbligo vaccinale, a prescindere dal settore o dal luogo di lavoro.

In questo modo, la mancata vaccinazione, così come la mancata inoculazione della dose aggiuntiva, equipara il professionista in possesso di tutti i requisiti previsti dalla legge a qualsiasi altro abusivo della professione.

Sarebbe opportuno chiedersi come sia potuto accadere che il nostro mondo professionale abbia accettato con così estrema facilità e senza richiesta di consulto, l’introduzione di criteri arbitrari per stabilire i requisiti di accesso alla professione, con tanto di azione retroattiva (non riguarda solo i nuovi iscritti ma anche chi pratica da anni).

La comunità professionale e purtroppo anche gli Ordini hanno accettato l’introduzione di un criterio arbitrario che rende improvvisamente illegittima e irregolare una posizione legittima.

Il testo “Position Statement sul comportamento antiscientifico e/o contrario all’obbligo vaccinale” dei professionisti sanitari e sociosanitari rispetto alla pandemia da SARS-CoV-2” è stato stilato e sottoscritto da tutti gli ordini delle professioni sanitarie e socio-sanitarie, incluso quello a cui chiediamo audizione.

L’obiettivo dichiarato è mettere al servizio della salute pubblica tutti i professionisti iscritti.

A latere di questo discorso, ricordiamo solo che imporre un paradigma ha sempre dei costi sociali e culturali, e ci chiediamo se sia mai stata attivata all’interno del nostro Ordine una discussione in tal senso.

Inoltre, la salute a cui il testo allude è intesa come assunzione di un vaccino che per altro non esclude, lo ricordiamo di nuovo, né il contagio, né la malattia, né il decesso.

Si è voluta “imporre” la vaccinazione per evitare i focolai, che avrebbero provocato l’interruzione della continuità dei Servizi Pubblici, e tuttavia ciò è comunque accaduto. Non si comprende però perché venga coinvolto anche un libero professionista che lavora all’interno del proprio studio privato, e che tratterebbe la COVID-19 con la stessa diligenza e responsabilità di qualsiasi altra malattia o evento imprevisto.

Non è chiaro poi se gli Ordini, nel richiedere un intervento di “sensibilizzazione” quando non di “persuasione”, stiano invitando implicitamente i professionisti ad esercitare pressioni sui convincimenti di quelle persone che per epistemologia, sensibilità, idee diverse sulla salute pubblica non vogliono acconsentire alla vaccinazione.

Ciò sarebbe in chiaro contrasto con il divieto, stabilito dal Codice, di usare la propria influenza professionale per orientare le scelte del paziente: “nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori” (art. 4).

Si può derogare a questo principio in forza della presunta verità scientifica? Sottolineiamo “presunta” poiché la scienza procede per errori, per rettifiche, per contraddizioni, per confronti, e non per verità univocamente statuite.

Ogni professionista ha l’obbligo di informarsi e formarsi (artt. 5 e 7) e di valutare i dati in possesso dalla comunità scientifica, così come di valutarne l’aderenza alle regole del metodo scientifico, alla precisione del linguaggio e ai metodi di rilevamento e validazione dei dati.

Il collega che non ignora i dati scientifici “incongruenti” ma che si informa sulle ricadute psicologiche di certe pratiche e che valuta l’impatto sulla salute globale delle persone sta semplicemente rispettando il codice deontologico; allo stesso modo del collega che decide di informarsi sulle conseguenze dirette e indirette di certe biotecnologie (in questo caso l’inoculazione di un farmaco nuovo e sperimentale) o che decida di integrare la propria formazione con letture di carattere etico, filosofico, sociologico e antropologico. Un collega deontologicamente orientato dovrebbe, secondo noi, lavorare a garanzia dell’indipendenza delle conoscenze scientifiche.

Inoltre, in che modo viene garantito il principio di neutralità e di rispetto dei convincimenti delle persone che a noi si rivolgono? Non rischiamo di ricalcare vecchie terapie di “conversione” al sapere costituito?

Il testo di cui lo stesso Ordine è firmatario, condanna qualsiasi posizione in contrasto con quella dichiarata e giustifica una serie di scelte arbitrarie tutt’altro che innocenti, ma che si vestono di giustificazioni tecnocratiche (Mignosi, 2020).

L’implicito nella sospensione è l’illecito deontologico da parte di un  professionista che non rispetta le regole di decoro professionale?

Inoltre, vi è un chiaro conflitto tra questo comunicato che condanna i comportamenti “in netto contrasto con la tutela della salute pubblica e collettiva” e l’imposizione di una vaccinazione che non esclude la presenza di eventi avversi anche gravi, in taluni casi anche la morte[17].

Come può un professionista lavorare in scienza e coscienza, se deve tacere a se stesso e agli altri i dubbi, le contraddizioni, le semplici considerazioni?!

Il rischio implicito di questi poteri-saperi (anche in relazione ai criteri di valutazione bibliografici) è stato ben descritto da Profita e Ruvolo (2020): “si tratta in ultima analisi non di lasciare spazio al pensiero, scientifico e non, una libertà d’investigazione e di ampliamento dei saperi, ma di stabilirne i parametri al fine di controllare la validità e la trasmissibilità di un sapere pre-definito” (p. 10).

Perché, se di questo si tratta, riteniamo che debba essere condiviso e discusso all’interno della comunità professionale più allargata.

Se gli psicologi, solo recentemente, sono diventati operatori sanitari, ci chiediamo quale prezzo stiamo pagando per tutto questo.

Scienza e responsabilità

Telmo Pievani, biologo eticista, è un vero scienziato, e nonostante sia assolutamente aperto alle innovazioni tecniche in campo scientifico (ad esempio la bioingegneria e le sue potenzialità nel miglioramento della qualità della vita umana), ritiene fondamentale mantenere  sempre aperta la questione etica nella ricerca scientifica.

L’etica rimanda alla necessità di guardare alle conseguenze di ciò che facciamo, e per questo riteniamo centrale il tenere sempre aperta la questione etica nella ricerca scientifica.

Non entreremo qui nel merito della mancanza di rigore scientifico di molti dei presupposti su cui si fonda l’intera gestione dell’epidemia[18], o del vaccino a tecnologia ad mRNA, sulla cui sicurezza ed efficacia il mondo scientifico sta tuttora vivacemente dibattendo. Qui ci interessano maggiormente gli aspetti psico-sociali sottesi a certe pratiche.

Già Fukuyama (1992) aveva analizzato attentamente i rischi di controllo sociale insiti in una visione politica che delega alla scienza i criteri per stabilire il confine tra bene e male, giusto e ingiusto, bene collettivo ed egoismo individuale.

La marginalizzazione sociale determinata da certe politiche sanitarie ne è testimonianza.

La scienza, come ci hanno spiegato Morin (2001; 2007) o Ceruti (2018), non è per niente neutra, piuttosto ci dovremmo sempre interrogare se e come delegare al modello scientifico (matematico, statistico) la realizzazione della società desiderabile.

Bollas (2018) sostiene che la credibilità intoccabile della scienza possa essere una reazione agli avvenimenti catastrofici del secolo scorso, che hanno portato ad una progressiva perdita di fiducia nelle capacità umane di risolvere i problemi. Le conseguenze non sono irrilevanti: “avendo rinunciato a considerare noi stessi mediatori credibili della nostra esistenza”, l’essere umano è andato alla ricerca di mediatori esterni (professionisti, tecnici, App) “consentendo al nostro cervello di avvizzire nella narcosi della rinuncia al Sé” (p. 33).

Delegare alla scienza le scelte rilevanti sul piano delle vicende personali, nella convinzione della sua presunta neutralità, significa non comprendere fino in fondo il rischio che siano gli algoritmi a governarci.

Del resto, proprio la gestione di questa emergenza sanitaria è avvenuta per mezzo di molti algoritmi. Gli stessi concetti di salute e rischio, sono mutuati dall’ambito statistico-matematico: il rischio, ad esempio, non riguarda mai la singola persona ma una popolazione, è la probabilità che al suo interno accada un determinato fenomeno[19]. Nulla viene detto sulla persona, su come un fenomeno impatti nella vita di quella persona (che è esito di una storia, di convinzioni, di interpretazioni personali sulla qualità di vita e sulla salute).

“Identificarsi con questo tipo di astrazione statistica significa cimentarsi, sosteneva Illich (1976; 1977), in una “radicale algoritmizzazione di sé”: detto in altri termini un costrutto statistico rischia di sostituirsi all’esperienza sensibile, sradicando il soggetto dalla percezione e valutazione, e virtualizzando la realtà fino all’inverosimile (Cayley, 2020).

A partire da considerazioni molto simili, Bollas (2018) si chiede se queste forme di pensiero operazionalizzato, orizzontale, rivolto all’esterno e al controllo dell’esterno, non siano la prova di un soggetticidio incombente.

“Essere, entrare in relazione ed esistere ‘in prima persona’ oggi risulta forse troppo problematico. La critica postmodernista secondo cui il soggetto era un’illusione ha probabilmente rappresentato la prima oggettivizzazione filosofica del suicidio soggettivo. Ora sembra che l’allontanamento dalla generazione del significato abbia distrutto i Sé in modo diverso: li ha lasciati privi di agentività, semplici oggetti in un mondo di oggetti” (ibidem, p. 129).

Non è un caso, per esempio, che per Arendt (1958) la crisi della modernità sia intrinsecamente legata alla crisi dell’azione come strumento di pratica politica.

“Ogni automatismo, dunque, nella lettura del fatto (o del clima) espone al rischio di genericità poiché non tiene conto, appunto, dello specifico mondo interno del soggetto, della sua storia, e in ultima analisi, della ri-traduzione che ogni soggetto opera di quello stesso fatto sociale: è in tal senso che, nella lettura del fatto sociale, lo psichismo non può costituire un fatto secondario, marginale o addirittura inutile” (Mariotti, Fina, 2021; p. 16).

I modelli matematici statistici escludono dall’orizzonte di senso il significato personale, il potere e la competenza personale, a favore della burocrazia e di una amministrazione impersonale.

Spingendo tout court verso una visione operazionalizzabile dell’umano, le scienze rischiano di schiacciare nell’unità (Arendt, 1958) la pluralità della condizione umana: il riconoscimento di un unico bene vale per una società abitata da individui che funzionano secondo i medesimi meccanismi, i medesimi sentimenti, i medesimi comportamenti[20].

Le pratiche sanitarie sono sempre più intrappolate dentro i costrutti matematici di rischio e di salute, contribuendo così alla delegittimazione del “potenziale umano”.

Oggi le persone non possono più prendere consapevolmente una decisione senza avere prima consultato un tecnico, o accedere ad uno spazio “di diritto” senza un’autorizzazione (certificazioni, autocertificazioni, recentemente anche digitali).

Sempre di più, la società “regolata da algoritmi” rende la vita governata da qualcosa di impersonale laddove, al contrario, il controllo si fa personale con una penetrazione sempre più radicale nei bisogni e nei desideri.

La matematica Cathy O’Neil (2018) spiega che gli algoritmi sono un potenziale strumento di controllo dell’umano e chiarisce, con tanti esempi contemporanei, come l’algoritmo alla base di qualsiasi modello scientifico (economico, medico, educativo) sia sempre espressione di un’idea politica tradotta in operazione matematica. È proprio per tale motivo che, dal suo punto di vista, i modelli matematici  rimangono “innocui” fintanto che non vengono formalizzati e proposti come modelli di comportamento adattabili a miliardi di persone.

Quando gli algoritmi vengono “imposti” entrando in una sfera personale (definendo algoritmicamente cosa per una persona sia “bene”), non solo rischiano di diventare modelli di controllo, ma soprattutto rischiano di qualificarsi come generatori di violenza: chi non si adatta a questi modelli viene visto come irrilevante, privo di valore e comunque sacrificabile. Le esclusioni diventano, così, tollerabili proprio attraverso l’irrilevanza che lascia i soggetti “senza possibilità di appello”.

Per Guerrasi (2019), ad esempio, l’irrilevanza è l’unico modo che la nostra società possiede per tollerare la violenza insita nei modelli matematici.

La scienza medica, il cui ruolo indiscusso nella gestione dell’epidemia è intrinseco nella delega a tecnici, rischia di creare sempre più un solco rispetto alle persone reali, alla vita e al senso comunitario delle cose.

Per Kaës (2013) la società post moderna può essere considerata un “agglomerato di individui” che vivono all’interno di una cultura anonima, impersonale, e inseriti in una storia (personale e collettiva) priva di una vera e propria finalità.

L’essere umano, privato di un orizzonte di senso più ampio, vive il dramma di non potersi “fare soggetto”: relegato in una posizione di anonimia egli rimanere drammaticamente incastrato dentro “processi senza soggetto”.

Come professionisti che si occupano dell’umano, della creazione di salute pubblica dovremmo sempre chiederci cosa si celi dietro la semplice affermazione di “somministrare una cura”: quanto sosteniamo percorsi di soggettivazione? Quanto restituiamo alle persone la loro capacità di donare senso a sé e alla propria storia? Quanto, al contrario, avalliamo pratiche alienanti, culturalmente ascrivibili a quei “processi senza soggetto”?

La matematica dovrebbe essere usata con molta consapevolezza e mai dovrebbe diventare modello globale e sociale, proprio perché rischia di tagliare fuori una fetta della popolazione qualificandola, appunto, come irrilevante.

La post-modernità ha reso i professionisti degli erogatori di servizi che con la salute hanno ben poco a che vedere: mentre invece se uno psicologo o uno psicoterapeuta vengono sospesi, non si interrompe un Servizio[21] ma una cura.

Viene sospesa una relazione definendola illegittima, quando non indecorosa (da cui discende la sospensione) e illegale (da cui discende il reato di abuso della professione).

Il dolore e la rabbia che molti pazienti hanno mostrato davanti alla comunicazione della sospensione del proprio professionista attiene a tutto questo, alla violenza che crea una cesura e che con la loro salute ha ben poco a che fare.

Questi aspetti dovrebbero essere al centro del nostro confronto professionale, anche solo per contribuire ad uscire dal “silenzio etico” di questa epoca (Fina, Mariotti, 2019).

Frattura del patto sociale

La decisione di sottoporre a limitazione la libertà di un cittadino è un atto istituzionale essenziale e ineluttabile all’interno delle società contemporanee.

In virtù di ruoli e/o compiti specifici ciascuno di noi dovrà stabilire con le istituzioni che lo definiscono, ciò che può essere considerato un vero e proprio contratto da cui scaturiscono divieti/obblighi e opportunità.

Già la semplice “cittadinanza” è una categoria di ruolo che si articola in una congerie di aspettative (divieti o obblighi) o diritti (opportunità). Quanto più è specifico il ruolo, tanto più lo è anche il suo corredo.

Alcuni di questi elementi spesso non sono prescritti esplicitamente, ma vengono comunque molto sentiti e praticati per tradizione informale; essi sono capaci di incoraggiare o scoraggiare specifici comportamenti e generare conseguenze sociali che possono impedire o promuovere una corretta assunzione di ruolo.

In psicosociologia i divieti rientrano nell’ambito del cosiddetto “patto denegativo”, mentre i vantaggi in quello del “contratto narcisistico” (Kaës, 1991).

In altri termini, il patto/contratto che lega cittadino e istituzione stabilisce a cosa egli debba rinunciare e quale vantaggio egli ne possa trarre. Affinché un ruolo possa prevedere vincoli anche severi, è fondamentale che restituisca, in cambio, privilegi e possibilità precipue. Un insegnante, per esempio, dovrà astenersi da intrattenere relazioni fisiche con i propri allievi, ma avrà il potere di giudicarne e sanzionarne la condotta.

Applicando tali criteri interpretativi, possiamo desumere che l’introduzione dell’obbligo vaccinale quale patto denegativo (giacché vieta a diverse categorie di cittadini di accedere a comuni diritti), a qualsiasi livello, a qualsiasi scopo e per qualsivoglia intervallo di tempo, debba onorare il contratto narcisistico con i cittadini sottoposti all’obbligo stesso. Ciò sembra tuttavia non accadere. Il consenso informato che l’obbligato è chiamato a sottoscrivere al momento della vaccinazione è infatti una liberatoria da qualsiasi onere a carico dell’istituzione che ha imposto l’obbligo (anche dai rischi che egli corre per la propria salute, a cagione della vaccinazione medesima). L’istituzione cioè non rassicura l’obbligato, non lo rinfranca in alcun modo: non può essere infatti considerato un vantaggio narcisistico o di alcun tipo, l’accesso ai servizi e i diritti che egli possedeva prima che gli venissero sottratti; e tantomeno il diritto di essere risarcito qualora qualcosa dovesse andare storto dopo la somministrazione.

In ambito psicoanalitico già Elliot Jaques (1955) ha affermato che in ogni organizzazione sociale (e quindi anche in ogni istituzione, quale sua dimensione valoriale, affettiva ed inconscia) si realizzano i meccanismi di difesa per proteggere dalle angosce psicotiche che essa stessa produce nelle persone che le abitano. Il paradosso è solo apparente e, a ben vedere, tale principio è congruente con il costrutto di patto/contratto concepito da Kaës. L’assoggettamento dell’individuo alle istituzioni lo espone ad un sentimento di impotenza e pericolo che solo opportuni (talora primitivi) meccanismi di difesa collettivi possono contenere.

Secondo questa rappresentazione, l’intero architrave di ruoli, organigrammi, mansioni, retribuzioni, diritti e doveri, esplicita una struttura visibile e intelligibile che argina la paura di essere schiacciati dal potere dell’organizzazione/istituzione.

Dunque, a nostro avviso, la domanda da porsi è la seguente: in che modo la politica sanitaria di questi ultimi due anni ha saputo contenere le angosce e rassicurare i cittadini?

Le organizzazioni politiche e sanitarie di tutta Europa e in particolare italiane, hanno stabilito di comunicare il rischio del contagio in termini esplicitamente o implicitamente terrorizzanti, sostenendo chiaramente la responsabilità dei non vaccinati. Nonni e cari con disabilità di ogni tipo sono stati individuati come vittime di designati colpevoli.

Al di là delle molteplici argomentazioni che potrebbero mettere in discussione questa rappresentazione, essa è psicologicamente pericolosa, giacché suddivide in buoni e cattivi gli abitanti della comunità (che smette così di essere tale), inasprendo i vissuti irrazionali e provocando paura tanto nei primi, minacciati dai cattivi untori, quanto nei secondi, a cui rimane soltanto la scelta tra accettare di essere esclusi dalla comunità o sottoporsi alla vaccinazione senza nessun paracadute offerto dallo Stato.

Uno Stato che addita capri espiatori e che incoraggia la delazione contribuisce a diffondere il panico (angoscia psicotica), ma non istituisce strutture atte alla protezione dei suoi cittadini da esso, salvo primordiali arnesi difensivi improntati al controllo paranoico, alla scissione e alla proiezione. Non si assume così la responsabilità degli eventuali danni da vaccino. Inoltre rinuncia al compito primario di difesa della comunità, sottraendosi all’onere di riconoscere pubblicamente la parzialità di scelte che, qualora fossero state  vagliate, riconosciute e sostenute come tali – ovvero parziali – avrebbe permesso allo Stato stesso di mantenersi autorevole.

Dinamica del capro espiatorio

Sono stati denominati “no-vax” tutti coloro che, a vario titolo e in ragione di percorsi personali anche radicalmente diversi, hanno preso una posizione di dubbio o di rifiuto nei confronti della campagna vaccinale, ma anche delle politiche sanitarie relative all’epidemia. Paradossalmente sono finiti nella categoria anche coloro che hanno iniziato il protocollo vaccinale previsto, ma non lo hanno terminato per i motivi più vari, anche per esempio per aver riportato danni in seguito al vaccino.

I cosiddetti no-vax sono stati esposti alle dinamiche di marginalizzazione e di criminalizzazione del diverso, quando non di una vera e propria psichiatrizzazione del dissenso[22].

Girard (1982), antropologo francese scomparso recentemente, ha scritto tanto sul capro espiatorio: durante le crisi collettive (come potrebbe essere una pandemia o una pestilenza) il capro espiatorio permette al gruppo sociale di “liberarsi” della violenza, canalizzandola su un bersaglio legittimo e non pericoloso. Il capro espiatorio di fatto è innocuo, perché il suo assassinio non sarà vendicato[23].

Ma di quale violenza parla Girard? Le gravi crisi sociali sfaldano e minano la solidità del legame di comunità, svincolando quella violenza fino a quel momento regolata e contenuta grazie ai “garanti metasociali”. Attorno al “capro espiatorio” si creano, così, nuovi miti e nuove credenze, il cui fine è quello di cementificare, anche solo provvisoriamente, il patto sociale messo in crisi.

Non vi è dubbio che la recente epidemia abbia scatenato angosce profonde, abbia smantellato gli “organizzatori psichici” di lunga durata e messo in crisi istituzioni secolari, esponendo ad una violenza profonda i gruppi e le comunità.

E la violenza attivata da ansie, angosce e paure si placa soltanto attraverso un sacrificio. Il capro espiatorio riesce perfettamente in questo compito, in quanto è al contempo reietto (colpevole) e salvatore (libera la comunità dalla violenza). Ma sappiamo anche che l’istituzione di un capro espiatorio non rimette a posto le capacità di simbolizzazione della sofferenza, della mortalità, della precarietà e della ferita narcisistica.

L’impreparazione delle nostre istituzioni rispetto alla gestione dell’epidemia è sotto gli occhi di tutti, testimoniata spesso anche da una decretazione al limite dell’ossessivo. Una gestione paternalistica che scarica sugli individui singoli (ora i runner, ora i cosiddetti “negazionisti[24]”) la responsabilità della situazione. Il capro espiatorio, ultimamente identificato nel no-vax, è colui che, se escluso dalla comunità, permette alla comunità di riprendere una vita “normale”.

Non possiamo fare a meno di pensare a tutte quelle leggi che hanno restituito libertà ai vaccinati grazie alla limitazione della libertà dei non vaccinati, il cui destino è stato assolutamente irrilevante ed insignificante agli occhi dei più. La maggioranza silenziosa, liberata dal pesante fardello, non ha sottoposto la narrazione ad analisi critica, colludendo con la sua logica irrazionale.

In questo senso, il rischio più grande è che il legame sociale si regga grazie alla “menzogna del capro espiatorio”.

Il capro espiatorio attiva un sentimento di vendetta che dilaga velocemente per “contagio mimetico[25], un’emozione collettiva talmente forte da diffondersi a macchia d’olio all’interno della comunità, e interessando anche i membri meno coinvolti. La folla contagiata è pronta a seguire la prima indicazione di un colpevole additato da un leader per concentrare contro questo bersaglio tutto l’odio di cui è carica.

Uno dei miti attorno al quale ruota la dinamica del capro espiatorio è stato proprio quello del vaccino, la cui autorizzazione è avvenuta più per fede che per rigorosità scientifica.

Molti di noi ritengono che il vaccino sia stato un espediente tecnico non relazionale che ha permesso alle persone di placare specifiche angosce.

Robi Friedman in un recente convegno (2020) che si è svolto proprio alla fine del primo lockdown, ha teorizzato la presenza di una specifica matrice di gruppo definita da lui corona matrix,caratterizza da paure omicide e di contagio e  da un profondo senso di colpa. Il vaccino sembra avere mitigato la colpa relativa all’essere fonte di contagio o di essere contagiato (oltre alla paura della propria morte), poiché si ritiene che il contagio avvenga per qualche comportamento immorale o irresponsabile.

Non è un caso probabilmente che, nonostante il farmaco sia stato brevettato come vaccino per la COVID-19, esso sia stato diffuso, anche nei testi di legge, come vaccino contro il SARS-CoV-2, ovvero come prevenzione del contagio, pacificando il senso di colpa. Così il vaccino diviene la nuova religione che assolve e deresponsabilizza tutti.

Lo statuto di colpevole è un a priori e la certificazione di essersi vaccinato, le certificazioni di esenzione o di differimento rispondono alla stessa medesima logica: servono a dichiararsi innocenti, o a salvarsi dalla condanna.

Hopper (2021), all’interno di una visione più analitica, ritiene che quanto accaduto durante il periodo epidemico possa essere riletto facendo riferimento alla teoria degli assunti di base (Bion, 1961). Egli, infatti, ritiene che quando i gruppi vengono attraversati da traumi sociali, questi suscitano ed attivano delle paure psicotiche di annichilimento. In maniera più specifica, quando un gruppo è così fortemente colpito da minacce di annichilimento, mette in atto una serie di strategie che vanno dall’agglomerato alla massificazione, e che testimoniano l’attivazione del quarto assunto da lui stesso definito dell’incoesione:le istituzioni perdono la loro identità strutturale, vi è una regressione alla semplificazione, il pensiero e i sentimenti si esprimono attraverso stereotipi di massa (con evidente avversione nei confronti di tutto ciò che di individuale può essere espresso) e l’ideale del gruppo è un ideale di uguaglianza, inteso come ideale di essere “tutti la stessa cosa”. Gli stereotipi di massa esprimono anche una violenta dimensione comparativa e valutativa tipica del pensiero binario.

Il gruppo in assunto di base incoesione, ci permette di rispondere anche alla domanda su come mai in questi mesi non si sia riusciti, all’interno della nostra comunità professionale, ad avviare un confronto che possa andare oltre alla logica bipolare sì-vax/no-vax.

In questi mesi abbiamo assistito ad una semplificazione del dibattito, una proliferazione di stereotipi e di luoghi comuni al limite del ridicolo[26], la cui funzione è duplice: da un lato esercitare sui membri una pressione ad aderire e conformarsi in maniera ritualizzata ai valori e alle norme dell’organizzazione, dall’altra escludere e marginalizzare chi non si conforma.

L’establishment, che ha il potere di manipolare le norme di giudizio, tende a istituire dispositivi atti a escludere le persone che non si conformano. All’interno di questa prospettiva, sia il totalitarismo che il processo del capro espiatorio sono esiti dell’assunto di base dell’incoesione.

Nel processo del capro espiatorio, secondo Hopper (2021), le persone non conformi possono subire due destini: o vengono considerati  “subspecie”[27], “esseri non umani”, o al contrario vengono visti alla stregua di fratelli minori irresponsabili e immaturi[28]. Ricordiamo a tal proposito l’articolo “Il pasto gratis dei no vax” che esprime perfettamente questa dinamica quando descrive i no vax come persone che hanno deciso di mangiare il piatto gratis alle spalle di chi fa il proprio dovere civico e che disperdono l’impegno collettivo.

Come professionisti siamo tenuti a mantenerci dentro processi di conoscenza scientificamente orientati, che includono anche le scienze sociali, antropologiche e filosofiche.

Ci aspettiamo quindi che l’Ordine prenda posizione all’interno del dibattito scientifico, dando voce a riflessioni che non possono essere taciute, proprio per il bene della scienza e della collettività.

La dinamica del capro espiatorio è infatti molto pericolosa perché depotenzia le capacità simboliche individuali e collettive, e quindi può portare ad esiti nefasti, sia per la società nel suo complesso, sia per le persone che la compongono.

La Psicologia possiede specifiche e potenti categorie di lettura dei fenomeni sociali, e non può esimersi dal dibattito, per procedere oltre la semplificazione dell’assunto incoesione.

Tutela dei colleghi

Una delle questioni principali riguarda la ratio che ha stabilito che i sanitari siano stati i primi ad essere soggetti ad obbligo e al contempo siano, ancor oggi, gli unici per cui l’obbligo vaccinale comporti la sospensione immediata dal lavoro con privazione conseguente della propria fonte di sostentamento economico (a volte unica).

Sarebbe stato auspicabile motivare alcune scelte cosiddette sanitarie a partire da un’analisi di indicatori di rischio (se vogliamo rimanere nell’ambito del tecnicismo) che evidenziano come i sanitari siano una categoria più a rischio delle altre.

Volendo, quindi, anche far propria la discutibile differenziazione tra operatore pubblico e privato, esistono degli indicatori che rendono lo studio privato di uno psicologo o di uno psicoterapeuta più a rischio di un qualsiasi altro studio professionale? Per altro, va segnalato che la sospensione di un libero professionista, al contrario di un dipendente pubblico, comporta delle conseguenze professionali ancora più gravi, nella misura in cui solo il libero professionista, al momento del reintegro, si troverà costretto a riavviare la propria professione da capo[29].

Nonostante si continui ad affermare che la gestione delle emergenze sia improntata a logiche meramente tecnico-scientifiche, non si comprende quali siano i dati scientifici che ne supportano la ratio, soprattutto alla fine di una emergenza che è durata due anni.

Abbiamo già discusso come, “al fine di tutelare la salute pubblica”[30], la vaccinazione sia divenuta requisito professionale per l’esercizio della professione.

Se è vero che non blocca l’infezione nei Servizi pubblici (cosa evidente nella cronaca e nell’esperienza diretta di ognuno), non si capisce perché la vaccinazione sia “requisito” abilitante per chi opera nello studio privato, dove le misure di sicurezza e i dispositivi di protezione sono sempre stati garantiti secondo disposizioni di legge.

Ci chiediamo quindi, insieme a tanti cittadini che osservano sgomenti la violenza di certi provvedimenti, la motivazione per la quale l’Ordine non sia intervenuto sulla questione “requisito”, tanto da consentire di rendere illegittime, abusive e irregolari perfino le posizioni e le relazioni professionali di quei colleghi che lavorano esclusivamente online.

Se oggi la psicologia è entrata a pieno titolo tra le professioni sanitarie[31], è anche vero che molti psicologi svolgono una funzione che di sanitario ha ben poco, se con tale termine intendiamo le “attività volte alla prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione”.

Tanti psicologi non lavorano all’interno del “contenitore sanitario” e non vedono pazienti, ma nonostante questa evidenza, sono stati sospesi o costretti, loro malgrado, ad una vaccinazione non voluta.

La sospensione ha per altro delle ricadute sui rapporti lavorativi, andando a ledere in alcuni casi relazioni di fiducia e reti professionali: il lavoro di questi professionisti non si svolge mai solo su compiti e obiettivi ma sulla gestione di processi e di percorsi, anche nel caso di colleghi che si occupano di formazione.

Sarebbe stato opportuno interloquire con i legislatori per rappresentare le istanze che, anche in buona fede, possono non aver considerato in maniera corretta.

Riteniamo altresì che l’Ordine debba promuovere azioni volte alla salvaguardia della salute pubblica, anche di quella dei propri iscritti, per i quali vige la regola della colleganza[32].

Rispetto all’obbligo vaccinale diretto ed indiretto[33] vorremmo, quindi, porre all’attenzione di codesto Ordine un aspetto psicologico decisamente non irrilevante, e conseguente ad una gestione poliziesca e paternalistica dell’epidemia.

I professionisti sanitari, come tanti cittadini, sono stati oggetto di un vero e proprio ricatto vaccinale, un ricatto che lascia una traccia visibile.

Come qualsiasi metodo educativo fondato sulle umiliazioni e sulle frustrazioni, rischia di alimentare una catena invisibile di veleno sociale.

Non permettere a liberi professionisti, validi, capaci e formati, di esercitare il lavoro per il quale hanno faticato anni, è fortemente in contrasto con i principi etici[34] di ogni professione sanitaria, che dovrebbe avere al centro la salvaguardia della dignità personale[35] di tutti gli individui.

La “solidarietà sociale”, così ben evidenziata nella campagna vaccinale, entra in netto contrasto con la dimensione coercitiva della stessa, tanto che nessun medico vaccinatore eseguirebbe alcun intervento clinico senza avere prima acquisito un consenso informato[36].

Tralasciando l’assurdità logica di un consenso ottenuto sotto forma di coercizione, il bene comune non può mai ledere il rispetto della dignità personale, come è chiarito nella Costituzione Italiana (art. 32). Nel caso della vaccinazione, l’articolo in questione prevede come limite espresso ai trattamenti sanitari, quando resi obbligatori per legge, il rispetto della persona umana[37].

La sospensione dall’attività lavorativa e dalla relativa retribuzione per chi non ottemperi all’obbligo vaccinale contrasta dunque con i valori fondanti la nostra Costituzione.

Impedendo ai colleghi sospesi di esercitare la propria attività lavorativa e di percepire la relativa retribuzione, li si priva della possibilità di vivere liberamente e dignitosamente. In sostanza viene meno il rispetto della loro persona, della loro dignità, oltre che della dignità della loro famiglia, che anche (o a volte soltanto) grazie a quell’entrata economica trovava sostentamento.

E non si può fare a meno di osservare che togliere i mezzi di sussistenza attenti anche allo stesso diritto alla salute: intesa come salute fisica, psichica e sociale.

Inoltre, non va dimenticato che, come recita l’articolo 36 della Costituzione, la finalità della stessa del lavoro e della relativa retribuzione è “garantire un’esistenza libera e dignitosa” ai lavoratori stessi e alle loro famiglie.

È chiaro che molti cittadini e professionisti abbiano subito una forte pressione psicologica, che possiamo definire violenza simbolica, da alcuni definita anche oppressione istituzionale, proprio nella misura in cui sono diventati oggetti di biasimo, isolamento nei posti di lavoro, denigrazione professionale, licenziamento, interruzione di percorsi di terapia personale, interruzione di percorsi  formativi professionalizzanti e per ultimo di provvedimenti di sospensione per mancanza di requisiti all’esercizio della professione.

Il provvedimento di sospensione, nel “rispetto”[38] della legge, ha creato malessere in tutti quei professionisti che sulla professione avevano fondato e costruito un progetto personale e professionale, che sulla garanzia di un lavoro avevano sviluppato investimenti per la propria famiglia, e che hanno subito una drastica interruzione degli introiti economici in un momento per altro di difficile crisi economica dell’intero nostro Paese.

Come pensare che tutto questo, a proposito di bene comune, non graverà sul Welfare State[39]?

Questa pressione psicologica (perdere il lavoro, interrompere una carriera, minacciare un progetto di vita) può portare a situazioni di grave malessere (si guardi la letteratura sul tema a titolo esemplificativo), a condizioni di ipervigilanza e di preoccupazione costanti.

Tutto ciò non può continuare ad essere celato perché, come sappiamo da anni grazie agli studi sulle pressioni psicologiche e sulle violenze simboliche, il silenzio è il miglior alleato di questo malessere.

Il silenzio porta con sé sempre un malessere aggiuntivo, e il disconoscimento della sofferenza crea un circolo vizioso che, almeno in questo caso, speriamo possa essere interrotto, anche grazie alla nostra azione ed all’intervento dell’Ordine.

Il Consigliere Calogero Lo Piccolo scrive in un recentissimo articolo (2021): “viviamo in un sistema abusante di cui siamo tutti vittime poco consapevoli, a volte, e che spesso colludono con il sistema abusante. Conoscere se stessi oggi vuol dire individuare le personali soglie di tolleranza (…). Governare se stessi ha molto a che fare con la possibilità di individuazione di queste soglie. E sul rispetto delle stesse (…) La psicoterapia è in fondo un apprendimento dell’esperienza, ma un apprendimento che verte soprattutto sull’effetto delle soglie e il rispetto delle stesse. Per non diventare l’abusante di me stesso, o la vittima inconsapevole che collude con l’aggressore”.

Come può un professionista lavorare su questi obiettivi se istituzionalmente gli viene negata la possibilità di comprendere e rispettare le proprie soglie di tolleranza?

Sappiamo bene che la capacità di un professionista di esplorare aree di funzionamento mentale e di sostenere il paziente in un processo di cambiamento dipende dalla capacità e possibilità di esplorare il proprio funzionamento mentale.

Alla luce della fine dello stato di emergenza, delle odierne conoscenze scientifiche sull’efficacia assoluta e relativa dei vaccini e delle ricerche sugli eventi avversi, diviene necessario e urgente un intervento in tal senso di Codesto Ordine e del CNOP, a garanzia di una posizione che non può essere sbrigativamente liquidata come antiscientifica[40].

La tutela dei colleghi professionisti dovrebbe essere una priorità di questo Ordine, così come la difesa della qualità del lavoro degli stessi.

Non garantire il confronto tra colleghi entro gli Ordini professionali ha impedito di offrire al Legislatore contributi a tutela della salute pubblica e dei colleghi che hanno scelto altre forme di protezione individuale. Il malcontento così viene indirizzato agli Ordini e non più al Ministero. Quella che doveva essere un’azione necessaria nell’ambito della concertazione sociale, si sta spostando dentro le aule di Giustizia e gli studi degli avvocati, anche a causa del silenzio istituzionale degli organi sussidiari coinvolti.

Tutela dei diritti dei pazienti

Il rapporto psicologo-cliente, e ancor di più quello tra psicoterapeuta e paziente, è qualcosa di “sacro”, e quindi va tutelato.

Il fatto che una legge possa disporre, in base ad un criterio arbitrario, l’immediata sospensione di terapie, relazioni di aiuto, percorsi formativi in corso, entrando nel merito di un rapporto basato sulla fiducia (e non chiedendosi nemmeno in che tempo della relazione tale sospensione avvenga), è qualcosa che non ha precedenti.

Professionisti di qualità, etici e interpreti seri di una deontologia professionale si trovano a dover abbandonare pazienti (con l’interessamento di famiglie e di gruppalità varie), la cui salute e serenità sono già gravemente compromesse dalle vicende sociali odierne.

Sappiamo bene come questo Ordine abbia a cuore la salute dei cittadini. Lo ricorda il Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia – Dott.ssa Gaetana D’Agostino – in occasione del mancato rinnovo del contratto a 19 psicologi da parte degli Ospedali Riuniti Villa Sofia-Cervello. In una intervista in cui manifestava solidarietà e sostegno alla causa di questi colleghi, la D.ssa D’Agostino riteneva “assurde (le scelte dell’Azienda) in quanto lesive sia per una intera categoria professionale che per i pazienti e i loro familiari, che hanno visto negato il loro diritto alla salute. Dall’oggi al domani anche loro si sono trovati senza assistenza psicologica con un grave problema da affrontare e riteniamo che questa sia una visione miope dell’Azienda e speriamo che risponda al più presto a quelle che sono le esigenze dei loro pazienti e degli operatori sanitari (…). Due anni di pandemia ci hanno insegnato che occuparsi di salute significa anche occuparsi di salute psicologica”.

Condividiamo le parole della Dott.ssa D’Agostino e ci chiediamo come mai la stessa attenzione non sia stata posta nei confronti di tutti quei pazienti a rischio suicidario, con disturbo ossessivo-compulsivo, affetti da paranoia, schizofrenia, nei confronti di adolescenti autolesionisti, di pazienti borderline, donne maltrattate il cui diritto alla cura era quanto meno garantito (non avevano di certo sciolto alcun tipo di contratto con il professionista).

Perché il diritto alla cura di queste persone è stato più volte ignorato? Perché un contratto non rinnovato per scelte interne ad una Azienda è oggetto di maggiore interesse rispetto a un contratto tra un professionista e “un paziente” che viene tranciato in maniera brusca e violenta per una legge di cui, per altro, sono dubbi, lo ribadiamo nuovamente, i profili di costituzionalità?

Quando parliamo di “cura” delle persone facciamo, inoltre, riferimento al fatto che le forme di malessere di molti dei nostri pazienti rimandano profondamente al clima sociale della contemporaneità (non possiamo fare a meno di notare come le richieste di aiuto siano aumentate durante la crisi sanitaria della COVID 19).

Il soggetticidio di cui parla Bollas (2018) rimanda proprio all’idea che le persone oggi soffrono per una difficoltà di accedere a uno sguardo interno e, di conseguenza, a forme di soggettivizzazione e di ricerca di senso personale.

Le persone che si rivolgono a professionisti, oggi, soffrono perché smarriti nel mondo delle scelte, persi in una nientificazione del senso personale e soggettivo[41], annichiliti da ideali iperprestativi, che schiacciano il Sé dentro una pura logica omologativa e livellatrice. Portano un vissuto di catastrofe imminente e la sensazione angosciante di essere in balia di forze esterne ingovernabili, che fanno scivolare dalla possibilità di essere autore al sentirsi preda di un avvilente vissuto di impotenza.

I pazienti che spesso si rivolgono ai professionisti “si sentono immersi in una realtà a cui è venuta meno la processualità esistenziale indispensabile, nell’avvio del percorso di soggettivizzazione, a riconoscere la necessità dell’acquisizione di responsabilità individuale e progettuale. Si tratta di una mancanza sostanziale, che perpetua l’assenza di pensiero e abbandona il soggetto al potere della deriva di un caos identitario a cui si reagisce con forme difensive estreme” (Fina, Mariotti, 2019, p. 119).

L’eteronormatività diviene così la forma principale che rimane per potere regolare e regolarsi. Come ricorda Stanghellini (2020), oggi “la macchina-di-dentro” sta lasciando il posto alla “macchina-di-fuori”, con il rischio di una sempre maggiore delega e un’accettazione passiva di situazioni totalitarie.

A partire da una prospettiva diversa, Pigozzi (2019) segnala come il mancato processo di soggettivizzazione lasci pericolosamente spazio a quella che chiama ombra totalitaria. “L’ombra totalitaria” – sostiene – è sempre indissolubilmente legata a un’umanità narcotizzata, dormiente, ubbidiente. Nelle nostre democrazie senza pensiero critico, i ragazzi – nonostante apparenti proteste – sono docili e ubbidienti, psichicamente allevati per essere sudditi” (p.160).

Le persone che chiedono un aiuto sono alla ricerca di relazioni validanti, volte alla soggettivizzazione: ricercano una relazione all’interno della quale possano contrastare il proprio sentirsi schiacciati da logiche anonime, impersonali, di oggetto tra oggetti. La relazione terapeutica svolge una funzione essenziale in quanto permette una visione di sé competente, sostiene scelte “coraggiose”, allena all’ascolto di sé in rapporto agli altri. Detto altrimenti, consente di sviluppare una competenza meta che aiuta a pensare ciò che sovradetermina, di scegliere una posizione soggettivizzante ed autentica nel mondo, che dia voce ai “nuclei viventi rimasti in attesa” (Modell, 1986).

Trovare uno spazio per dare senso a tutto questo è fondamentale: la presenza di un contenitore vivo, capace di animare gli aspetti vivaci e creativi della mente all’interno di una relazione solida e significativa spesso è uno dei primi passi per avviare un reale processo di cambiamento.

Già molte ricerche individuano nella “relazione terapeutica” un fattore aspecifico indispensabile per qualsiasi processo di cambiamento: relazioni che permettono di compiere “esperienze emozionali correttive” (Alexander et al., 1946).

In effetti, proprio la comparsa nel dialogo clinico di strutture e dinamiche mentali relative all’attaccamento, è condizione che potenzialmente permette esperienze relazionali correttive nel paziente, di regola accompagnate dallo sviluppo delle capacità metacognitive (Liotti e Monticelli, 2014).

Lo stesso Bowlby (1996) ha sottolineato come la relazione terapeutica possa costituire un importante fattore di cambiamento dello stile di attaccamento, consentendo al paziente di passare da uno stile insicuro a uno stile sicuro.

In questo processo, il compito del terapeuta è anche quello di agire come una figura di attaccamento, creando una base sicura che consenta al paziente di procedere nell’esplorazione delle proprie esperienze e dei propri vissuti di attaccamento, favorendo esperienze emozionali correttive capaci di disconfermare i modelli operativi interni insicuri.

Quella logica che permette di tranciare con estrema facilità una relazione significativa costruita con impegno e innumerevoli sforzi personali, quanto può essere replicante di questo “sentirsi oggetto tra gli oggetti”? Quanto la possibilità di sospendere un professionista in base ad un criterio arbitrario diviene replicante di una logica che permette di pensare che le relazioni siano parimenti discontinue e sostituibili? Quanto una situazione così descritta va a ledere, come mai successo fino ad ora, il diritto dei pazienti alla cura e alla scelta del curante?

Non possiamo fare a meno di chiederci quanto sia realmente tutelante per questi pazienti, che presentano delle vulnerabilità emotive di una certa rilevanza, interrompere una psicoterapia senza nessuna valutazione dei rischi.

Molti pazienti, a seguito della comunicazione dell’interruzione sine die[42] dei propri “legami” terapeutici, hanno manifestato rabbia, disorientamento, la sensazione di schiacciamento e di quell’anonimia che abbiamo più volte segnalato in questo documento.

Proprio nel luogo dove stanno apprendendo e scoprendo il valore della propria diversità (al di là dei dispositivi psichici omologanti e annichilenti il sé) vivono, di nuovo, l’esperienza di non essere stati pensati e garantiti.

L’esperienza di dolore di queste persone è stata talmente forte da avere toccato livelli di sfiducia istituzionale molto forti, sensazioni di angoscia, di abbandono e la sensazione che sia la persona, che la stessa relazione, venissero nuovamente inglobate nell’acquiescienza, nell’omologazione, nel “divieto a pensare” in una visione esclusivamente replicante dell’umano.

Va, inoltre, segnalato come la stessa comunicazione ai pazienti della propria sospensione sia avvenuta al di fuori di un setting/contenitore terapeutico (che sappiamo essere il “dove” si colloca l’intervento). Il setting, non lo dovremmo ricordare, è ciò che circoscrive, caratterizza e definisce l’attività clinica.

L’integrità del setting permette di costruire un solido contenitore interno che consente l’elaborazione e la simbolizzazione dell’esperienza vissuta.

Winnicott (1970; 1975) usa il termine setting per indicare quel contesto relazionale che, in quanto area transizionale, permette di pensare i fenomeni ed i sintomi, di dare loro significato e di creare nuove possibili connessioni: come può essere gestita la rabbia, la delusione, la riattivazione di parti traumatiche anche di tipo transferale, se il professionista è sospeso e quindi non autorizzato a “trattare” il proprio “ex paziente”, e il setting è stato dissolto per legge?

La stessa comunicazione della sospensione e relativa motivazione, in alcuni casi si è configurata come self-disclosure inappropriata (soprattutto emotiva: la sospensione ha un chiaro impatto emotivo sul professionista) che sappiamo essere correlata con una rottura dell’alleanza terapeutica.

Se è vero che il processo terapeutico procede per rotture e riparazione dell’alleanza (Costantino, Castonguay e Schut, 2002), è altrettanto vero che i pazienti che hanno sentito nella comunicazione una rottura dell’alleanza terapeutica si sono ritrovati soli nel potere dare senso a quanto accaduto al terapeuta e alla stessa relazione.

In maniera ancora più specifica possiamo intendere, in accordo con De Bei, Colli e Lingiardi (2007) che “il processo terapeutico” possa essere considerato “come il tentativo di costruire (alleanza terapeutica) una relazione sicura (attaccamento) attraverso una serie relativamente identificabile di vicissitudini (rotture, riparazioni), caratterizzate da dinamiche che coinvolgono la soggettività dei partecipanti (transfert, controtransfert)”.

Non possiamo non chiederci se l’Ordine degli Psicologi abbia pensato a queste conseguenze, non banali, di una sospensione avvenuta non per mancanza di titoli (uno psicologo che fa psicoterapia, ad esempio) ma per un criterio non specifico stabilito dentro una stanza ministeriale.

Sarebbe opportuno che l’Ordine prendesse una posizione anche in merito alla tutela delle persone che hanno liberamente scelto la persona con cui avviare un processo di cambiamento personale (per caratteristiche umane del terapeuta, per la sua personalità e il suo modo di partecipare alla relazione, per caratteristiche di setting).

La comunicazione della sospensione del proprio terapeuta ha accentuato le angosce abbandoniche e le rabbie, aumentando la sfiducia nelle istituzioni e nel mondo scientifico.

E proprio in un momento storico in cui la sfiducia nelle istituzioni è alle stelle, dovremmo seriamente chiederci se la scelta di non rappresentare e “difendere” i percorsi di cura tuteli veramente l’importanza e l’immagine sociale della nostra professione.

I soggetti che si rivolgono ad un professionista della psicologia, in senso ampio, presentano aspetti molto delicati, la cui attenzione e tutela dovrebbe essere un impegno di tutta la comunità professionale.

Non siamo soltanto in assenza di alcuna evidenza scientifica che vuole uno studio professionale privato di natura psi (caratterizzato da misure igieniche previste dalla legge, non affollato, confortevole) luogo pericoloso per i soggetti “fragili”, ma è anche necessario chiedersi a questo punto cosa “abbiamo in mente” quando parliamo di soggetto fragile: immunodepresso? malato? malato di cosa?

Ci chiediamo e chiediamo come mai sia stato così facile accettare questa visione di fragilità che è una definizione chiaramente mutuata dalla medicina “del rischio”, a discapito di una “fragilità” psicologica più legata ad una vulnerabilità soggettiva, all’insicurezza nelle relazioni, alla mancanza di fiducia nel prossimo o nel futuro, a relazioni maltrattanti, a sensazioni di annichilimento e confusione.

Come mai nella discussione è stata prevalente la visione di una “fragilità” non chiaramente definita neppure da un punto di vista medico, e non la tutela delle “vulnerabilità psicologiche” e dei bisogni psicologici delle persone che si rivolgono ad un professionista?

Il presupposto iniziale su cui si è basato l’obbligo vaccinale era quello di “proteggere i fragili” e su questo hanno aderito gran parte dei colleghi. Ma questo ipotetico paziente fragile da proteggere è forse meno capace di comprendere quale sia il proprio interesse, è meno competente a comprendere se le condotte di un professionista ledono la propria salute o ne mettono a rischio l’incolumità fisica?

Come è stato possibile che il mondo professionale abbia accettato che la somministrazione di un vaccino potesse diventare valore superiore al diritto del paziente a mantenere una relazione significativa, il cui senso terapeutico è stato dimostrato dalle ricerche sul tema (Safran e Muran, 2006)?

È plausibile pensare che l’essere professione sanitaria, come è stato più volte ricordato in questi mesi, abbia portato a mutuare un linguaggio medico all’interno della nostra comunità professionale, senza una riflessione profonda su cosa questo comportasse?

“Un miope utilitarismo ci ha indotto a pensare che la nostra vita fosse una buona vita a condizione che non ci facessimo troppe domande. Con un gioco di prestigio collettivo, l’attenzione è stata diretta verso la fede in alcune abilità selettive, quali la capacità di pensare in termini scientifici e la facoltà di inventare nuove tecnologie” (Bollas, 2018, p. 32).

Riteniamo che l’essere diventati professione sanitaria non debba farci dimenticare la tradizione dalla quale veniamo e neppure ripiegare in letture mediche del problema. Decidere la sospensione immediata di una relazione di cura, presumibilmente anticostituzionale per altro, è ledere il diritto della persona all’autonomia nella scelta, rendendola oggetto passivo di una “semplice” prestazione sanitaria; è allontanarsi da una visione competente, autonoma e autodeterminante del cliente che si rivolge al professionista. La libertà del cliente cede alla passività del malato. 

Il requisito “vaccino” sarebbe, così, intrinsecamente legato ad una visione passivizzante, immunizzante e medicalizzata della persona che si rivolge a noi professionisti. L’introduzione di un trattamento sanitario (la vaccinazione) come requisito necessario per lo svolgimento di una professione dovrebbe quindi essere al centro di un dibattito interno che al contrario sembra non esserci.

Appellarci a un tecnicismo scientifico ha come pericolosa conseguenza di neutralizzare il confronto professionale e politico-professionale su temi che hanno una rilevanza per certi versi epocale.

L’obiezione di coscienza attiva è quindi, oltre che un atto di autotutela giuridica e sanitaria, anche una forma di partecipazione consapevole e responsabile del cittadino alla vita pubblica: chi la esercita non persegue unicamente uno scopo personale ma si fa carico in prima persona di un’azione di giustizia civile e di tutela dei diritti costituzionali e umani.

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[1] Non è obiettivo del presente documento mettere in evidenza le contraddizioni normative (per cui diversi Ordini hanno applicato “sanzioni diverse”) e le incongruenze logiche della decretazione successiva a marzo 2020 (inizialmente nel pieno della mortalità si poteva lavorare perfino in presenza, oggi neppure online).

[2] La definizione di “vaccino” è stata recentemente modificata nei documenti ufficiali delle principali istituzioni sanitarie, proprio mentre i farmaci che adesso chiamiamo “vaccini” affrontavano l’iter di approvazione.

Il Center for Disease Control and Prevention (CDC), ossia l’ente governativo statunitense deputato al controllo sulla sanità pubblica e a pronunciarsi, insieme alla Food and Drug Amministration (FDA), sulla sicurezza dei vaccini, ha recentemente modificato la definizione di vaccino.

Se in precedenza esso veniva definito “un prodotto che stimola il sistema immunitario di una persona a produrre immunità a una malattia specifica, proteggendo la persona da quella malattia”, a partire dal settembre del 2021 viene definito vaccino: “una preparazione che viene usata per stimolare la risposta immunitaria del corpo contro le malattie” (link consultabili alle due versioni: https://web.archive.org/web/20210812210635/https://www.cdc.gov/vaccines/vac-gen/imz-basics.htm, https://www.cdc.gov/vaccines/vac-gen/imz-basics.htm).

Com’è evidente, si tratta di una differenza non da poco: secondo la nuova definizione un farmaco, per essere denominato “vaccino”, deve essere un preparato in grado di “stimolare” una risposta immunitaria, eliminando il precedente requisito per cui doveva “produrre immunità” (nel dizionario Garzanti: “una condizione di refrattarietà di un organismo a una malattia infettiva”).

Come segnalato da alcuni organi di stampa (L’Indipendente, ad esempio) e confermato dagli stessi documenti online degli Enti suddetti, è interessante notare che «la modifica della definizione di vaccino da parte dell’ente statunitense sia avvenuta in corrispondenza temporale con l’approvazione definitiva del vaccino anti COVID-19 prodotto da Pfizer-BioNTech. Nel comunicato ufficiale di approvazione dello stesso, pubblicato dalla FDA il 23 agosto, si legge che il vaccino sarà commercializzato “per la prevenzione della malattia COVID-19”. Un risultato probabilmente in linea con la nuova definizione di vaccino nel frattempo modificata dal CDC, ma che non avrebbe soddisfatto la precedente definizione, secondo la quale avrebbe dovuto produrre “immunità”» (https://www.lindipendente.online/2021/09/08/esclusivo-gli-usa-hanno-modificato-la-definizione-di-vaccino-durante-lapprovazione-di-pfizer).

Non useremo qui, invece, il termine “pandemia”, utilizzando il più generico epidemia, per motivi analoghi, che cioè riguardano una questione altrettanto controversa, sulla quale vi è ancora ampio dibattito. Più di dieci anni fa, nel 2009, nel corso dell’epidemia di influenza denominata H1N1 (anche detta “suina”), l’OMS cambiò la definizione di “pandemia”: quella originaria era “malattia che si diffonde molto velocemente e causa un gran numero di malati gravi e di morti”, la successiva diventò “un’epidemia che si verifica in tutto il mondo, o su un’area molto vasta, che attraversa i confini internazionali e che di solito colpisce un gran numero di persone”. Apparve subito evidente che la nuova definizione, non facendo riferimento alla gravità della malattia o alla letalità, non permetteva più di distinguere tra influenza pandemica ed influenza stagionale. Ricordiamo allora solo brevemente lo scandalo che investì l’OMS negli anni a seguire, riconosciuta colpevole dalla Commissione Sanità dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa di aver generato un indebito allarme e causato un danno ingente sia alle casse degli Stati europei, che alla salute dei cittadini indotti a vaccinarsi senza necessità o benefici. Per un approfondimento, il famoso documentario della tv svizzera RSI: www.rsi.ch/la1/programmi/informazione/falo/tutti-i-servizi/Il-fantasma-della-pandemia-1876920.html

Ancora, una simile operazione di modificazione semantica sostanziale e non meramente formale, è stata attuata recentemente per il termine “immunità di gregge”, che fino al 9 giugno 2020 il sito dell’OMS riportava essere “la protezione da una malattia infettiva che si realizza quando una popolazione è immunizzata tramite vaccinazione o immunità sviluppata tramite precedente infezione”, ma che una modifica ad opera del direttore generale Tedros Ghebreyesus, dal 13 novembre 2020, ha trasformato in “un concetto usato per la vaccinazione, in cui la popolazione può essere protetta da un certo virus se viene raggiunta una certa soglia di vaccinazione […] e non attraverso l’esposizione ad esso” (www.who.int). In sostanza, scompare uno dei concetti più noti e condivisi della medicina, quello di immunità naturale.

[3] Una bizzarria del D.L. 172/21 prevedeva che i professionisti sprovvisti della dose di richiamo possedessero un  green pass attivo ed utile per la vita sociale: il soggetto poteva  recarsi in qualsiasi luogo di aggregazione. Al contempo però lo stesso GP non consentiva loro di esercitare la professione all’interno del proprio studio privato. I guariti da COVID-19 vivono un’analoga situazione paradossale.

[4] Altra ambiguità a cui certa decretazione ci espone è la seguente: può convivere all’interno della stessa istituzione il mandato di controllo e il mandato di tutela?

[5] Per un ulteriore chiarimento di cosa si intenda per senso plurale della condizione umana si rimanda al testo di Arendt “Vita Activa” (1958).

[6] Data l’importanza del D.L. 44/21 e delle sue ricadute sulla vita personale e professionale dei colleghi iscritti, siamo certi che i rappresentanti del nostro Ordine siano a conoscenza delle innumerevoli sentenze dei TAR italiani riguardo al profilo di incostituzionalità del decreto.

[7] La sospensione dall’Ordine è il penultimo provvedimento disciplinare in ordine di gravità.

[8] In contrasto, per altro, con gli articoli 3, 4, 32, 33, 34 e 97 della Costituzione Italiana.

[9] Così il senatore Alberto Bagnai nell’interrogazione al Ministro della Salute del 1 aprile 2022: “il consiglio di giustizia amministrativa della Regione Sicilia, nella sua ordinanza n. 351 del 2022, cita espressamente «la inadeguatezza della farmacovigilanza attiva e passiva» fra i motivi di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 del decreto-legge n. 44 del 2021, nella parte in cui questo prevede l’obbligo vaccinale per il personale sanitario. Questo perché, secondo la Corte costituzionale, l’obbligatorietà di un vaccino è legittima solo se, tra l’altro, si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute del paziente, fatte salve le conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili. Ma in assenza di una farmacovigilanza adeguata, questa valutazione è in re ipsa preclusa. […] il tema del bilanciamento tra il diritto alla salute e quello al lavoro è oggetto di un numero crescente di ordinanze dei TAR, che deprecano la logica ricattatoria sottostante al decreto-legge n. 44 del 2021 […] schierandosi, i tribunali, a difesa dell’articolo 1 della Costituzione”.

[10] Il termine “ambiguità” fa riferimento alla teorizzazione di Bleger e alla tradizione della Scuola Psicoanalitica Argentina.

[11] “Il non saperci fare con il linguaggio è un segno di disinvestimento nella lingua pubblica” (Pigozzi, 2019, p. 168). “Chiamare le cose con il loro nome” significa poter andare al fondo delle conseguenze estreme di una propria posizione e potersene prendere consapevolmente la responsabilità.

[12] “C’è gente che ha fatto una scelta che la mette fuori dalla comunità” (Myrta Merlino, “L’Aria che tira”, puntata del 6 dicembre 2021). Con questa frase la giornalista fa eco a diverse dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi. Si veda inoltre, più avanti, il paragrafo sul capro espiatorio.

[13] “L’Appropriarsi del mondo è un appropriarsi di se stessi, la presa di posizione verso l’esterno è una presa di posizione verso l’interno, e il compito posto all’Uomo […] è sempre un compito oggettivo da padroneggiarsi verso l’esterno, quanto anche un compito verso se stesso. L’Uomo non vive, bensì conduce la sua vita  (Gehlen, 1940, pag. 78).

[14] Segnaliamo anche come certi alti ideali rischiano di creare forme di “sparizione di sé” e di “biancore” (Le Breton, 2016).

[15] Oltre ai già menzionati procedimenti relativi ai profili di costituzionalità delle normative italiane, questo Ordine sarà altresì adeguatamente informato sulla legislazione europea e internazionale rispetto alla somministrazione coatta di farmaci sperimentali (Oviedo,1997; Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, (2000/C 364/01); UNESCO, 2005; Lisbona, 2009; Regolamento UE nr. 953/2021).

[16] La legge 56/89 istituisce gli Ordini Psicologici e regolamenta l’esercizio dell’attività psicoterapeutica. All’interno dei diversi Ordini Regionali e Provinciali confluiscono una serie di professionisti che erano già rappresentati da associazioni e società scientifiche. L’obiettivo principale della legge era quello di tutelare i cittadini da eventuali abusi o da prestazioni senza garanzie. I provvedimenti disciplinari sono regolamentati dagli articoli 12, 26 e 27. L’art. 26 prevede le sanzioni disciplinari per gli iscritti che si rendano colpevoli “di abuso o mancanza nell’esercizio della professione o comunque si comporti in modo non conforme alla dignità e al decoro professionale”. A seconda della gravità sono previste tutta una serie di sanzioni disciplinari che vanno dal semplice avvertimento alla radiazione. La sospensione è la penultima in termini di gravità. La sospensione per mancata vaccinazione, però, non trova riscontro né all’interno del nostro Codice Deontologico né nella stessa legge.

[17] Cfr. Ordinanza CGA Regione Sicilia del 17 marzo 2022.

[18] Alcuni esempi delle questioni più controverse sono i test PCR (dichiarati non diagnostici da più di una istituzione medico scientifica e nonostante ciò, nella maggior parte dei casi, condizione sufficiente per diagnosi di COVID-19), l’utilizzo delle mascherine e l’imposizione dei lockdown.

[19] Tale presunzione ha delle importanti ricadute sulla nostra pratica, ad esempio, preventiva. Per Sala (2009) sarebbe più corretto definire preventiva qualsiasi azione che abbia come obiettivo primario l’attenzione all’ambiente e un discorso politico di riorganizzazione e di sviluppo non solo economico. Al contrario la prevenzione primaria intesa come realizzazione di programmi su vasta scala può essere più correttamente intesa come diagnosi precoce. Una pratica preventiva volta all’individuazione della malattia ove ancora non è manifesta rischia di creare delle nuove figure di malati: pre-malati (soggetti a rischio), forse-malati (individui predisposti), sani preoccupati (che si credono o sono indotti a credersi malati). Il graduale disinteresse per l’attenzione all’ambiente, infatti, fa sì che la malattia, così come il rischio di malattia, diventi responsabilità del singolo (che spesso si muta nella colpevolizzazione). L’eccessiva spinta alla predizione clinica, quindi, deresponsabilizza sia la politica tout court che la politica professionale, e ribalta la socializzazione della medicina in una crescente e invadente medicalizzazione della società.

[20] Ne L’età dello smarrimento Bollas (2018) riflette su come l’operazionalismo scientifico sia con il tempo diventato un dispositivo per eliminare la differenza e modellare un mondo di esseri umani indistinguibili. La paura che spesso i pazienti riferiscono in seduta è proprio quella di essere diversi: “non la pensano tutti come la penso io?”, chiedono in cerca di una rassicurazione.

[21] In quanto “erogatore di servizi”, il professionista psicologo viene appiattito dentro una logica consumistica, in cui sia il cliente che l’erogatore sono facilmente sostituibili.

[22] Diversi ricercatori hanno indagato presunte problematiche psicopatologiche dei cosiddetti “no vax”, senza mai articolare la descrizione del contesto storico, culturale e relazionale, e postulando a priori il disagio, sempre precedente e mai conseguente alle somministrazioni. Tralasciamo in questa sede le considerazioni epistemologiche e metodologiche sulla validità di tali ricerche e le osservazioni sulle responsabilità etiche di tali ricercatori, che pure sarebbero doverose.

[23] Il silenzio compiacente nei confronti di chi veniva escluso dalla vita lavorativa e sociale ne è testimonianza. Probabilmente, nei confronti di qualsiasi altra minoranza, ciò avrebbe provocato scalpore e sdegno.

[24] Si è giunti a tacciare di negazionismo chiunque si faccia domande sul virus, sui dati scientifici che hanno permesso di identificarlo e distinguerlo da altri coronavirus, o sulla validità dei test diagnostici per rilevarne la presenza nella popolazione, anche quando tali domande vengano avanzate da voci autorevoli e titolate. Il termine scelto, per di più, svolge la funzione di affibbiare tout court, a chiunque si intesti tali questioni, un giudizio simile a quello destinato al negazionismo dell’Olocausto, di fare cioè un “uso spregiudicato e ideologizzato di uno scetticismo […] portato all’estremo” (https://www.treccani.it/enciclopedia/negazionismo), e pertanto da stigmatizzare radicalmente senza ulteriori approfondimenti.

Si noti analogamente, come in tutto il mondo ogni sguardo critico rispetto alla gestione sanitaria e politica o anche ogni domanda sull’origine naturale o ingegnerizzata del virus, siano stati sovente tacciati sommariamente del termine dispregiativo complottismo.

[25] Ricordiamo per onere di cronaca, alcune esternazioni che personaggi pubblici hanno reso su canali social e di stampa: Fosse per me costruirei anche camere a gas; Campi di sterminio per chi non si vaccina; Verranno chiusi in casa come sorci… Lockdown solo per i novax; Caccia ai novax… Staniamo i novax…; I rider devono sputare nel loro cibo; Mi divertirei a vedere i no vax morire come mosche; Madonna come vorrei un virus che ti mangia gli organi in dieci minuti riducendoti a una poltiglia verdastra che sta in un bicchiere per vedere quanti inflessibili no-vax restano al mondo; I cani possono sempre entrare, solo voi come è giusto rimarrete fuori; …il COVID mi ha cambiato. Provo un pesante odio verso i no vax con cui al momento non ho voglia di dialogare, ma al massimo di stirarli in auto.

[26] Si rammenti la grottesca ridicolizzazione fatta dal Fiorello sul palco di Sanremo, che raccoglieva la banalizzazione corrente secondo cui “i no vax temono che il vaccino li trasformi in antenne 5G”.

[27] In questo senso, le persone sono entità viventi che non posseggono caratteristiche umane e sono paragonate a conigli, ratti, topi, parassiti. Proprio per questo, le persone percepite come capri espiatori sono percepite come oggetti di cui disfarsi.

[28] E che per il loro comportamento rischiano di disperdere il contributo prodotto dai fratelli maggiori, responsabili e coscienziosi nel risolvere la situazione.

[29] Non siamo a favore della sospensione del dipendente pubblico, ma segnaliamo la forte discriminazione all’interno della norma tra un dipendente pubblico e il libero professionista.

[30] Ricordiamo che la salute non può mai essere considerata solo ed esclusivamente nell’accezione medica, prescindendo dalla soggettività dell’individuo, dai suoi valori, dalle sue paure, dalle sue convinzioni e dalla sua idea di salute e di atteggiamento nei confronti della morte.

[31] Era solo il 2009, molti anni prima della legge 3/18, quando Sala evidenziava che “fare psicologia per la sanità significa anche costruire un’occasione per ripensare i rapporti tra medicina e psicologia” (p. 138).

[32] Tutti gli psicologi iscritti all’Ordine hanno il vincolo del rispetto del Codice Deontologico: il vincolo riguarda anche chi ricopre cariche istituzionali. “I rapporti fra gli psicologi devono ispirarsi al principio del rispetto reciproco, della lealtà e della colleganza. Lo psicologo appoggia e sostiene i Colleghi che, nell’ambito della propria attività, quale che sia la natura del loro rapporto di lavoro e la loro posizione gerarchica, vedano compromessa la loro autonomia ed il rispetto delle norme deontologiche” (art. 33). Riteniamo che la minaccia della sospensione, così come la sospensione stessa, siano in contrasto con molti principi del nostro Codice Deontologico, per primo quello sull’impegno alla colleganza.

[33] La ratio della legislazione sul green pass è obbligare surrettiziamente le persone a vaccinarsi.

[34] Si evidenzia anche come alcuni passaggi della legge possano essere in chiaro contrasto con gli articoli 3, 4, e 6 del Codice Deontologico.

[35] Molte delle comunicazioni ufficiali hanno trattato in modo alquanto sbrigativo ed incompleto l’art. 32, lasciando fuori il periodo sulla tutela della dignità umana. Per il suo impatto etico, si potrebbe perfino sostenere che esso potrebbe diventare un articolo di indirizzo per tutte le professioni sanitarie e socio-sanitarie.

[36] Inoltre, per legge, la vaccinazione dovrebbe essere subordinata ad una prescrizione, eventualità che è sempre stata disattesa nel corso della campagna vaccinale. Abbiamo avuto modo di assistere invece all’odissea di professionisti che si sono visti negare dal proprio Medico di Medicina Generale la certificazione che gli avrebbe consentito, per lo meno in via privata, di eseguire gli esami utili a rintracciare eventuali situazioni di rischio.

[37] Cfr. Ordinanza del Consiglio Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia del 17.03.2022.

[38] Ribadiamo, in nota, come il “rispetto della legge” preveda il rispetto di tutte le leggi che abbiano valenza giuridica all’interno del territorio italiano, da quelle costituzionali ai diversi trattati e convenzioni internazionali.

[39] Lo stesso David Lazzari – Presidente del CNOP – in una recente intervista, a seguito dell’evidente aumento di casi di suicidio a causa della pandemia (noi diremmo della gestione della situazione epidemica) parla della creazione di una task force per la prevenzione degli stessi. La perdita del lavoro connessa all’introduzione del green pass e all’obbligo vaccinale è un dramma che nell’articolo viene segnalato come problema prioritario. Dice Lazzari: “Qualche anno fa ci fu l’impennata di suicidi tra i piccoli imprenditori, ed allora si rese necessario intervenire con politiche appropriate. Oggi noi temiamo che ci sia una recrudescenza di questo genere”. Noi teniamo a precisare che anche uno psicologo soggetto a obbligo vaccinale (con conseguente perdita di lavoro a seguito di una sospensione) possa ritenersi a rischio di sviluppare un malessere così consistente.

[40] Numerose ricerche scientifiche supportano certe affermazioni (https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(21)00768-4/fulltext).

[41] “Niente” è un romanzo scritto da Teller nel 2000. Si racconta di un gruppo di compagni alle prese con la ricerca drammatica di un senso, di adulti sempre più disimpegnati nella costruzione di un’etica intersoggettiva fondata e ancorata nella relazione: il precipitare del senso nella pura funzione di qualcosa (Byung-Chul Han, 2017) aliena le persone dalla possibilità stessa di narrare la propria storia, di sviluppare uno sguardo interno, di creare distinzione e di prendere posizione.

[42] Ricordiamo che il DL 24/22 ha stabilito l’obbligo di vaccinazione per i sanitari fino al 31.12.2022. La legge, così, rischia di creare un ulteriore precedente: secondo la legge 56/89 il provvedimento disciplinare della sospensione non può mai essere superiore ad un anno. Essendovi colleghi sospesi già con il DL 44/21, rischiamo di trovarci davanti a sospensioni che possono superare l’annualità senza che nessun rappresentante istituzionale si stia occupando di questa incongruenza.

AttualitàPolitiche professionali

Memorie dal lockdown. Questioni aperte per una pratica plurale.

Roberta Campo ripercorre i principali accadimenti degli ultimi anni e, con acume e competenza, ci aiuta a riflettere sulle gravi conseguenze psicosociali delle politiche di contenimento del virus.

Questo articolo rappresenta l’ulteriore sviluppo del documento presentato all’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia durante l’interlocuzione avvenuta lo scorso 21 giugno 2022.

In esso trovano spazio molti dei temi cari ai membri dell’Associazione #dallastessaparte, fra tutti evidenziamo il valore del gruppo come primo incubatore del pensiero critico sulla società.

È un commento molto profondo, cui vi invitiamo a dedicare il giusto tempo.

Buona lettura!


“Qualcosa è cambiato” in questi ultimi anni, e molti sono gli interrogativi che attraversano il mondo delle professioni, non ultimo quello della psicologia. O forse qualcosa era cambiato da tempo, e questi ultimi anni passati tra lockdown, chiusure e obblighi ci stanno solo consentendo di visualizzare con più chiarezza alcune questioni.

Non ho grandi conclusioni da mettere sul piatto, ma ho molte domande aperte sulle quali mi sono confrontata in questi anni e mi continuo a confrontare, insieme a colleghi disposti a farlo.

Ritengo che il nuovo coronavirus abbia semplicemente fatto emergere in figura tutta una serie di questioni, di assunti che ci hanno accompagnato anche durante i cosiddetti anni “prepandemici”.

L’ “emergenza pandemica” ci ha colti tutti più o meno alla sprovvista e molto si è agitato dentro di me e attorno a me: ciò che mi ha maggiormente sostenuto è stata la possibilità di pensare dentro i gruppi, anche se virtuali (spesso gli unici che in alcuni casi è stato concesso abitare per molto tempo); luoghi dove potersi confrontare, dove poter riflettere su come continuare a essere d’aiuto e di sostegno in “stato di emergenza”, su come rispondere alle angosce dei pazienti, dove poter essere di aiuto a noi stessi; luoghi, inoltre, dove poter fare ancora critica sociale. Eravamo tutti accomunati dal desiderio di metterci pensiero insieme. Il sostegno e nutrimento avuto da questi attraversamenti è stato di un valore inestimabile e probabilmente, rispetto allo sconvolgimento personale e sociale, non sarei riuscita a farci un pensiero senza un confronto vivo e attivo con i colleghi.

All’inizio del primo lockdown il mondo sembrava essersi fermato bruscamente: i canti intonati dai balconi si alternavano solo con la voce dei giornalisti che aggiornavano sui numeri delle vittime. Apparentemente null’altro sembrava accadere. Al coro intonato delle famiglie resilienti, infatti, si contrapponeva il silenzio dei bambini, l’isolamento degli anziani privati degli affetti, le morti in solitudine, i lutti negati…

Il lockdown, che in un primo momenti è stato accolto con sollievo da tanti, mostrava subito una parte francamente problematica, di cui però in pochi sembravano volersi fare carico.

Nei mesi successi, la spaccatura tra le persone si è andata allargando, e la polarizzazione dei punti di vista è diventata una costante della maggior parte dei confronti pubblici e privati: ciò che inizialmente sembrava essere un coro unico, non lo era più, e le persone divergevano tra loro non solo sulle strategie da adottare, ma anche sulle letture necessarie per affrontare la situazione.

Tutti ricorderemo le domande che hanno caratterizzato la primavera del 2020: i runner sono persone con una spiccata tendenza all’antisocialità o sono persone normali che testimoniano un diritto altro alla salute? I droni sono fondamentali per la sicurezza pubblica e privata, o al contrario sono una forma di controllo sociale? Immuni è usata solo da persone capaci di adottare un comportamento altruistico e dotate di un alto codice morale, o il comportamento morale caratterizza anche coloro che scelgono di non scaricare l’app?

Ciò che mi colpiva, in quei primi mesi, era la presenza di un sentimento apparentemente inaspettato all’interno di quella comunità che solo pochi giorni prima aveva dipinto arcobaleni sulle lenzuola: il risentimento.

Il risentimento sembrava avere preso in ostaggio il legame sociale e gli affetti: il corpo unico, solidale, capace di intonare inni rassicuranti, lasciava il posto a un corpo diviso, disarticolato, all’interno del quale ci si andava scoprendo profondamente diversi.

Scoprirci diversi ha spaventato molti, probabilmente perché la diversità è stata vista come l’ostacolo che non permetteva di aderire a comportamenti virtuosi, altruistici e compatti: sì, bisognava essere compatti! Ognuno di noi potenzialmente, con il proprio sentire e agire autonomo (non necessariamente irresponsabile) poteva mettere a repentaglio gli sforzi comuni profusi per uscire dalla “emergenza”.

Probabilmente per questo i comportamenti e i pensieri difformi provocavano risentimento: si ritenevano alcuni più responsabili di altri nel mantenimento di una condizione, in questo caso lo stato di emergenza sanitaria; nessuno si sentiva più al sicuro davanti alle strategie adottate e rappresentate dall’Altro.

Abbiamo, quindi, iniziato a scoprirci diversi: ognuno di noi, con il proprio agire, stava raccontando le proprie soluzioni per navigare o restare sospesi, dichiarava i propri valori e, perché no, le proprie ideologie.

Per la prima volta ci sembrava di parlare linguaggi diversi. Nei mesi precedenti l’inizio dell’ ”emergenza pandemica” non avevamo mai sperimentato questo tipo di inquietudine: quando si affrontavano argomenti quali la salute, i valori, i principi di riferimento di una società, il concetto di libertà si aveva, bene o male, la sensazione di avere tutti la stessa cosa in mente; cambia poco ma, insomma! la definizione di salute è quella, così come quella di bene comune o di libertà; nulla ci ha mai fatto sospettare che potevamo anche avere in mente delle cose molto diverse tra loro, nonostante l’apparente omogeneità. Credo che in quei primi mesi abbiamo perso una delle occasioni per iniziare a disambiguare le parole, e comprendere come dentro parole solo foneticamente uguali si possano nascondere significati molto diversi.

Questa inquietudine attraversava molte delle relazioni amicali, ma anche le relazioni con i colleghi. Cambiava qualche accenno più teorico a sostegno di una tesi o dell’altra, ma la sostanza rimaneva quella: non ci capivamo e, forse, ci si sentiva anche un po’ traditi nella misura in cui ci si andava scoprendo (nella relazione con sé e con l’altro) diversi da come ognuno aveva pensato di essere.

E intanto non si parlava più, si litigava. Le questioni principalmente in ballo riguardavano il che cosa si intendesse per salute, libertà, bene comune, collettività, individualismo, quasi alla ricerca di definizioni uniche, astoriche e assolute: non potendole vedere come il frutto di una negoziazione culturale durata secoli, si è negato il profondo legame tra queste “definizioni” e il sistema di valori personali e di gruppo, e con aspetti identitari più profondi.

Quello che però mi turbava era la sensazione che alcuni discorsi fossero più legittimati di altri perché dichiarati da una posizione di autorità. In ballo, però, non vi era solo il rapporto che ognuno di noi intrattiene con l’autorità, ma la stessa relazione tra autorità e verità

La situazione ha preso una strada decisamente grottesca quando sono stati immessi sul mercato i primi “vaccini”; qualcosa è ulteriormente cambiato, i toni sono divenuti più aspri, sempre più violenti; qualcosa è cambiato, purtroppo in peggio, e probabilmente anche i diversi gruppi professionali sono stati attraversati dalle stesse scissioni che hanno attraversato lo spazio sociale più ampio.

Perché qualcuno, inspiegabilmente, si sentiva più vicino al Vero rispetto ad altri?

Forse perché l’essere personalmente risolto, razionale si è imposto, in questi ultimi anni, come una categoria del Vero. Anche nel caso dei cosiddetti vaccini si è probabilmente riproposta la questione dell’essere risolti.

L’implicito è che chi è risolto è riuscito a neutralizzare il dato soggettivo, e può quindi assolvere sufficientemente bene il principio di autorità: chi è risolto è razionale e scientifico, non è vittima di pregiudizi e superstizioni, e quindi può essere espressione del Vero. 

Nell’immaginario collettivo, però, è la scienza a essere vista come quella che meglio riesce a garantire la possibilità di neutralizzare il dato soggettivo distorcente, proiettivo, scissionale… L’essere risolto, quindi, sembra divenire sinonimo di scienza: il pensiero scientifico è l’unico che garantisce lucidità, scelte sagge e legate al bene collettivo.

Come se, l’essere risolti, non avere questioni in sospeso e non avere turbamenti garantisca a priori il mantenimento di quell’atteggiamento lucido e coraggioso necessario nell’attuale società.

Così la delegittimazione di alcuni discorsi avviene in nome della scienza che è l’unica di fatto a permettere, con il suo sviluppo, sempre maggiore gradi di civiltà e di civilizzazione (pensiamo a tutta la retorica sul bene comune). Tutti coloro che parlano a nome proprio sono egoisti, creduloni, superstiziosi, comunque problematici. Ma il rapporto che ognuno ha con la verità non può essere mediato dalla scienza.

I pensieri divergenti, le voci critiche sulla gestione della pandemia e sulla deroga al principio di precauzione scientifico in tema di sperimentazione, le riflessioni sul ruolo della scienza all’interno della nostra società sono state messe fuori dallo spazio democratico (“chi non è d’accordo si accomodi fuori”) perché in contrasto con una qualsiasi forma di deontologia scientifica.

La negazione del dato soggettivo e la questione deontologica si erano già incontrate in questi anni, ma con la vicenda vaccinale esse sembrano stringere un vero e proprio sodalizio.

La pandemia o qualsiasi altra situazione emergenziale, scientificamente e tecnicamente definita, può essere gestita solo da voci esperte, autorevoli, scientifiche e quindi vere. Gli esperti, così come gli scienziati, avendo neutralizzato quella distorsione soggettiva che falsifica il pensiero, sanno cosa fare, e lo fanno bene e per il bene. In altre parole, la scienza (esatta) risolve il problema della verità.

Ma che spazio ha ancora la visione politica e sociale all’interno di una società tecnocratica? che spazio di libertà hanno ancora i cittadini nel decidere quali modalità li aiutano a vivere e pensare una determinata situazione, anche sostenendo l’arbitrio della propria posizione. Davvero questo deve essere monopolio dello Stato? 

Mi è stato più volte ripetuto che “non abbiamo le competenze per capire”. Ma è davvero così? E anche se fosse, cosa ci impedisce di iniziare a costruire tali competenze per capirne di più? quando abbiamo smesso di occuparci del nostro spazio politico e sociale delegando agli esperti qualsiasi decisione su di noi?

Il prezzo di questa gestione è stato per certi versi inevitabile: le soluzioni tecnico-scientifiche non hanno per nulla aiutato le persone a non soffrire, a non avere paura, a non impazzirci, a non nutrire risentimento per il proprio caro, anzi hanno aumentato il disagio e amplificato gli spazi del malessere.

Davvero avremmo dovuto solo adattarci alla nuova normalità? Ma poi, a cosa dovevamo adattarci: al distanziamento sociale? a una nuova visione dei rapporti sociali? a una nuova visione del mondo?

Si iniziava a parlare di una nuova normalità, come se adattarsi fosse questione di tempo, ma alla fine ci saremmo abituati tutti a questa nuova modalità di stare al mondo. E forse l’accettazione non troppo problematica del green pass ci dice quanto questo modello sia entrato dentro di noi. La gestione tecnico-scientifica ha mortificato i movimenti soggettivanti di gruppi e di persone, aumentando le richieste di aiuto nei confronti dei professionisti. 

Agli psicologi è stato chiesto di sostenere la campagna vaccinale, cercando di lavorare affinché i pazienti potessero maturare da soli la scelta di vaccinarsi liberamente. Qualcuno davanti a questa proposta ha sussultato, qualcuno no.

Con la pandemia la realtà è entrata nel setting; non solo perché professionista e cliente sono stati accomunati dalle stesse angosce sociali, ma anche e soprattutto perché, in maniera eccedente, la politica è entrata nel setting, definendo gli obiettivi di lavoro di una relazione, ma anche la legittimità di alcune relazioni. Come mai non ci siamo chiesti cosa significasse questa intrusione dello Stato nei setting terapeutici? di cosa parla? Forse, se ci fossimo posti prima queste domande, alcune terapie non si sarebbero interrotte (sono tante le esperienze di pazienti che hanno interrotto il proprio percorso sentendo che il terapeuta voleva utilizzare il proprio potere per convincerle alla vaccinazione).

Da quando devo convincere il paziente a fare qualcosa perché io so cosa è giusto per lui? La risposta di tanti sarebbe sicuramente “lo dobbiamo fare per il bene della comunità”, ma anche in questo caso, credo che sarebbe utile disarticolare e disambiguare gli impliciti sottostanti a certe affermazioni. Cosa è il bene della comunità? qual è il bene dell’individuo? cosa significa bene? e salute? il bene collettivo è realmente un bene plurimo e plurale? in che modo individuo e pluralità si incontrano, e fino a che punto il bene individuale deve dissolversi nel bene collettivo? l’epistemologia del mentale è sovrapponibile tout court alle epistemologie scientifiche?

Ritengo sempre molto rischioso per i professionisti del mentale abbandonare l’impegno alla costruzione di mappe cognitive flessibili, capaci di ampliare lo sguardo; al contrario, i perimetri ristretti dei saperi monolitici, lo sappiamo bene, se da un lato sono rassicuranti, dall’altro ergono muri invalicabili tra le persone.

Davvero possiamo chiedere soltanto alla scienza, alla norma, alla standardizzazione la soluzione a problemi che hanno a che fare con la convivenza, la pluralità e l’umano? come tornare a rendere tali questioni centrali per la convivenza?

Sono domande che chiamano in causa una deontologia plurale per una psicologia del soggetto plurale.

Il progetto #dallastessaparte parte proprio da questa prospettiva che diventa bussola per l’incontro con l’Altro.

Così si legge nella nostra Carta Costituente:

Se restiamo immobili, se le regole e le norme diventano il fine per cui operiamo, e non uno degli strumenti che ci permettono di realizzare il nostro lavoro, rischiamo di diventare automi, meri esecutori di direttive senza più senso. Siamo professionisti della salute e operiamo in autonomia: accogliamo le richieste senza alcuna discriminazione, nel rispetto dei principi costituzionali e deontologici. Come professionisti della salute mentale, abbiamo gli strumenti per guardare alla complessità delle relazioni d’aiuto. Ma è soprattutto un vincolo morale e deontologico che ci spinge a mantenere sempre la possibilità sospendere l’azione per ragionare. Porsi domande è parte integrante del nostro lavoro: mai fermarsi all’idea che ciò che appare già normato, corrisponda invariabilmente al giusto.


È di questo che, come psicologi, dovremmo tornare ad occuparci: come ridare parole all’impensabile, accettare l’imprevedibile e imparare ad attraversarlo nel pieno rispetto delle singolarità plurime che attraversano lo spazio sociale.

AzioniPolitiche professionali

Analisi del “documento sull’obbligo vaccinale“ a cura del CNOP

Abbiamo esaminato con attenzione il documento sull’obbligo vaccinale, pubblicato sul sito del CNOP e inviato agli iscritti.

Il documento è stato “approvato all’unanimità” nella riunione del Consiglio Nazionale del 24 giugno.

Appena tre giorni prima, una nostra delegazione aveva incontrato alcuni rappresentati del Consiglio della Sicilia. In quella occasione, abbiamo presentato ai colleghi il nostro documento, con l’obiettivo dichiarato di “condividere delle letture di carattere psicologico e psicosociale sulle conseguenze di quanto sta avvenendo in Italia rispetto alla gestione sanitaria, ma ancor più sui danni a breve, medio e lungo termine che ha prodotto l’obbligo vaccinale, sia sulla salute individuale che collettiva” (leggi il resoconto dell’incontro).

L’azione Interlocuzione all’Ordine è stata ideata insieme a colleghi di tutta Italia, molti dei quali, prima di noi, avevano già avuto occasione di confrontarsi con i loro rappresentanti regionali.

Con questi incontri intendiamo rendere il nostro leale e pacifico contributo in favore dell’indipendenza, dell’autonomia e della responsabilità nell’esercizio della professione; raccogliere e sviluppare le conoscenze scientifiche in ambito psicosociale; rafforzare la tutela dei diritti dei professionisti iscritti e dei clienti/pazienti.

È nostra intenzione ridurre la distanza tra gli organi dirigenziali e una parte consistente di colleghi, le cui istanze e considerazioni sono raccolte soltanto dalla nostra associazione.

Purtroppo non possiamo fare a meno di notare la generale ambiguità del comunicato del CNOP, e la perniciosità di troppi passaggi che tendono a proporre una visione “ufficiale” di temi complessi e articolati, rendendo paradigmatico e assoluto ciò che invece andrebbe discusso serenamente in seno alla comunità scientifica di cui facciamo parte.

Permane la triste impressone che il Consiglio rischi inconsapevolmente di aggravare la spaccatura interna tra colleghi, continuando ad ignorare la discussione critica avviata in questi mesi attraverso un dialogo pacifico e rispettoso.

Rinnoviamo l’invito a tutti i colleghi a tenere in considerazione le riflessioni che abbiamo sviluppato nel nostro documento e che abbiamo sintetizzato in sette paragrafi:

  1. Ambiguità come marker culturale della moderna società occidentale;
  2. Requisito professionale e abuso della professione;
  3. Scienza e responsabilità;
  4. Frattura del patto sociale;
  5. Dinamica del capro espiatorio;
  6. Tutela dei colleghi;
  7. Tutela dei diritti dei pazienti.

Riteniamo che i punti precedenti possano costituire spunti utili per interpretare autonomamente il comunicato del CNOP.

Infine ribadiamo l’impegno assunto durante il nostro primo incontro con l’OPRS, di sviluppare un’ulteriore proposta di confronto, che coinvolga tutti gli iscritti animati da spirito non dogmatico, democratico e collaborativo.