Venerdì 3 maggio 2024 alle 17.30, presso la nuova sede dell’Associazione #DallaStessaParte a Palermo in via dell’Artigliere 6, presenteremo il libro Domande che curano. Roberta Campo ha scritto per noi una recensione accurata: un invito alla lettura in cui si riconoscono i principi che ci hanno motivati a fondare l’associazione e che abbiamo sintetizzato nel nostro progetto.
Domande che curano è scritto da quattro psicologhe reichiane unite nel desiderio di stare insieme per farsi domande.
Le Autrici si muovono e si inoltrano tra questioni volutamente aperte, senza avere mai la pretesa di dare delle risposte; ma il libro è anche un invito a mettere la testa fuori dagli spazi occupati da un collettivo amente, sempre meno interessato a interrogare ciò che viene dato per scontato nel quotidiano.
Domande che curano può essere visto, quindi, come una vera e propria messa in discussione che indistintamente interroga tutti a ritornare a sostenere lo sguardo su come concepiamo lo spazio comune e condiviso, proprio dopo un periodo storico tristemente e dolorosamente attraversato da divisioni, sfiducia, desiderio di controllo, sospettosità. Sentimenti, questi, che hanno segnato come mai prima d’ora persino quei legami che consideravamo indissolubili, ma che invece sono stati bruscamente strappati.
Il testo attraversa temi fondamentali e solo apparentemente diversi tra di loro: il politicamente corretto, le pratiche sanitarie, il ruolo della psicologia oggi e le politiche sanitarie, la gestione dell’informazione a opera dei mass-media, la verità, il trans- e post- umano, la morte.
Si vorrebbe sfatare l’idea che argomenti come ‘scienza’, ‘tecnica’, ‘bene comune’, ‘politiche sanitarie’ siano autoevidenti, tanto da non dovere essere né questionati né motivati.
Il volume è una proposta per guardare, osservare e comprendere ciò che ci precede, e iscrive il nostro esistere all’interno di un corpo collettivo più ampio.
La continua ricerca delle domande lo rende anche un’occasione per riattraversare le ferite che hanno lacerato la nostra comunità, non solo civile ma anche professionale.
Apparentemente sembra che stiamo parlando di un periodo già passato alla storia. Tutto sembra tornato alla normalità, ma non è andato tutto bene come si sperava inizialmente. Non solo allora, quando si svolgevano i fatti. Purtroppo ancora oggi sembra esserci un certo pudore nel tornare a parlare di quanto è accaduto e che, in ambiti solo apparentemente diversi, continua ad accadere ancora adesso. Spesso si rileva un fastidio nei confronti di chi si ostina a tornare a parlare di lockdown, ma soprattutto di vaccini e dell’obbligo vaccinale, di questa storia comunque tormentata e tormentosa.
Tutto fa pensare che in realtà vi sia poco di elaborato su quando accaduto.
Dunque, non possiamo dire che sia andato tutto bene: ognuno porta con sé un personalissimo “strappo”. Il testo, però, non si riduce mai a diventare un banale tentativo di ricucire le lacerazioni e disinfettare le ferite. Dal mio punto di vista prova a fare qualcosa di più.
Questo qualcosa in più lo dichiarano le stesse Autrici quando condividono il senso del loro pseudomino: Eumenidi.
Le Eumenidi, nella tradizione greca, sono le dee della benevolenza che vigilano sulla Giustizia. La storia delle Eumenidi di Eschilo è proprio la storia di una vendetta trasformata in benevolenza. Le Erinni, dee possedute da un senso di giustizia vendicativa sono implacabili e inarrestabili. Solo Atena, con la promessa di venerazione eterna, riesce a calmare le Erinni trasformandole in Eumenidi, dee a cui viene affidato il compito di vigilare che a nessuno venga fatto del male.
Queste moderne dee restauratrici ci parlano della loro benevolenza già a partire dal titolo. Le domande curano poiché permettono di fare spazio al grido sordo delle morti in solitudine, delle Antigone afflitte davanti a Creonte, dei bambini spenti dentro le aule sterilizzate della scuola, degli anziani disperati e soli, degli adolescenti senza gruppo.
Al grido di vendetta si sostituisce la parola del “Giusto”, inteso non in termini morali, né in termini di regole. La Giustizia delle Eumenidi giudica l’oppressione, in qualsiasi forma essa avvenga, dell’uomo sopra un altro uomo, perché di esso ne riconosce la sacralità unica e inviolabile.
Il testo si apre con le parole di Hanna Arendt e si chiude con un brano di Italo Calvino tratto da Le città invisibili, probabilmente a volere rimarcare l’importanza di continuare a farci domande su ciò che è dato come ovvio, come autoevidente. È un invito a praticare l’etica della responsabilità, così come pensata da Arendt, per non trasformare il mondo nell’inferno dei viventi. Porsi le domande consente anche di recuperare un assunto importante per praticare il giudizio, inteso come capacità di giudicare l’arbitrio e l’arbitrario che, in quanto tali, rischiano di essere insopportabili per l’animo e la mente. Non è la malvagità dell’uomo, infatti, a rendere il mondo (e la vita) un inferno, ma l’inadeguatezza dei criteri morali con cui vengono giudicate le azioni.
Il testo riesce sempre a sfuggire al tentativo di moralizzare la società grazie alla capacità delle Autrici di assumersi la responsabilità del “fare le domande”, compito che dovrebbe diventare, in ultima istanza, analisi del potere e dell’esercizio del potere. Perché l’inferno dei viventi può essere una fabbrica, una R.S.A., una scuola, un ospedale, un sistema politico, un impiego. L’inferno si presenta ogni qualvolta viene mortificata la sacralità della vita.
È un discorso, questo, al di fuori della legge e della normatività giuridica.
La Giustizia a cui si rivolgono le nostre moderne Eumenidi appartiene all’ordine del sacro. Del resto, i Greci non avevano una termine corrispondente al nostro “diritto”.
Il sacro chiaramente non va letto in chiave religiosa: siamo in presenza del sacro ogni volta che ci troviamo di fronte a qualcosa che non può essere definito in nessun modo, se non tramite un apriori.
Possiamo davvero avere la presunzione di sapere cosa sia la vita? O come si debba definire rispetto della persona umana? Cosa sarebbe la dignità?
Nell’antica Roma il nome era qualcosa di sacro. Tutte le città avevano un nome sacro segreto, che potevano conoscere solo i sacerdoti e che andava custodito pena la distruzione della città stessa. Conoscere il nome significava potere influire, dominare e sottomettere. Conoscere il nome dà potere, nel bene e nel male.
Se ci pensiamo, ogni qualvolta proviamo a definire alcuni concetti sacri, stiamo aprendo alla possibilità di un arbitrio. Ogni volta che disegniamo, grazie al potere di una definizione o di una norma civile, il significato di un concetto, stiamo tracciando un pericoloso confine che permette di definire standard, criteri, regole e deroghe. Ma potremo anche trovare sempre l’eccezione che conferma la regola, proprio come ne La fattoria degli animali di Orwell. Soprattutto sarà possibile trasformare una “dignità inalienabile” in qualcosa di alienabile, perché per ogni confine vi è “un al di là” dove qualcosa diventa possibile.
L’articolato “civile” delle definizioni dello spazio del sacro trasforma la Giustizia delle Eumenidi nella riflessione su quanto sia lecito il potere che una persona può esercitare su un’altra persona, pur rimanendo non perseguibile dalla giustizia.
Ecco perché l’importanza del farsi le domande. Le domande alzano il velo e rendono visibile ciò che in realtà è arbitrario.
Non a caso, per Simone Weil vita, dignità, rispetto, inalienabilità sono termini che appartengono all’ordine del sacro, perché nel momento stesso in cui ci impegnamo a definirli – in termini morali, culturali, sociali, psichici, giuridici – perdono il loro carattere sacro e possono essere circoscritti, revocati, amministrati, controllati.
Le moderne Eumenidi si chiedono quindi: è stata rispettata la legge del diritto? è stata rispettata la legge del sacro?
È una domanda fondamentale in un’epoca in cui qualsiasi aspetto della vita viene amministrato dal diritto, e l’etica viene trasformata in un pericoloso dirittismo.
Le leggi ci hanno detto che bisognava impedire le visite ai malati, ai morenti, ai funerali, alle nascite. Le persone anziane sono state relegate in residenze divenute luoghi di attesa che qualcosa accadesse. Le carceri sono divenute ancor di più, luoghi di detenzione e di isolamento da cose e ospiti che venivano da fuori, fatta eccezione per il virus che era l’unico possibile ospite minaccioso ad accesso libero. Le nascite sono diventate momenti di solitudine delle madri, cui è stato imposto di partorire in assenza dei mariti e delle madri, di portare la mascherina il più possibile durante il parto, di non toccare nessuno degli infermieri presenti durante il travaglio (p. 10).
La postura della Giustizia ci invita a fare le domande. Le domande non hanno la pretesa di risolvere nulla, ma solo di aprire e ampliare l’orizzonte della realtà. Le domande avvicinano alla verità, non tanto perché esista una Verità unica e assoluta ma perché creano spazio per il pensiero.
Nelle verità fondate sui dogmi, sugli intenti persuasivi, sulle immagini dimostrative di una evidenza incontestabile, abbiamo dimenticato le domande, ovvero le porte relazionali per eccellenza, i nodi tematici, le capacità di argomentare, del lasciare in sospeso, dell’attendere, del fare relazioni davanti ad un accadimento non noto, del fare ricerca collaborando tra professionisti che propongono tesi opposte (p. 29).
Un’etica, questa, sempre più importante nell’epoca attuale, in cui le immagini prendono il posto della realtà. Baricco, commentando i fatti dell’11 settembre, segnalava una trasformazione nei modi in cui facciamo esperienza della realtà, che ci allontana dalla possibilità di stare all’interno di un rapporto complesso e articolato con essa: “il mondo non ha tempo di essere così. La realtà non va a capo, non concorda i verbi, non scrive belle frasi, noi lo facciamo quando raccontiamo il mondo, ma il mondo, di suo è sgrammaticato, sporco, la punteggiatura la mette che è uno schifo”.
Poco prima scriveva: “c’è un’ipertrofia irragionevole di esattezza simbolica, di purezza del gesto, di spettacolarità, di immaginazione (…) In tutto c’è troppa maestria drammaturgica, c’è troppo Hollywood, c’è troppa fiction”.
La prevalenza dell’immagine sulla percezione diretta della realtà comporta un depotenziamento della funzione epistemofilica, quella funzione che sostiene un modo del comprendere capace di stare all’interno di uno spazio comune di interrogazione.
In “Domande che curano” le Eumenidi, insieme ai propri lettori, provano a creare e mantenere vivo tale spazio.
La proposta di revisione del nostro Codice Deontologico, approvata dal Consiglio Nazionale dell’Ordine ad aprile di quest’anno e resa pubblica il 21 del mese di giugno, si trova adesso prossima al giudizio referendario, che avrà luogo dal 21 al 25 settembre 2023, con modalità di voto online.
La nostra collega e socia Roberta Campo, con la passione e la raffinata capacità di analisi che le sono proprie, ci offre alcune riflessioni maturate in questi mesi estivi sulla proposta di revisione. Si addentra nell’architettura dell’impianto della proposta deontologica, ci restituisce la cornice di contesto entro cui si sviluppa, ne chiarisce la struttura, individuandone i pilastri portanti e segnalandoci anche alcune assi pericolanti.
La comunità degli psicologi italiani è chiamata al referendario e dicotomico esprimersi per un sì o per un no su questioni davvero ampie, che richiedono un grande tempo di elaborazione e un dibattito congruo, per le conseguenze che hanno sul ruolo e sull’agire professionali.
Ed è a tal fine che vi invitiamo calorosamente, dunque, a leggere e studiare insieme a noi la proposta di revisione attraverso l’articolo di Roberta, a condividere con noi le vostre riflessioni.
E a partecipare al convegno che stiamo organizzando per sabato 16 settembre a Palermo, sul quale daremo presto tutti i dettagli.
Il 28 Aprile del 2023 con deliberazione n. 14 il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) approva all’unanimità la proposta di revisione del “Codice Deontologico delle psicologhe e degli psicologi”.
Il passaggio successivo, così come istituito dalla legge 56/89, sarà il giudizio referendario, previsto per metà settembre. Se dovesse essere approvata, la proposta entrerebbe in vigore e sarà vincolante per tutti gli iscritti agli Ordini e sarà la base a partire dalla quale avverranno tutte le successive modifiche.
Prima di entrare nel merito della revisione del Codice Deontologico mi sembra opportuno fare alcune premesse che possono aiutarmi a inquadrare lo specifico taglio di lettura attraverso cui ho analizzato alcune delle attuali proposte di modifica. È chiaro che non debbano necessariamente essere condivise, o condivise in toto: credo piuttosto che possano servire per avviare futuri dibattiti rispetto al dove vogliamo andare come psicologi.
L’articolo non vuole essere esaustivo di tutte le revisioni intervenute sul codice, ma si propone come una riflessione in merito a quei cambiamenti di carattere etico/deontologico che vanno verso una progressiva professionalizzazione e sanitarizzazione. Di questo processo dovremmo essere ben consapevoli, perché sta cambiando dall’interno la nostra pratica professionale.
Il Codice Deontologico fa parte di quella disciplina giuridica che si chiama diritto disciplinare e in virtù di questa specificità occupa una precisa posizione nella gerarchia delle fonti del diritto (e a quelle si deve potere ispirare).
Il codice, quindi, non è solo una bussola per la “migliore regola deontologica”, ma è prima di tutto un “dovere, declinato in termini giuridici, per consentire l’applicazione di un’espressa sanzione in caso di violazione” (Parmentola, 2018, p. 39), “costringendo” il professionista al rispetto della norma ivi prescritta.
Perché la revisione del Codice deontologico?
La revisione del Codice Deontologico è un atto dovuto dal CNOP, così come definito dal legislatore con la legge 56/89. L’attuale revisione, quindi, non è un fatto straordinario, ma un compito specifico: la legge prevede che ogni nuovo consiglio dell’Ordine possa monitorare l’eventuale necessità di aggiornamenti nel Codice per intervenuti cambiamenti legislativi, normativi e scientifici, o per un diverso sentire comune all’interno della comunità professionale.
Probabilmente sarebbe stato auspicabile un coinvolgimento maggiore della comunità di colleghi ma, dal mio punto di vista, il “prodotto” finale sarebbe cambiato poco: la revisione è stata presentata come un puro atto tecnico, “formale” e neutro, di adeguamento all’ordinamento giuridico.
Se, però, è un atto dovuto revisionare il codice, altrettanto dovuta sarebbe stata una riflessione a vertice epistemologico su come l’ordinamento giuridico, la tecnologia e la cultura della cura possano di volta in volta “cambiare” e trasformare gli oggetti e i soggetti della psicologia (Parmentola, 2023). Sarebbe stato quantomeno opportuno avviare un pensiero su come i cambiamenti normativi, culturali e tecnologici stanno “ri-ordinando” il nostro modo di fare comunità, e comunità professionale.
Non posso fare a meno di notare il “silenzio” generale, l’assenza di dibattito all’interno dei nostri Ordini regionali a fronte di un evento così importante come la revisione di un Codice Deontologico.
Il rispetto formale delle “regole del gioco” può, da sé, garantire la bontà di questa revisione del Codice?
Il rispetto delle “regole” può essere visto, a mio avviso, come una sorta di “peccato originale” che attraversa l’intero articolato: questa revisione sembra essere, infatti, figlia di quella cultura legalista (fatta di consensi informati, di protocolli e di buone prassi) che vede nei regolamenti, sovradeterminati e nel rispetto delle regole, la garanzia etica al principio di legittimità.
Così, fare le cose “da regolamento” (secondo la legge), seguire i vari protocolli stilati dal CNOP nei diversi ambiti (uno per tutti il protocollo MIUR-CNOP), adeguarsi alle buone prassi, considerare solo la medicina evidence-based, fa dello psicologo non solo una brava persona ma anche un buon professionista.
Ma la legalità, ed è questo il punto su cui proverò a concentrarmi nel corso di questo lavoro, può davvero sostituire la riflessione sul principio di legittimità di qualcosa?
Il primo cambiamento riguarda l’adeguamento, tecnicamente corretto, al linguaggio di genere. Abbiamo così “Il Codice Deontologico delle psicologhe e degli psicologi” e la sostituzione del termine soggetto con il più neutro e adattabile termine di “persona”. La revisione adegua il lessico anche alla legge sulla responsabilità genitoriale (D.Lgs. 154/2013) e introduce l’attenzione all’ambiente come vincolo etico.
Le revisioni più significative, però, riguardano l’adeguamento del codice alla logica sanitaria così come previsto delle leggi 219/17 sul consenso informato e 3/18 sul riordino delle professioni sanitarie. Leggi che si sostengono a vicenda e animano il nuovo ethos professionale sanitario fondato sulla sussidiarietà e sulla salute come tema universale (Lazzari, 2022)).
Da una prima lettura sembrerebbe che il senso generale dell’articolato rimanga più o meno inalterato; una lettura più attenta ci consegna, al contrario, una deontologia che sagoma il nuovo ruolo professionale dello psicologo all’interno del più complessivo Sistema Salute (Sala, 2009; Campo, 2022b).
Intendo per Sistema Salute quell’insieme di organizzazioni, istituzioni, risorse, persone e procedure necessarie ad assicurare e fornire servizi per il mantenimento e per la tutela della salute della popolazione. Il “prodotto” offerto da questi servizi (la salute) deve garantire degli specifici standard che possano consentire, tra le altre cose, il controllo di qualità.
Le leggi 219/17 e la 3/18 avrebbero la funzione di garantire una maggiore tenuta del Sistema Salute (fatto di soglie di accesso, di giustizia distributiva, di esigibilità del diritto alla salute). Il cambiamento del codice deontologico è ciò che permette di mettere a terra il processo immaginato nelle sedi deputate (Europa, Governo, vari Summit…), e deve potersi tradurre in comportamenti concreti che permettono di cambiare nella direzione in cui si desidera che si cambi, altrimenti l’operazione rischia di rimanere monca (Lorenzin, 2021).
È innegabile l’importanza di una rete sanitaria per la salute della popolazione, ma sarebbe anche importante chiederci se la direzione verso la quale ci si sta chiedendo di andare implichi davvero un miglioramento nella tutela dell’utenza, dei professionisti e della comunità stessa.
Se da un lato è vero che non possiamo ignorare le leggi dello Stato né come cittadini né come professionisti, dall’altro è altrettanto vero che dovremmo continuare a mantenere uno sguardo critico sulle cose.
Un aspetto della psicologia, non tutta a dir la verità, con cui sono sempre stata a mio agio è il suo voler mantenere uno sguardo “non politicamente corretto” sulle cose, andando a guardare tra le pieghe dei processi.
Professioni, utilità e responsabilità sociale
La psicologia come professione ha un’origine relativamente recente: è la legge 56/89 a istituire per la prima volta gli Ordini a livello nazionale e regionale.
La storia della nascita della psicologia come professione si accompagna a un cambiamento più generale nella sensibilità politica del tempo, in merito ai temi di “pertinenza” psicologica e di salute.
La nascita degli Ordini è stata accolta da molti protagonisti e testimoni come una vittoria in quanto ciò avrebbe consentito un maggiore monopolio e una sistematizzazione delle conoscenze, dei metodi e delle tecniche psicologiche, di conseguenza, uno sviluppo più rapido e ordinato della professione.
Il Codice Deontologico divenne lo strumento principale per sagomare l’identità del professionista ideale (Calvi, 2020) da presentare alla società.
L’ordine professionale è un Ente Pubblico che deve poter perseguire (e far perseguire ai professionisti) l’interesse pubblico: lo Stato delega in parte le proprie funzioni e per tale motivo esercita un controllo su come queste vengono rappresentate. Da parte sua, lo Stato si impegna a predisporre e mantenere strutture sociali di presa in carico e/o di prevenzione dei comportamenti a rischio, organizza e finanzia campagne di sensibilizzazione e di promozione di valori e di quei comportamenti utili alla stabilità sociale ed economica del Paese.
Riconoscere il valore sociale della tutela e del mantenimento della salute mentale tra la popolazione fa sì che sempre più la salute psicologica si qualifichi come questione pubblica, non più privata.
I nostri Ordini si assunsero fin da subito questo obiettivo tanto che nel nostro Codice Deontologico è ben espresso il concetto di responsabilità sociale dello psicologo.
Gli anni a cavallo della nascita degli Ordini erano anni difficili; non si era ancora pienamente usciti dalla minaccia del terrorismo nostrano e le strade erano ancora macchiate dalla violenza mafiosa: lo psicologo poteva rivestire un ruolo determinante in quanto esperto delle interconnessioni tra salute psicologica e fatti sociali. Di fatto, l’expertise professionale poteva concorrere alla ripresa di un Paese in difficoltà, e al suo sviluppo morale, sociale ed economico.
Proprio con la finalità pubblicistica dell’Ordine, però, si introduce un’asimmetria tra chi richiede un intervento e il professionista; vi è sicuramente la responsabilità del professionista all’interno della relazione, ma vi è anche una responsabilità davanti alla comunità politica e sociale.
Vediamo che significa.
Con la professionalizzazione del lavoro psicologico si è introdotto un terzo nella relazione clinica (Sala, op. cit.): il professionista inizia ad avere un committente non immediatamente visibile e a cui bisogna dare una risposta.
Sottratta all’ambito privatistico, la salute diventa qualcosa che può essere gestita solo grazie alla presenza di un professionista che di salute se ne intenda e che si faccia interprete di un lavoro che abbia finalità “civiche”.
Secondo D’Elia la funzione sociale dello psicologo si realizza ogni qualvolta riusciamo ad andare oltre al mandato privatistico con il cliente; significa sentire di ricevere una committenza, ogni volta che incontriamo qualcuno, “dalla società e dal disagio condiviso socialmente” (D’Elia, 2019). Questo è ciò che impedisce alla relazione professionale di essere un semplice incontro tra persone impegnate nel “prendersi cura della relazione”, e che permette allo psicologo di diventare interprete – all’interno del setting – della componente sociale.
Anche il professionista che lavori in ambito privato dovrebbe riuscire a mettere al centro il proprio mandato pubblico e sociale: la responsabilità sociale è quell’orientamento valoriale che fa sentire l’importanza del proprio contributo alla società, e che si dovrebbe qualificare nel motivare le persone a mettere in atto comportamenti civici e di alto spessore morale per il bene comune.
Detto altrimenti, con l’introduzione della finalità pubblicistica, il professionista ha iniziato a rintracciare obiettivi di lavoro che sono al di fuori della relazione con il paziente e che si configurano come aspetti morali che entrano nella relazione.
Perché, altrimenti, uno psicologo dovrebbe interessarsi a priori (cioè al di fuori della relazione) del fatto che un paziente non creda nell’emergenza climatica? Perché questa convinzione dovrebbe diventare oggetto di chi si occupa di salute mentale? Solo sulla base della propria responsabilità nei confronti della società: l’assunto sociale è che chi non crede nell’emergenza climatica sicuramente mette in atto comportamenti non civici, al limite della devianza, che denotano un cattivo funzionamento mentale.
Credo che – in quanto psicologi – sia importante poter questionare con la persona che abbiamo davanti, il proprio “non credere nell’emergenza climatica” (qualsiasi comunicazione ha valore nella relazione), ma credo anche che dobbiamo stare molto attenti a non considerare problemi di “salute mentale” alcune posizioni non conformi a livello sociale. Restituire alla persona il senso di un comportamento, o il senso di una certa comunicazione all’interno della relazione è molto diverso dal “trattare” o educare la persona al corretto comportamento civico.
Nessun professionista, oggi, potrebbe mai pensare che la relazione clinica si dispieghi in un vuoto sociale, ma diventare interpreti in questo modo della componente sociale sta portando a far diventare la nostra professione uno strumento di attivismo politico.
Il rischio insito nella funzione pubblicistica della professione introduce un nuovo rapporto di forze e di potere tra chi “cura” e chi “viene curato”; un rapporto che vede il primo favorito in quanto un soggetto terzo – lo Stato – interviene nella relazione e nella definizione stessa dell’oggetto di lavoro.
Nonostante da più parti venga sottolineata la funzione di responsabilità sociale, i professionisti hanno fatto fatica a uscire dall’ambito privato. La motivazione è stata rintracciata nell’insufficiente collocazione pubblica della professione.
L’attuale riforma sulle professioni sanitarie vuole, così, valorizzare proprio questa funzione sociale dei professionisti della salute, e quindi anche dello psicologo, potenziando e ridefinendo la collocazione pubblica delle professioni sanitarie.
La recente legge 3/18, che riconosce agli Ordini la funzione sussidiaria dello Stato, tende a sagomare in maniera ancora più netta la figura di un professionista a tutela dell’ordine pubblico, del mantenimento del PIL e della tenuta stessa delle politiche governative (Lazzari, 2022).
Averci istituito della funzione di Enti Sussidiari significa diventare garanti di un Bene definito a livello statale e aumentare in maniera ancora più significativa l’asimmetria nelle relazioni di “cura”.
Questo cambiamento normativo trova il proprio fondamento all’interno di una visione politico-economica che definisce la salute come Bene Meritorio.
I “beni meritori” sono una tipologia molto particolare di Bene che viene definito e amministrato dallo Stato. Esso si fa interprete della tutela della Salute, e in quanto tale ha il potere di regolamentare i comportamenti che ritiene indispensabili a tutela della popolazione (pensiamo al ruolo delle leggi che istituiscono fondi di finanziamento per specifici programmi di intervento o di promozione).
In questa accezione, non è importante che la popolazione senta l’importanza, il valore o il bisogno di un intervento. Lo Stato sa meglio dei propri cittadini cosa sia meglio per loro, in un’ottica paternalistica.
Lo Stato, grazie a una consulenza tecnico-scientifica, riesce a mappare i “bisogni di salute” e si intesta il compito di soddisfarli, a prescindere dal fatto che le persone sentano la necessità di quel bisogno specifico. Ciò che fa discrimine non è che la popolazione avverta in qualche modo quel bisogno, ma la valutazione politica del beneficio che se ne può trarre. È possibile così imporre una vaccinazione di massa per la tutela della salute, così come proibire un determinato comportamento (come il fumo nei luoghi pubblici). I cittadini e la popolazione possono non sentire né l’urgenza né l’importanza di un bene meritorio ma tutti devono provvedere al mantenimento di quel bene.
L’epidemiologia, fatta di algoritmi espressi in fattori di rischio e fattori di protezione, permette ai tecnici della salute di comprendere e definire i “bisogni di salute” e i “bisogni di psicologia” della popolazione; di predisporre, conseguenzialmente, programmi di prevenzione e promozione: imparare a riconoscere questi bisogni è il primo passo per stare in salute.
Parlare di Salute in questi termini comporta inevitabilmente uno sbilanciamento della “cura di sé” dalla persona al professionista, in quanto la persona non può sapere mai, se non quando una malattia si manifesta, se è sano oppure no, se è asintomatico oppure no. Solo il professionista, in possesso delle conoscenze scientifiche e tecniche può valutare e indirizzare la persona verso le scelte decisionali più opportune rispetto al proprio “bisogno di salute”.
La salute, ricorda Sala (op. cit.), rischia di diventare una dichiarazione medica e non un “sentire” della persona, un sentire dal quale si rimane inesorabilmente lontani. È sempre più lontano il tempo in cui la persona era una “esperta di sé”, seppur in difficoltà.
È chiaro che, in questo sbilanciamento di competenze (e di potere), il professionista ha una responsabilità enorme: da qui deriva la richiesta di una maggiore professionalizzazione nei confronti di chi lavora nel campo sanitario. Il lavoro sulla professionalizzazione della formazione e del professionista è un punto cardine di questo sistema: i professionisti devono garantire un range di competenze omogenee e standardizzate (certificate), ma soprattutto basate sulle “evidenze scientifiche”.
Se lo Stato si intesta in maniera così totalizzante la tutela della salute, prioritaria diventa la definizione di protocolli che possano “certificare” la correttezza “formale” delle procedure e dei protocolli.
Purtroppo, a mio avviso, stiamo pagando il privilegio “professionale” con una progressiva perdita di autonomia e libertà da parte dello psicologo.
La cultura psicologica del “professionista sanitario”
Fino a qualche tempo fa per “sanitario” si intendeva un ambito di applicazione del professionista psicologo. Con “sanitario” oggi si intende un processo di professionalizzazione che in maniera inequivocabile comporta, come abbiamo visto, uno sbilanciamento del potere che i professionisti hanno nei confronti dei propri clienti.
Alla progressiva normazione del lavoro psicologico descritto nel paragrafo precedente, ha fatto eco, in questi ultimi anni in particolare, una “cultura” psicologica che fa della Salute Psicologica un fatto specialistico e tecnico (Lazzari, 2023). Credo, tuttavia, che dovremmo continuare a riflettere sul potenziale effetto dis-abilitante della gestione professionale e specialistica della salute mentale (Sala, 2009; Illich, 1977; Campo, 2022b).
Promuovere la cultura psicologica significa di fatto educare la popolazione a riconoscere quei “bisogni psicologici” che sono alla base di una “buona cura di sé”, al servizio del proprio benessere personale.
Ritorna però una domanda: cosa sono questi “bisogni psicologici”? da chi vengono espressi? su quale base? in virtù di cosa? è possibile ancora riflettere su cosa si intenda per bisogni psicologici al di fuori della scienza epidemiologica?
A me sembra che questi “bisogni psicologici”, di cui lo psicologo si intesta il soddisfacimento, siano vincolati quasi esclusivamente a criteri di carattere tecnico-scientifico che permettono di inquadrare correttamente problema sociale nonché le procedure idonee a risolverlo: se il problema è una depressione post-partum, è sicuramente necessario individuare l’ambito di intervento elettivo per prevenirne l’insorgenza e definire le linee guida di intervento ritenute più efficaci.
La stessa psicoterapia sta prendendo la forma di un “bisogno psicologico” da soddisfare. Messi così, i bisogni psicologici si definiscono per un “problema pubblico” (come una depressione) da risolvere grazie all’intervento dello psicologo che si muove su base tecnico-scientifica.
Sono una psicoterapeuta e so bene quanto possa essere utile, a chi soffre per una depressione, trovare un sostegno e una relazione di cura, ma non ho mai pensato che l’intervento terapeutico sia l’unico modo per “gestire” una sofferenza di questo tipo. È chiaro, la psicoterapia è il modo elettivo per “gestire” un sintomo, ma non è l’unico. Spesso, ad esempio, si arriva alla psicoterapia quando tutto il resto è risultato non efficace. E forse è anche normale che sia così. È vasta, inoltre, la letteratura che si interroga su quei fattori aspecifici ed extraterapeutici che intervengono sulla “guarigione” (eventi fortuiti, remissione spontanea, supporto sociale, età) (Mandolino, Iossa Fasano, Cardamone, 2020; Fava, 2004; Acharya, Agius, 2017) e la cui funzione rimane troppo spesso sottovalutata e ignorata da parte di noi professionisti.
Rendere la salute un fatto specialistico, significa dire che davanti a un momento difficile, una crisi, un lutto o qualsiasi altro evento doloroso, gli amici non bastano, né basta la famiglia, né l’ascolto attento ed empatico del prete di fiducia. L’intervento tecnico prende il posto di un sapere più antico e depositato all’interno delle relazioni significative, e la tempestività prende il posto dell’attesa (Campo, 2022b).
Così, lo psicologo non entra in campo quando si manifesta una difficoltà, quando “qualcosa non sta funzionando”, ma prima, per aiutare a riconoscere tempestivamente i segnali di una possibile cronicizzazione di una crisi. Basti pensare alle richieste di intervento da parte di quei genitori preoccupati che affidano a un consulente la gestione dello sviluppo (quasi sempre fisiologico in realtà) dei propri figli. Sempre più spesso la consulenza del professionista viene invocata per valutare se le modalità con cui si sta affrontando un problema siano quelle corrette. Come fa del resto una persona comune a comprendere se il modo in cui sta affrontando una perdita è quello giusto o se sfocerà in una grave depressione, se non grazie alla presenza di un professionista che lo aiuta a riconoscere i propri “bisogni psicologici”?
Perfino gli studenti reclamano a gran voce la presenza dello psicologo scolastico non tanto per essere aiutati qualora si presentassero dei problemi, ma perché devono essere aiutati e supportati a imparare a prendersi cura di sé per stare bene. Come se ci fosse un manuale che possono acquistare per imparare a stare bene!?
Mi si potrebbe obiettare: ma abbiamo sempre lavorato così, qual è il problema? Altrimenti come potremmo mettere a punto qualsiasi programma di prevenzione?
L’affermare che lo abbiamo sempre fatto non implica sospendere una riflessione su cosa stiamo facendo e su come lo stiamo facendo. Abbiamo più di trent’anni di storia della professione alle spalle per poter iniziare a fare un bilancio dell’esperienza maturata in questo periodo. Trent’anni sono un periodo abbastanza lungo per potere iniziare a fare il punto della situazione? e soprattutto per chiederci se siamo ancora disponibili ad andare verso una definizione “sanitarizzata” della nostra professione? o per chiederci se questa sia l’unica direzione verso la quale è possibile andare?
Dal mio punto di vista, questa onnipresenza del professionista psicologo rischia di qualificarsi nei termini di una vera e propria “sorveglianza sanitaria”: un sistema che si attiva nell’ordine della tutela della salute è un sistema che lavora all’interno di un regime di protezione quando non di approccio alla cura di tipo protezionistico.
Mi chiedo se sia questa la cultura psicologica da promuovere, a cui fa riferimento la revisione dell’art. 21 dell’attuale codice deontologico.
Una cultura che rischia di alimentare posizioni fobiche, ipocondriache, ossessive, isterico-paranoiche (Mignosi, 2023) nei confronti del proprio corpo, della propria mente, di ciò che è “umano”.
Come possiamo continuare a fidarci del nostro corpo e della nostra capacità di ascoltarci quando la “cura” del corpo e della mente è un puro atto specialistico? Quanto non colludiamo con la promozione di una cultura eteronoma, che veicola l’idea di una rassicurazione, di un “appoggio” solo ed esclusivamente all’esterno, da noi e dal campo delle nostre relazioni significative? Quanto favoriamo richieste di protesi tecniche e tecnologiche? Così, al rapporto diretto rischia di sostituirsi il rapporto mediato dalla presenza di un professionista.
All’interno di questo paradigma culturale della cura, sempre meno lo psicologo può prendere la posizione di “osservatore” che, pur nella sua funzione pubblica originaria, ha sempre cercato di tenere. Diventare parte integrante del sistema, anche quando è il sistema che “fa ammalare”, ci rende sicuramente una professione meno autonoma e meno libera, e forse ci espone maggiormente a un rischio collusivo di cui dovremmo essere quantomeno consapevoli.
Come sarà possibile, all’interno di questa prospettiva, mantenere uno sguardo epistemologico su come costruiamo gli oggetti e i soggetti della psicologia? di quali pratiche professionali saremo interpreti se il nostro ruolo è di sussidiarietà alle politiche governative? dal mio punto di vista è una perdita di autonomia importante e significativa: anche quando ci riteniamo autonomi nella definizione dei nostri oggetti di lavoro, in realtà lo siamo molto meno di quanto pensiamo. Certo, non siamo mai pienamente autonomi nella costruzione della realtà, ma proprio per questo è importante potere continuare a “pensare ciò che ci pensa”; il rischio è di rimanere, anche noi, dipendenti da logiche eteronome rispetto al nostro lavoro.
In una prospettiva in cui la Salute è definita “altrove” (senza la partecipazione dei cittadini o dei pazienti) e amministrata da specialisti della salute, che fine fa il soggetto?
Se il professionista è colui che “sa”, che possiede le competenze per aiutare le persone a stare in Salute, che sa cosa è giusto fare per qualsiasi problema (per cui sono sempre pronte nuove definizioni a cui corrisponde una tecnica che ci aiuta a liberarcene) quale competenza di sé rimane al soggetto?
Il codice deontologico delle psicologhe e degli psicologi
La revisione del codice deontologico prevede l’introduzione di una premessa etica che non sarà oggetto di quesito referendario. Inoltre, tutti gli articoli sono stati titolati in modo da rendere più fruibile il senso dell’articolo stesso.
La Premessa Etica
La Premessa Etica accompagnerà il nuovo Codice Deontologico e sarà vincolante per tutti gli iscritti all’Ordine; nonostante ciò, questa non sarà oggetto di quesito referendario. Non se ne comprende bene il motivo. Questa Premessa Etica è liberamente ispirata al metacodice EFPA (Federazione Europea delle Associazioni di Psicologi) che fornisce le linee guida per i contenuti dei Codici Etici delle Associazioni che ne fanno parte (Ruberto, 2023). Per questo motivo è ipotizzabile che non abbia bisogno di una riflessione pubblica né tanto meno di una approvazione, ma chiaramente rimaniamo nel campo delle ipotesi.
Più volte i rappresentanti dell’attuale CNOP (Ruberto 2022, 2023; Lazzari, 2022) hanno segnalato la necessità di una Premessa Etica; una valida deontologia professionale deve poter definire con precisione i principi etici da introiettare per cucire correttamente il proprio abito deontologico e favorire l’acquisizione delle corrette procedure di pensiero.
La Premessa Etica, che accompagna la revisione del Codice delle psicologhe e degli psicologi, tratteggia e sagoma un professionista che fonda la propria etica professionale sulla scienza e sulla tecnica. Secondo Parmentola (2022), uno dei primi estensori, il vertice etico dovrebbe potersi dispiegare sul vertice scientifico e darsi nell’appropriatezza tecnico-scientifica: la responsabilità verso le persone e la società àncora lo psicologo in un discorso di competenze, per cui i ragionamenti dovrebbero attenersi a ciò che viene ritenuto essere valido e scientifico, i riferimenti scientifici dovrebbero rispettare un certo standard per essere attendibili e i curricula professionali dovrebbero essere certificabili.
Secondo i revisori, la capacità di costruirsi una propria pratica professionale deontologicamente orientata deve rifarsi necessariamente e prioritariamente a conoscenze scientifiche accreditate che ne possano garantire l’attendibilità.
Non posso fare a meno di ricordare come la storia dell’uomo testimoni di pratiche che, ammantante dall’aura della scientificità, si siano rivelate essere inefficaci quando non pericolose.
Pur non di meno, la revisione sostiene la figura di uno psicologo che per potere essere etico deve essere molto tecnico.
Questo accento sulla tecnica espone lo psicologo alla gestione di un altro tipo di responsabilità, di carattere più professionale. Come ci ricorda il metacodice EFPA il sapere tecnico si configura come una forma di potere.
Il sapere tecnico tende a creare una diseguaglianza di conoscenze, e quindi di potere, che il professionista detiene nei confronti delle persone. Più è ampia questa diseguaglianza di conoscenze all’interno della relazione, maggiore è la responsabilità dello psicologo.
Quindi, la competenza professionale si configura come un potere che viene assegnato al professionista nei confronti delle persone che a lui si rivolgono, che dovrebbe essere amministrato con grande professionalità. L’uso tecnico della conoscenza sembra volersi proporre come un uso “buono” di questo potere.
Questo aspetto “tecnico”, poco presente nella prima estensione del codice, oggi diviene la premessa con la quale formulare la migliore regola professionale.
Vincolare lo psicologo a una formazione valida è indispensabile, ma questa premessa etica sembra andare oltre. Sembra essere, infatti, un tentativo per normare la responsabilità del professionista nei confronti degli utenti e dei committenti, definendo con chiarezza in che modo è possibile esercitare o non esercitare la propria influenza (art. 3). La Premessa Etica sembra voler stabilire, una volta e per tutte, i confini tra ciò che è scientifico e morale, e ciò che è riferibile al campo della “superstizione” e della “irrazionalità”. La tecnica, infatti, risponde all’esigenza di qualificare il nostro lavoro in quanto professione scientifica e sanitaria, ed espressione di un potere buono.
La revisione del Codice vuole proporre quindi degli ethical standard, oggettivabili, standardizzati e condivisi per costruire la propria regola professionale. Gli ethical standard sono, però, prima di tutto dei technical standard: la loro introiezione permette di sagomare professionisti moralmente e tecnicamente validi. La garanzia di un potere neutro e non arbitrario sembra risiedere proprio nel discorso scientifico.
La coscienza del clinico che si muove “caso per caso” sembra essere ridotta all’osso e derubricata a qualcosa di arbitrario.
Prima, ciò che muoveva la coscienza del clinico era un’etica fondata sulla relazione, sul rispetto e su un continuo lavoro su di sé capace di tenere dentro il ragionamento sugli assunti epistemologici e sulle premesse culturali del periodo. Questo costante lavoro permetteva al clinico di assumersi la responsabilità di ciò che faceva all’interno della relazione.
A mio avviso, una riflessione etica non dovrebbe cercare fuori degli appigli oggettivabili, macercare di fondarsi dentroun discorso interpersonale ed epistemologico sul potere.
Gli standard etici, invece, sembrano rispondere alla ricerca di un “valore” al di fuori della relazione.
Il vecchio professionista sagomato “con scienza e coscienza” lascia il posto al professionista per il quale la “scienza è coscienza”: i ragionamenti clinici, la libertà e l’autonomia lasciano il posto alle conoscenze tecnico-scientifiche. Sicuramente la scienza risponde a un bisogno di sistematizzazione dell’insieme di conoscenze che è riuscita ad acquisire nel corso dei secoli, ma non si può pensare di sostituire l’esperienza reale con quel paziente reale, che fonda una deontologia pensata “caso per caso”.
Spinsanti (2020) evidenzia come l’attuale ricorso al modello scientifico comporti un sempre più ridotto grado di libertà del clinico rispetto alla possibilità di interrogare il proprio sapere secondo le contingenze del caso.
Il tentativo di definire gli standard etico/scientifici rischia di far fuori quella componente soggettiva del professionista che, operando in scienza e coscienza, rende non standardizzabile la misura deontologica.Il dato soggettivo, che fino ad oggi era legato alla coscienza del professionista e ai suoi ragionamenti clinici, rischia di non trovare spazio all’interno dell’attuale revisione.
Così sembra essere conferita una posizione di superiorità alla Scienza rispetto a tutte le altre fonti di conoscenza, perfino quella derivante dalla persona che incontriamo. È da verificare sul campo, chiaramente, se questa posizione di superiorità garantisca la migliore regola deontologica. Secondo Spinsanti (ibidem) il rischio che attualmente corre la professione medica è di vedere aumentata la propria subalternità alla “politica politicante”, quella politica che ci chiede di diventare erogatori di protocolli ben lontani da una reale preoccupazione per la salute dell’altro.
Il vertice introdotto nell’attuale revisione apre, infatti, ai protocolli, alla medicina evidence based, ma anche alla medicina difensiva.
La stessa revisione dell’articolo 22 sulle “condotte non lesive” prescrive l’ancoraggio professionale alle linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali.
Il concetto di standard, necessario quando si tende a un maggiore controllo sulla qualità dei servizi e del trattamento erogato, ci espone anche a una visione professionale appiattita sulla performance e sulla semplice valutazione di una performance. La logica performativa e valutativa è ciò che spinge molti clinici a chiudersi dentro una medicina difensiva, scegliendo di proporre solo quei trattamenti che garantiscano l’impunità davanti alla legge.
Le linee guida, secondo Spinsanti (op. cit.) non dovrebbero avere una rilevanza giuridica.
Con l’attuale revisione, il Codice Deontologico sembra volere indicare, come più volte suggerito da Stampa (2019), la strada della legalità di una determinata condotta.
Ma il discorso sulla legalità non risolve il discorso sulla legittimità di una professione così standardizzata. Questa revisione rende sicuramente il Codice più adatto a interfacciarsi con il nostro sistema giuridico fondato sul principio della legalità e del giusto processo (qualora ci dovessero essere dei procedimenti disciplinari, civili e/o penali) ma meno adatto a rispondere alle questioni etiche alla base della professione.
Il principio della legalità (cosa fare per non incorrere in sanzioni) e della regola (certificazioni, standard, qualità) sembra essere penetrato con troppa facilità all’interno delle riflessioni sul Codice Deontologico. La riflessione sulla legalità di un’azione non può prendere il posto della riflessione su ciò che è lecito e legittimo. Si rischia, così, di scambiare la legittimità (ad esempio lavorare senza essersi vaccinati) con la legalità (ad esempio obbligo e sospensione per illecito deontologico). L’etica dovrebbe rispondere alla domanda di ciò che è lecito o non lecito fare mentre, a livello culturale, sembra esservi un appiattimento dell’etica sulle leggi.
Davvero possiamo dire che la pratica fondata su “scienza e coscienza” sia arrivata al suo tramonto naturale? davvero lo standard (un valore numerico, esterno e arbitrario) può garantire da solo la validità, la correttezza, la legittimità di un determinato trattamento posto in essere da un professionista?
Basta affidarsi alla tecnica per essere sicuri di non usare indebitamente il potere assegnato allo psicologo?
Pensare che la Scienza sia “esatta” è abbastanza opinabile, soprattutto alla luce delle conoscenze e delle riflessioni epistemologiche attuali (Ceruti, 2018). La scienza è un prodotto della riflessione e della pratica umana, e come tale andrebbe sottoposta a una costante interrogazione di carattere epistemologico.
Già nel 2005 Ioannidis poneva un dubbio sull’attendibilità delle ricerche scientifiche: secondo lo scienziato la maggior parte delle ricerche pubblicate e accreditate non riescono a rispondere ai criteri di replicabilità alla base del metodo scientifico. Qualche anno dopo (2017), insieme a un gruppo di ricercatori, Ioannidis pubblicava il Manifesto per la scienza riproducibile, denunciando gli innumerevoli conflitti di interesse nel campo delle sperimentazioni scientifiche, spesso sovvenzionate dal lobby e case farmaceutiche. E non possiamo negare le pressioni che i ricercatori ricevono per pubblicare contributi scientifici e mantenersi, anche loro, dentro certi standard professionali.
Ma, anche se volessimo ammettere una presunta neutralità alla scienza, sarebbe etico delegare in toto alla scienza le scelte che ci riguardano e che riguardano la nostra salute?
Sicuramente questo approccio proposto dai revisori si sposa con la visione della Salute come un fatto specialistico che dai tecnici della salute deve essere amministrato. Solo uno specialista scientificamente e tecnicamente preparato usa il proprio potere in maniera etica e deontologica. La certificazione ECM, per fare un esempio, dovrebbe garantire di trovarsi in presenza di un professionista deontologicamente orientato.
Nel tentativo di rifondare la deontologia in termini tecnico-scientifici, questa premessa etica rischia di appiattirla all’interno di una dimensione tecnico-amministrativa della salute e della malattia. Non posso fare a meno di notare come sia sparito qualsiasi riferimento al diritto all’autodeterminazione delle persone: non se ne trova traccia né nella premessa etica né nell’articolato revisionato: se la Salute è un Bene Meritorio, se è un fatto specialistico/professionale, quale spazio rimane per l’autodeterminazione?
Dal mio punto di vista, una riflessione etica, peraltro, non si dovrebbe limitare a costruire la migliore regola deontologica per amministrare questo potere (e rendere meno arbitraria la scelta del professionista), ma dovrebbe includere un discorso sulla legittimità di questo potere. È legittimo conferire al professionista tutto questo potere sulla vita delle persone?
Quella “parte” della psicologia che opera “caso per caso”, in ascolto della persona prima ancora che del sintomo, riuscirà a possedere i requisiti per ottenere le “condizioni di cittadinanza” nel mondo delle professioni sanitarie? a quale prezzo?
L’istituzione di un Ordine, qualunque esso sia, apre necessariamente a una riflessione sulla tutela dell’utente che si rivolge a noi. Si può essere d’accordo o meno sulla necessità di un Ordine che regolamenti la professione, ma una volta istituito, esso deve vigilare sulla qualità dell’offerta. Ma siamo sicuri che la deriva tecnica conseguente alla logica degli standard sia al servizio di una professione così varia, ricca e plurima (Campo, 2022a)?
È chiaro, le leggi non le possiamo cambiare, ma non possiamo neppure esimerci da una riflessione su ciò che ci precede e ci istituisce.
Trattamenti sanitari e rispetto della dignità della persona: verso una revisione
La revisione del Codice, che è attualmente in fase di approvazione, aggiunge una valenza etico-deontologica al Consenso Informato.
Anche qui potremmo dire “nulla di nuovo all’orizzonte”: il consenso informato ormai è prassi per qualsiasi professionista.
In questo caso non si tratta di mettere in discussione un principio importante e di civiltà, ma domandarsi a cosa risponda farlo diventare ciò che fonda eticamente la relazione con l’altro.
Nelle intenzioni del legislatore, il consenso informato vorrebbe andare oltre quella logica paternalistica che ha attraversato buona parte della pratica medica; ma, proprio dove cerca di scardinarla, la legittima. Nulla del vecchio apparato paternalistico viene messo in discussione, piuttosto si conferma l’ineguaglianza nelle informazioni tra medico e paziente. Viene solo ammesso che nessun trattamento può essere eseguito senza un consenso che sia informato, libero e consapevole.
Il consenso informato è uno strumento/processo previsto solamente nel caso dei trattamenti sanitari. Da quando, con la legge 3/18 siamo diventati professionisti sanitari, siamo anche noi (giustamente) vincolati all’obbligo del consenso informato.
La revisione, quindi, è necessaria per ridefinire il lavoro degli psicologici che prestano la propria opera nel campo della salute. Il “vecchio” codice parla infatti ancora di semplici prestazioni psicologiche. In linea con la legge, da questo momento in poi gli psicologi si occupano di trattamenti e il consenso informato è ciò che permette al professionista di agire in tal senso.
Proviamo a chiarire cosa significhi questo passaggio. Gli psicologi (esclusi pochi casi professionali) non “prestano” più “la propria opera nell’espletamento di un’attività intellettuale”, ma offrono “trattamenti”. Il concetto di “trattamento” ci introduce dentro un discorso tecnico e scientifico che necessita di un’alta professionalizzazione.
Trattamento diventa, coerentemente con la legge, qualsiasi intervento di carattere preventivo, terapeutico o diagnostico, di carattere volontario o obbligatorio, da praticare sulla persona per migliorarne le condizioni di vita e di salute. Nessun trattamento può essere praticato senza il consenso della persona; il professionista, valutata un determinata situazione, aiuta la persona a prendere la scelta più adeguata alla propria salute.
Ciò significa, ad esempio, che la prevenzione è diventata un trattamento sanitario. Fare prevenzione significa “trattare” la popolazione o una popolazione target indirizzando i comportamenti verso posizioni più salutari. La stessa psicoterapia diventa un “trattamento di cura” e come tale deve poter rispondere a criteri di scientificità e attenersi a protocolli per la gestione del sintomo. Fare diventare così, la psicoterapia il “trattamento” tecnico per un disagio, sia pure per una psicopatologia, significa appiattire l’esperienza esistenziale di una persona, l’esperienza relazionale del prendersi cura, in una “gestione del sintomo”.
La logica sanitaria della legge 3/18 entra, senza se e senza ma, all’interno di una pratica che ha sempre coltivato al suo interno anche una visione umanistico-esistenziale dell’essere umano. Per una beffa del destino, l’approccio centrato sulla persona, sulla relazione e sul rispetto dell’autodeterminazione potrebbe di fatto diventare l’ambito specifico dei counselor, consulenti non professionalizzati per la cura relazionale al servizio di un approccio umanistico.
I professionisti, al contrario, diventano titolari (manager) della gestione dei processi di “cura”: è sempre il professionista a sapere cosa è il bene del paziente. Se il “Sapere” è allocato nelle mani del professionista, la persona può solo dare il proprio consenso.
Il principio alla base del consenso informato trova la sua ragione d’essere proprio nel processo di professionalizzazione del sanitario: l’evidente squilibrio di conoscenze tra chi cura e chi viene curato dovrebbe essere contenuto grazie a una comunicazione sincera e professionale tra medico e paziente.
È un atteggiamento che paragona il paziente a un consumatore (del prodotto Salute) che va informato: la corretta informazione permette al consumatore di prendere delle scelte sul prodotto in maniera consapevole.
Non vi è ombra di dubbio che, in questa prospettiva, il consenso informato sia un atto civile rispetto all’abuso di potere che i medici hanno perpetrato sulla vita delle persone in barba ai principi costituzionali dell’indisponibilità del corpo, dell’inviolabilità della libertà della persona e del diritto a scegliere sulla propria salute. Troppi sono i danni di cure “estorte” senza il consenso della persona.
La comunicazione, nella logica del consenso informato, ha un ruolo centrale: il professionista informa e condivide con la persona tutte le informazioni in proprio possesso rispetto allo stato di salute della persona, al trattamento necessario per quel tipo di problema, argomentandolo e rendendo chiari benefici e rischi. La comunicazione chiara e trasparente vuole trasformare la persona in un soggetto capace di prendere decisioni responsabili sulla propria vita e di diventare un soggetto attivo nella gestione della malattia.
Da un lato, quindi, c’è un professionista in possesso di tutte le conoscenze scientifiche e tecniche disponibili, dall’altro una persona che dipende dal professionista rispetto a quanto c’è da fare; da un lato un professionista titolare del trattamento, dall’altro un paziente titolare di un consenso.
Il ruolo del professionista è di avere grande cura di questo momento comunicativo con il paziente perché da questo discenderà la possibilità della persona di prendere delle scelte responsabili. Qualora il clinico dovesse valutare la necessità di cambiare le “cure” per la persona, questa va informata e deve poter dare un nuovo consenso.
Sostenere la persona nel processo decisionale rispetto alla somministrazione di una cura è una parte centrale del processo terapeutico. L’obiettivo è fornire, dentro una comunicazione autentica, tutte le informazioni per aiutare la persona a comprendere l’importanza di quella cura, accettandola; la motivazione alla cura, inoltre, aumenterebbe la compliance al trattamento.
Insomma, in linea teorica, i principi costituzionali alla base del rispetto della dignità della persona sarebbero così tutelati.
A differenza però del consumatore tipo, nel campo della salute non si possono mai riuscire a dare tutte le precise informazioni che si potrebbero fornire, quanto meno in linea teorica, per la scelta di un prodotto commerciale. Al contrario, il paziente dipenderà costantemente da un soggetto che ne saprà sempre di più di lui. È il professionista a padroneggiare una competenza e una tecnica da cui il paziente è escluso, nonostante tutte le informazioni che può ricevere a riguardo. Il paziente nulla sa di cosa potrebbe accadere se le proprie condizioni di salute dovessero cambiare, né è capace di prevedere l’impatto delle sue decisioni sulla propria vita.
Le informazioni che un professionista comunica al proprio assistito rendono solo fittiziamente l’altro veramente edotto. Non voglio certo negare l’importanza “civile” di questo atto; mi chiedo, semmai, se effettivamente basti una comunicazione trasparente per eliminare definitivamente l’ombra paternalistica dai processi di cura, visto che la persona, per quante informazioni possa ricevere, non potrà mai “sapere” cosa “tecnicamente e scientificamente” sia giusto per sé. La co-costruzione di un percorso di guarigione della persona, la costruzione della stessa alleanza terapeutica rischiano di svilirsi nella costruzione condivisa e partecipata del processo decisionale.
La proposta di revisione del Codice Deontologico vuole mettere al centro dell’operatività del professionista l’informazione e il consenso. Non basta più che questo venga dettagliato nell’articolo specifico (art. 24), ma l’informazione e il consenso diventano ciò che qualifica la relazione professionale, tanto da comparire fin dai primi precetti del Codice Deontologico.
La revisione dell’articolo 4 è forse quella che più di tutti riformula il ruolo dello psicologo, in quanto vuole fondare la tenuta dell’agire professionale (per come espresso nell’art. 3) sull’assunto che non vi può essere rispetto senza consenso (Leardini, 2023).
Infatti, la revisione dell’art. 4 riprende fedelmente una parte dell’attuale e ancora vigente art. 24 per inserirlo come primo comma dell’art. 4: il consenso (anche se non nella declinazione del consenso informato) è necessario non solo per sviluppare la motivazione della persona e la sua adesione al trattamento, ma anche per garantire alla relazione professionale un governo consapevole e appropriato (ibidem).
Il vigente art. 4 (“Nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità […]”) verrà sostituito con il seguente precetto: “La psicologa e lo psicologo, nella fase iniziale del rapporto professionale, forniscono all’individuo, al gruppo, all’istituzione o alla comunità, siano essi utenti o committenti, informazioni adeguate e comprensibili circa le proprie prestazioni, le finalità e le modalità delle stesse, nonché circa il grado e i limiti giuridici della riservatezza”.
Quindi il consenso (sia quello generale che quello informato) si dovrebbe qualificare come strumento indispensabile per il rispetto della libertà, della dignità e dell’autodeterminazione, ma l’unico potere di cui rimane titolare la persona è il potere di accettare o negare le cure (sempre che il “non consenso” non venga letto come una resistenza o esitazione da “trattare”).
Ma, al di là del rispetto formale e legale dei principi costituzionali, davvero un consenso informato protegge i diritti all’autodeterminazione, alla libertà e alla dignità di una persona?
Dove finisce quella spinta etico esistenziale presente nel vigente art. 4, che fonda eticamente la relazione, vincolando il professionista al rispetto della dignità, al diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione e autonomia di chi si avvale della sua competenza? Che fine fa lo psicologo sagomato sull’idea di un’accettazione vera e incondizionata della persona, disposto a non imporre i propri sistemi di valori e di visioni del mondo e della salute stessa?
L’eticità, dal mio punto di vista, si fonda sul rispetto della dignità della persona, sulla sospensione del giudizio e sulla non discriminazione. Autodeterminarsi, per altro, è qualcosa di più che un semplice essere padrone delle scelte che ci riguardano. L’autodeterminazione personale, infatti, è qualcosa di più dell’autodeterminazione terapeutica, quanto più la prima si qualifica come libera espressione di sé in relazione alla propria vita, tanto più la seconda si inquadra come libera scelta in relazione a una cura e alle scelte prospettate da altri.
Non sono una esperta di diritti costituzionali, ovviamente, ma formulato in questo modo il consenso sembra essere una liberatoria legale, per quanto nella forma di un processo comunicativo, per continuare ad agire in nome di un paternalismo professionale e sociale.
Inutile girarci attorno, il consenso informato, oltre ad essere un processo comunicativo tra la persona e il professionista, è anche uno strumento che tutela dal realizzare illeciti deontologici o reati penali. Il consenso informato è figlio di quella logica contrattualistica di carattere neoliberale che esonera le persone dall’assumere in prima persona le proprie responsabilità.
Sicuramente penso che avremmo bisogno di comprendere un po’ di più queste questioni: come già detto, mi sembra che il consenso solo fittiziamente risolva il problema di una visione paternalistica della cura, e così rischi di lasciare un enorme vuoto etico. Ad esempio: cosa rende dignitoso e rispettoso un trattamento terapeutico? Può essere l’adesione al principio della legalità?
Davvero le persone che si sono sottoposte in maniera obbligata alla vaccinazione hanno sentito rispettata la propria dignità e il diritto all’autodeterminazione solo perché avevano apposto una firma sul consenso informato?
La loro dignità, davanti a un obbligo surrettizio, è stata forse ripristinata da una firma che ne consentiva la somministrazione? Ci sono persone che hanno inventato gli stratagemmi più estremi (perfino un braccio finto) nella speranza di vedere ripristinato il valore della propria persona ad autodeterminarsi, e tutelati i propri diritti umani, prima ancora che costituzionali. Il mancato consenso, pur essendo nel diritto delle persone, è stato trattato da un punto di vista sanitario (pubblico) come una esitazione da sciogliere per vincere le irrazionali “resistenze”; l’esitazione andava trattata come intervento sanitario volto a sviluppare nelle persone un valore civico a tutela della salute pubblica.
Mi si può chiaramente obiettare che questo è un esempio che riguarda il campo medico. Ma vorrei ricordare che gli psicologi hanno avuto un gran da fare nel trattare le esitazioni vaccinali grazie a un loro reclutamento di massa in quella campagna vaccinale che ha discriminato e negato diritti, nonché leso la dignità delle persone.
Gli psicologi hanno favorito forme di discriminazione e imposto alle persone un sistema di valori, per quanto dichiaratamente tecnico/scientifico. So per certo di terapie che si sono concluse perché i terapeuti erano impegnati a interpretare le resistenze alla vaccinazione dei propri pazienti, o di terapeuti che hanno invitato i propri pazienti a vaccinarsi, altrimenti avrebbero interrotto il trattamento. Si può continuare a negare la lesione dei diritti a livello giuridico, ma ciò non cambia la sostanza.
Nel corso della campagna vaccinale, il rispetto della dignità, della riservatezza, dell’autodeterminazione, della libertà, dell’indisponibilità del corpo sono stati solo una chimera.
Sicuramente il consenso informato riesce a rispondere al principio della legalità di un trattamento, ma non risolve l’intero spettro delle questioni etiche che si prospettano davanti, tra cui il rispetto della dignità della persona e la dignità della cura.
Di nuovo, si confonde l’aspetto della legalità con quello della legittimità: il fatto che una cosa sia legale non significa che sia legittima, e questo noi psicologi dovremmo saperlo bene.
Dal mio punto di vista, il cambio di paradigma in questa proposta è evidente. Non più i principi etici che dovrebbero portare alla sagomatura della migliore regola deontologica, ma sembra quasi che la deontologia si fondi sulla liberatoria ad agire.
Sembra una deontologia alla Sheldon Cooper! Il consenso fa prevalere il potere di alcuni sugli altri: è un contratto, seppur nella formula di consenso informato, che regola i rapporti di potere rendendoli legali. Pur in tutta la sua simpatia, Sheldon era incapace di stare nei rapporti senza che questi fossero vincolati, tutelato quindi da un contratto. Sheldon, in virtù della firma su questi contratti, poteva rendere “legali” perfino dei veri abusi di potere! Un approccio che fa eco a quella visione neoliberista in cui la libertà, la dignità e l’autodeterminazione si riducono a una semplice accettazione delle condizioni imposte da un altro (il consenso informato si può solo accettare o rifiutare).
La nostra società prima e la comunità professionale dopo sembrano avere fatto propria la logica neoliberista che vuole comprimere i rapporti (generativi, sessuali, terapeutici) dentro logiche consensuali e contrattuali, per riequilibrarne il potere all’interno (Pateman, 1988, De Carolis, 2018). Secondo Pateman (1988) il rapporto neoliberista nasce da un libero accordo tra le parti, che qualificandosi come accordo sul managing, pone il diritto di comando nelle mani di una delle parti contraenti. Una logica che nasconde l’ombra paternalistica di una pratica professionale che si sente legittimata ad agire a partire dalla pretesa di relazioni di iperprotezione/dipendenza del soggetto e della sua comunità di appartenenza.
Pur riconoscendo l’importanza che la persona possa decidere fino all’ultimo istante sulle scelte che altri prendono sulla propria vita, è anche vero che la questione della dignità personale non si può appiattire solo su questo.
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La nostra collega Roberta Campo, attraverso sguardo acuto e rigoroso ragionamento, ci mostra alcuni tra i travisamenti più insidiosi del nostro tempo, con i gustosi strumenti della sua scrittura.
Nel suo discorso opera un prezioso disvelamento di significati e intenzionalità sottese ai dispositivi sanitari e culturali messi in atto da sempre più organismi istituzionali, e riesce a demistificarli, identificandoli per ciò che sono, e cioè dispositivi di attribuzione di significato, cornici di senso verso cui l’umanità sta dirigendosi.
Il prezzo sembra essere una normatività etico-morale di odore totalitario, e la perdita da parte dell’individuo della capacità di essere Soggetto, dunque legittimo titolare della propria vita, dello sviluppo di sé e del proprio ambiente. Ma anche lo smarrimento di una dimensione d’Anima, entro cui intimo sentire e culture locali orientino al senso della vita, ed entro le istanze più pregnanti dell’esistenza umana.
Premessa
L’ipermodernità (Kaës, 2013), e con essa il capitalismo liberale, ha prodotto un’accelerazione tale, tanto nei costumi quanto nei modi di sentire, da esporre l’essere umano a una fatica per certi versi inedita del vivere. Diversi Autori, a partire da prospettive anche molto differenti tra loro, hanno provato a comprenderne non solo la portata, ma anche la posta in gioco (Kaës, 2013; Sennett, 2002; Le Breton, 2016; Fina, Mariotti, 2019; Mignosi, 2020).
Parole nuove si affacciano per interpretare il reale, entrate a far parte del lessico professionale di tutte quelle figure che si occupano dell’umano.
L’obiettivo di questo articolo è di aprire una riflessione di senso sulle premesse culturali che sostengono tanto le teorie quanto la nostra pratica professionale. Ritengo conditio sine qua non ripensare gli assunti impliciti dei nostri paradigmi di riferimento, in quanto essi sostanziano i nostri stessi ragionamenti clinici.
L’utilità di interrogare gli impliciti liberisti (Schiera, 2022) ci può forse evitare possibili collusioni culturali che rischiano di reificare, nei nostri setting, esattamente quelle istanze culturali che sono alla base della sofferenza e dell’angoscia dell’uomo contemporaneo.
Un “fare” avulso da una riflessione sulle premesse culturali che orientano la conoscenza rischia di far fuori la domanda e il dubbio. Anzi, più volte in questi anni abbiamo visto la domanda godere di una brutta fama, accusata di favorire lo sviluppo di teorie complottiste; il dubbio, dal canto suo, è stato velocemente licenziato dal dibattito in quanto espressione di una radicale mancanza di fiducia (nell’autorità, nella scienza).
Eppure, fino a pochi anni fa, il dubbio e le domande non erano così avversati.
Durante gli anni della mia formazione universitaria e post-universitaria mi è stato insegnato ad aspettare, al massimo a fare domande: le domande, si diceva, sono più importanti delle risposte, perché “costringono” a mettersi e far mettere in una posizione diversa rispetto a quella consueta. Nel 1969 Blanchot scriveva:
“la réponse est le malheur de la question”.
Intervenire troppo, così come interpretare troppo, può essere dannoso: il rischio è di sostituirsi al paziente nel suo tentativo di trovare le soluzioni per e da sé. Al contrario, oggi siamo sempre più al cospetto di un Sapere che riesce perfino a prevedere ciò che ci aspetta nel futuro, e gli obiettivi che devono essere perseguiti[1].
Nella cultura contemporanea, Sala (2019) segnala un’eccedenza, un troppo, rispetto a un fare che non permette, in primis al clinico, di lasciare che il tempo possa offrire i chiarimenti utili per la valutazione di una determinata situazione. I professionisti della Salute, invece, sembrano ossessionati dall’idea di intervenire in qualsiasi campo della vita umana, nella convinzione che più si interviene, più si previene. Prevenire è ciò che giustifica, in tutti i campi della scienza e della tecnica, il moltiplicarsi degli ambiti di applicazione dell’intervento specialistico. Questo interventismo trova fondamento nell’attuale “Modello Salute”[2].
Essere in salute è diventato un dovere al quale non ci si può sottrarre.
Ricordo ancora chiaramente una frase che mi è stata detta da una collega all’indomani dell’obbligo vaccinale: “tu, noi, siamo dei sanitari e in quanto professionisti abbiamo il dovere di stare bene. Soprattutto, non ti puoi permettere di stare male!”. Questa frase mi è rimbombata in testa per molti mesi: da lì probabilmente ho iniziato a sentire l’esigenza di approfondire certe tematiche. Questa frase, apparentemente banale, mi restituiva l’immagine di una persona che, appunto, ha il dovere di restare in salute.
Ma che significa che ho il dovere di restare in salute? Non mi posso ammalare? Perché tutto questo mi suonava come un imperativo al quale non potevo sottrarmi?
Se la salute diventa un “obbligo”, diventa anche prioritario stabilire il confine tra il normale e il patologico. Anzi, come professionisti siamo costantemente presi nel tentativo di tracciare una linea tra il sano e il non sano, tra il funzionale e il patologico.
Stiamo forse rispondendo a un richiamo verso una normativizzazione (diremmo anche patologizzazione) della vita? Quanto, dentro questo “fare”, rischiamo di rimanere prigionieri di un sistema fondato sulla protezione e sulle tecnologie della sicurezza[3]?
L’uomo, dentro questo sistema, rischia di essere sottoposto a un regime di sorveglianza sanitaria?
La cultura contemporanea ha assegnato alla medicina il compito di seguire l’essere umano durante tutto l’arco della vita – dalla nascita alla morte – accompagnandolo e sostenendolo nei momenti topici delle crisi evolutive. La speranza è che l’intervento specialistico possa, da sé, aiutare l’essere umano a far fronte a quel senso di smarrimento davanti ai misteri della vita[4].
La necessità di intervenire per qualsiasi cosa ci parla di un mondo idealmente più sicuro, ma anche più distante dalla possibilità di trovare parole che parlino all’animo umano di sofferenza, fatica, morte e malattia. Nonostante abbia affinato le tecniche per migliorare le aspettative di vita individuali, la scienza non è riuscita, e forse non riuscirà mai, a risolvere e comprendere il mistero della vita e della morte (Sala, ibidem).
L’essere umano ha davvero bisogno di più scienza? Ha davvero bisogno di più cure?
La contemporaneità sollecita costantemente un senso di disorientamento, e il tentativo di andare alla ricerca di istruzioni per l’uso è molto alto. A questo si aggiunge una prassi fondata su protocolli e procedure standardizzate.
La presenza massiccia del professionista nella vita delle persone serve così a scongiurare in via preventiva il dolore, la sofferenza o comunque un inutile aggravamento dello stato di salute fisico e psichico.
Nel corso dell’articolo avremo modo di vedere come alcune novità normative e disciplinanti la professione, accolte come meri accadimenti burocratici, possono rappresentare la porta dalla quale certi assunti liberisti stanno entrando, senza neppure troppo pudore, all’interno della nostra pratica professionale. Il fatto che il Ministero della Sanità sia oggi Ministero della Salute non è solo un passaggio burocratico e amministrativo: simbolicamente, in termini di appartenenza culturale, è niente affatto irrilevante.
È lo stesso Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, infatti, a indicarci il senso di questo passaggio, quando riconosce che la Psicologia si è assegnata il compito costituzionale di difesa e tutela della Salute psichica[5].
1. Critica allo sviluppo sostenibile
Queste premesse ci portano direttamente a una tematica che ci riguarda profondamente: quella dello sviluppo sostenibile.
Per rispondere in modo completo ai cambiamenti climatici e ai problemi di sostenibilità attuale, secondo le direttive prescrittive della “Agenda 2030”[6], sono state scomodate anche le scienze psicologiche che, forse per la prima volta, parlano di “sostenibilità psicologica”.
Ma cosa c’entra la psicologia con la sostenibilità?
In virtù del fatto che il concetto di sostenibilità è entrato a pieno titolo nel gergo professionale di uno psicologo, ho deciso di iniziare ad approfondire la questione. Dal mio punto di vista, è importante addentrarci dentro le pieghe del concetto di sostenibilità perché a questa si associa un certo ideale e modello di Uomo.
Sviluppo sostenibile, consumo sostenibile, società sostenibile, agricoltura sostenibile, mobilità sostenibile, turismo sostenibile, salute psicologica sostenibile: in qualsiasi campo dell’esistenza, la parola d’ordine sembra essere la sostenibilità di qualcosa. Il progresso e lo sviluppo sostenibile oggi fanno parte dell’agenda di quasi tutti gli organismi di governo nazionali e sovranazionali.
Per sviluppo sostenibile si intende la possibilità di“soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni” (ONU, Agenda 2030).
L’Italia stessa, recentemente, ha modificato gli articoli 9 e 41 della Costituzione, nella direzione dello sviluppo sostenibile[7]. Il cambiamento climatico, dentro la logica dell’emergenza climatica, è diventato una questione di interesse generale: il clima è un bene comune e deve essere salvaguardato prima che sia troppo tardi. Il bene comune è qui inteso come il minimo comun denominatore di tutti i “beni comuni”.
L’obiettivo, in questa sede, è quello di addentrarci in una riflessione che ci aiuti a capire in che modo la sostenibilità riguardi la vita delle persone, e in che modo contribuisca a declinare la sofferenza contemporanea.
Procediamo per passi.
Gli accadimenti degli ultimi anni hanno evidenziato un potenziale collasso del modello del capitalismo liberale, sempre più violento e distruttivo. Già verso la fine del secolo scorso sembrava abbastanza chiaro come il sistema liberale/capitalista stesse cedendo; le conseguenze di questo collasso sulla politica, sull’economia, sulla salute delle persone e sull’ambiente diventavano sempre più visibili.
Così, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, si è andata affermando una narrativa che ha visto l’essere umano e la sua stessa esistenza comela causa dei problemi attuali, dell’instabilità economica, del buco nell’ozono, dei disastri ambientali, delle crisi alimentari e naturali, della violenza sociale: causa, insomma, dell’insostenibilità sociale, ambientale e produttiva del pianeta.
L’essere umano mangia troppo, si riproduce troppo, usa troppa plastica, si diverte troppo. Il problema non è mai la filiera industriale che si nutre dei desideri umani, ma sono i desideri dell’uomo che, essendo indisciplinati, devono essere regolamentati e sostenibili. Gli influencer, così come i divi della tv, indicano la strada, non solo del desiderabile, ma anche le declinazioni del desiderabile e del sostenibile (un tempo si chiamavano pubblicità progresso).
Per Moore (2017), ad esempio, il problema non è che la gente mangia troppo, ma che il globalismo del capitale liberale porta con sé delle relazioni di potere che necessitano, per essere sostenibili, di un “sano” comportamento alimentare.
Certo che bisogna desiderare, ma con responsabilità! L’etica entra dentro gli acquisti e ne disciplina il desiderio; lo stile di vita di una persona è direttamente proporzionale al livello di sviluppo morale acquisito dalla stessa. In un siffatto panorama, il desiderio rischia di essere sempre più amministrato dal diritto, come vedremo in seguito.
A cavallo tra il 2007 e il 2009, il periodo di una delle più grandi crisi economiche del dopoguerra, si è affermata definitivamente l’idea che gli esseri umani avevano vissuto al di sopra delle loro aspettative e ci si doveva dare tutti (?) una regolata. In altre parole: l’uomo aveva scialacquato oltre misura le risorse disponibili.
La conseguenza di questa retorica è stata la colpevolizzazione del comportamento della persona comune, e la sua responsabilità sulle crisi politico-economiche, sociali e ambientali. L’uomo, infatti, è solo un granello difettoso di un sistema più ampio potenzialmente perfetto.
Se questo è di fatto il migliore dei mondi possibili (Campo, 2007), come sostiene la narrativa ufficiale, allora tutti gli sforzi devono convergere verso la sostenibilità che permette il progresso e lo sviluppo (altra narrativa ufficiale) per un periodo indefinito.
L’essere umano “irresponsabile” per natura va tempestivamente educato al rispetto delle regole poste a garanzia del Bene Collettivo. Detto in maniera più semplice, l’essere umano dovrebbe imparare a usare in maniera razionale le proprie risorse, dovrebbe controllarsi e autogestirsi rispetto alle proprie istanze consumistiche, e dovrebbe imparare ad avere cura dell’ambiente, magari iscrivendosi ai movimenti plastic free. La raccolta differenziata dei rifiuti, la riduzione della loro quantità, il controllo delle emissioni di CO2, l’uso razionale delle risorse, il cambiamento degli stili di vita e delle abitudini alimentari, il rispetto delle norme, sono tutti assi importanti del modello sostenibile. Chiaramente, la partecipazione responsabile di tutti è indispensabile, pena il fallimento del progetto.
L’umanità omogenea, unitaria, consapevole della propria irresponsabilità congenita è quindi il presupposto di base dello sviluppo sostenibile.
Ma perché formare il cittadino “ideale”?
Disciplinare l’uomo per permettere lo sviluppo del sistema è sembrata la buona soluzione per evitare il collasso del sistema. Dal mio punto di vista, il disciplinamento dell’uomo permetterebbe al Capitale nuove forme di circolazione a basso costo e a basso impatto ambientale.
Il concetto di sostenibilità si è diffuso capillarmente a partire dagli anni ’80 in relazione all’inevitabile transizione ecologica, e da quel momento in poi si è andato applicando a tutti i campi dell’esistente.
Il fatto che la sostenibilità sia poi associata a parole come etica, responsabilità, ecologia, maturità, salute (fisica e mentale) permette non solo la facile comprensione della proposta, ma anche di accettarne l’ineluttabilità.
Diversi Autori (ad esempio, Illich, 1977 e Latouche, 2005) hanno messo in discussione il concetto stesso di sostenibilità e il suo statuto epistemologico.
Secondo Latouche (2005), il modello di sviluppo sostenibile può essere paragonato a un’odierna mitologia che, come tale, svolge una funzione euristica e interpretativa sulle cose del mondo. Tale mitologia sostiene una visione esclusivamente consumistica, utilitaristica ed economicamente orientata; la prospettiva sostenibile, infatti, nasconde di fatto la sua profonda matrice economica, anche quando si veste di parole ecologiste o pacifiste. Per l’Autore sono proprio questi assunti che dovremmo provare meglio a questionare.
Il “mito dello sviluppo” prima, e dello “sviluppo sostenibile” dopo, è quindi al servizio dei processi capitalistici, della globalizzazione (oggi anche globalismo), del progresso scientifico e tecnologico. Il singolo da solo viene inchiodato alle proprie responsabilità e resocolpevole del fallimento dell’intero sistema.
Più recentemente Moore (ibidem) ha messo in discussione l’intero paradigma di sostenibilità in quanto, a suo dire, esso serve a perpetuare, teoricamente all’infinito, il sistema capitalistico.
Il Capitalismo, dice, si caratterizza per la sua capacità camaleontica di appropriarsi delle risorse naturali e mercificarle (si pensi a tutto il progresso nel campo delle biotecnologie): e ciò vale tanto per gli elementi naturali (chiamati appunto “prodotti”) quanto per la “natura umana”[8].
Moore (ibidem) così ritiene più adeguato parlare di Capitalocene, piuttosto che di Antropocene[9] per descrivere l’attuale era geologica.
Tutta la narrativa sullo sviluppo sostenibile è, infatti, fondata sull’idea che sia la semplice azione umana a danneggiare l’approvvigionamento o il benessere all’interno delle città (“troppe macchine al servizio della pigrizia delle persone”). Secondo l’Autore questa è una lettura fin troppo semplicistica.
Al contrario, sarebbe più utile ragionare dentro ottiche complesse, capaci di includere i rapporti di potere che sostanziano il globalismo capitalistico e liberale. Questi rapporti di potere riorganizzano e modificano non solo “la natura” ma anche il nostro rapporto con essa.
La tecnologia e la scienza sono prima di tutto strumenti essenziali di quel capitalismo che ha bisogno di depredare, sfruttare e appropriarsi della natura per poi rivenderla all’uomo[10]. Questa azione di appropriazione riorganizza la natura (in campi a coltivazione unica, o destinati al fotovoltaico, o in miniere per estrarre il carbone): quando parliamo di natura, quindi, abbiamo sempre in mente la natura “riorganizzata” dall’intenzione del capitale.
Sono queste logiche che dovrebbero essere questionate.
L’ecologismo green, così di moda di questi tempi, studia la globalizzazione, l’industrializzazione, il comportamento agrario ma non ha mai analizzato come la globalizzazione, l’industrializzazione e il comportamento agrario riorganizzano la natura attraverso pratiche di sfruttamento e di predazione (il capitalismo, dice Moore, è sempre alla ricerca della natura a buon mercato)[11].
Secondo Moore (ibidem), la visione di un mondo standardizzabile, oggettivabile, astorico serve alla codificazione di un immaginario comune organizzato attorno all’idea di sviluppo. La scienza e la tecnica definiscono gli standard, competenze, protocolli, parametri, algoritmi, calcoli ai quali bisogna attenersi per sviluppare il sistema (cibo finto, biotecnologie volte al contenimento della popolazione, eugenetica applicata alla filiera agricola, zoologica, addirittura umana).
Attraverso la tecnica, la matematica e la statistica, la complessità del reale collassa in una versione semplificata del mondo, solo idealmente prevedibile e apparentemente gestibile, controllabile e sostenibile.
È prioritario, secondo tutti gli Autori citati, rileggere il concetto di sostenibilità all’interno di queste relazioni di potere e avviare una riflessione su come l’agency economica e politica dipinga e costruisca un immaginario che vuole nascondere la propria intenzione (Moore, 2017).
Della stessa opinione è Naomi Klein (2008) che, parlando di capitalismo dei disastri, ritiene lo stato di emergenza un metodo di governo per legittimare le politiche della sicurezza. Certe politiche sarebbero altrimenti inaccettabili, in quanto aumentano le disuguaglianze tra le persone[12]. L’emergenza rende la disuguaglianza un semplice e inevitabile danno collaterale. Sembra così che nella proposta emergenziale si chieda ad alcuni di sostenere il sistema a beneficio di altri.
Parlare di emergenza climatica permette di legittimare una transizione green inserendola all’interno di un registro logico che rimanda all’ineluttabilità: nessuno dotato di intelligenza, di responsabilità e solidarietà potrebbe mettere in dubbio questo assunto così Vero!?
Ma a quale natura stiamo pensando quando parliamo di emergenza climatica? E quale tipologia di uomo abita, in questo tempo, questa natura?
L’ambiente, si dice, va tutelato in tutti i modi e con tutti gli sforzi possibili. Si delinea, a mio avviso, una particolare forma di “ecologia della mente”[13]: è l’ambiente umano, modificato dal capitalismo e dall’organizzazione sociale a esso funzionale, a dover essere salvaguardato.
Molto diverso, ad esempio, sarebbe un approccio capace di valorizzare un rapporto archetipico con la natura. Un rapporto che potrebbe restituire un’idea diversa di cura ambientale.
Lo sviluppo è, più propriamente, sviluppo dei processi del capitale, della globalizzazione, del progresso scientifico e tecnologico. L’ecosostenibilità a cui si fa riferimento ha come obiettivo lo sviluppo di nuove risorse da sfruttare, e il contemporaneo contenimento dell’impatto che l’intero sistema produttivo ha sull’ambiente, sulla gestione delle città, sull’organizzazione del lavoro. Le soluzioni proposte, infatti, di ecologico hanno ben poco.
Del resto, a cosa ci serve il 5G o l’ultimo modello dell’IPhone? I critici del 5G, ridicolizzati dentro la retorica no-vax, ponevano delle domande non da poco rispetto all’impatto ambientale di questa nuova tecnologia.
Potremmo continuare con gli esempi ma la questione rimane: lo sviluppo è sostenibile se i comportamenti virtuosi e responsabili delle persone consentono di sostenere un progresso economico, scientifico e tecnologico sempre più tech e sempre più performante.
Sostenibilità ed emergenza poi, come ci ricorda Naomi Klein (2008), sono due facce della stessa medaglia.
Cosa fare allora?
In molti iniziano a proporre soluzioni locali e di prossimità.
Le soluzioni non possono essere ricercate dal sistema globalizzato, all’interno di Commissioni, Summit, Forum, ma dovrebbero essere partecipate dal basso, sviluppate da coloro che vivono, sentono e pensano un determinato problema.
Così diverrebbe possibile pensare pratiche che valorizzano la differenza prima ancora dell’universalità; pratiche rivolte a un pensiero locale, soluzioni pensate dall’uomo e a misura dell’uomo, in grado di restituire alle persone e alle comunità la capacità di risolvere i problemi che le riguardano.
Qui stiamo parlando non solo di problemi materiali, ma in primo luogo umani.
Secondo Bollas (2018), ad esempio, il riconoscimento che la scienza possiede nell’epoca attuale è collegato alla sua capacità di sostenere l’illusione di potere “controllare” tutto. L’illusione permetterebbe di contenere, per quanto provvisoriamente, il senso di impotenza e l’angoscia di chi si sente di vivere sull’orlo di una catastrofe (personale, sociale, collettiva, mondiale).
Di Fasano (2011) ipotizza che alcune teorie scientifiche si possano addirittura prestare per essere usate come derive del “pensiero magico”, cioè come forme di pensiero che cercano di dare onnipotentemente una soluzione ai problemi che affliggono l’essere umano.
Il sapere tradizionale, vernacolare, è molto diverso da quello scientifico, e da sempre ha svolto un ruolo importante nell’elaborazione delle soluzioni locali (materiali ed esistenziali). Esso custodisce con cura una sapienza sulla vita e sulla morte, sui problemi che affliggono l’uomo, sulla natura, sull’invisibile ed è capace di offrire un immaginario collettivo di senso molto potente. Quel sapere oggi è stato smantellato e, come vedremo, ridotto a folklore.
La tecnica, la scienza, la medicina sembrerebbero andare a occupare proprio quel posto rimasto vacante. Offrendosi come universale, la scienza/tecnica riconosce poco valore al locale. Il modello di sviluppo globale, economico, equo ed ecologico intende proporsi ugualmente valido per tutti, in tutte le parti del pianeta e a prescindere dalle tradizioni autoctone.
Esso valorizza sì le tradizioni, ma dentro un’ambivalenza di fondo: queste da un lato sono ricercate per la loro valenza folkloristica, mentre dall’altro, proprio in quanto folklore, vengono depotenziate nella loro valenza antropologica. Secondo il sistema di valori globalista, il folklore non ha nulla da insegnarci anzi, se preso sul serio, rischia di favorire lo sviluppo di modelli culturali retrogradi, irrazionali e “magici”.
Il modello globale purtroppo tende a far fuori i localismi e quelle culture tradizionali che molto probabilmente avrebbero molto da insegnarci; ma soprattutto tende a far fuori quelle risorse particolari e personali che non sono previste dal modello omologato e omologante. Sarebbe auspicabile, a mio avviso, restituire alle comunità locali la capacità di affrontare e decidere il proprio destino, come da sempre è accaduto nella storia dell’umano.
Non voglio certo affermare che l’inquinamento, ad esempio, non sia un problema: tutti vogliamo i mari e le spiagge pulite e libere dalla plastica, aria fresca da respirare, boschi non distrutti dall’indifferenza umana, una “soluzione” al cambiamento climatico. Non si tratta di negarne l’importanza, ma di chiederci se sia il caso di agire per il tramite di un modello globale e algoritmizzato. Il rischio del modello unico è non riuscire più a immaginare alternative possibili, e censurare chiunque provi a sviluppare idee e processi alternativi.
Possiamo prenderci cura dell’ambiente tramite un pensiero diverso da quello di sviluppo?
La verità è che siamo talmente abituati a pensare questo come l’unico modello possibile da non riuscire a elaborare strategie diverse, rispettose dell’uomo quanto della natura.
2. Sostenibilità, comportamenti virtuosi e Psicologia Etica
Abbiamo già visto come, secondo il modello capitalistico globalista, l’umanità (quella senza differenza di genere, provenienza geografica, credo religioso) debba rimanere insieme, compatta, responsabile, matura, e capace di mettere al primo posto il bene di tutti. Gli effetti di questo modello sono una sempre maggiore pressione verso il conformismo, l’omologazione e la normalità intesa come valore verso cui tendere[14].
L’uomo educato[15] dallo sviluppo sostenibile è un uomo rispettoso dell’Altro, delle norme civiche, capace di autodisciplina e rigore. Tutte queste caratteristiche risultano indispensabili per sviluppare nella persona l’auto-orientamentoverso il Bene Comune.
A rendersi garante di questo passaggio, uno Stato[16] e un apparato pubblico che si intestano il compito di una legiferazione volta a educare i cittadini a comportarsi correttamente.
Ricordiamo tutti le affermazioni di chi, all’indomani dell’introduzione dell’obbligo delle mascherine all’aperto, ne sosteneva l’importanza solo in termini educativi. Oggi, invece, è il nuovo Presidente del Consiglio Meloni che fa dell’ergastolo ostativo uno strumento educativo.
Diversi sono coloro che in questo ravvedono una vocazione etica dello Stato[17], che si pone nella posizione di stabilire il confine tra ciò che è bene e ciò che è male, assimilando l’etica a una legge e al suo rispetto (Nerozzi, 2010). Sembrerebbe il trionfo di un certo tipo di pensiero legalitario, quando non legalista, che trova nel rispetto della legge il proprio stesso orientamento etico.
Etica e legge, in questo scenario, stringono una strana alleanza, e si propongono di “formare” l’uomo del futuro.
Inoltre, in virtù del proprio mandato etico, lo Stato può teoricamente legiferare su tutto, penetrando nella vita e nei corpi delle persone libere. È compito dello Stato Etico perfino stabilire la definizione di famiglia o di salute o, in maniera più sorprendente, di amore.
Nello Stato Etico postmoderno tutte le azioni individuali hanno valore soltanto se sono orientate alla vita e alla salvaguardia della collettività (rappresentata dallo Stato e dalle sue leggi). Poco importa se riguardano i vaccini o la guerra. In nome della buona scusa morale è possibile persuadere le persone a mettere in atto qualsiasi comportamento.
I governi, tanto di destra quanto di sinistra, stanno vietando per legge raggruppamenti di persone non autorizzate, ora per prevenire un contagio, ora per prevenire comportamenti rischiosi. Il problema, quindi, non è che si proibisca alle persone il diritto di incontrarsi, ma a chi vanno vietati gli “assembramenti” e a quale scopo. Se troviamo un motivo morale, allora è accettabile. Lo Stato ha il dovere di normare i comportamenti, poi nell’arena di qualche talk show possiamo liberamente discutere su quale sia il comportamento virtuoso.
L’etica non fonda più l’attività umana dentro una logica interpersonale, ma si astrae per farsi legge. Lo Stato e tutti i suoi organi di trasmissione si intestano un ruolo di potere dal quale definire il comportamento, il pensiero, lo stile di vita cui bisogna aderire.
Accade così che l’individuo non sia più portatore di diritti inalienabili (la propria indissolubile sacralità) ma solo di doveri collettivi.
È chiaro che la differenza non è “pensabile” in una simile organizzazione sociale. La differenza, infatti, parla del fatto che io e l’Altro siamo portatori di una diversità strutturale che costringe a fare i conti con degli istituiti interni non sempre conciliabili.
Il pensare la differenza è un problema.
Ma di quali difficoltà dovrebbe farsi carico una comunità che non riesce a “pensare la differenza”? Ha ancora senso parlare di differenza?
Il mondo contemporaneo sembra avversare tutto ciò che di individuale può essere espresso[18]: ciò che proviene dal singolo, soprattutto se in contrasto con il sentire collettivo, è sinonimo di egoismo. Questo, come qualsiasi altro comportamento riprovevole, va messo alla gogna[19]. Secondo Hopper (2021), spesso l’avversione per la prima persona singolare si accompagna a un funzionamento gruppale caratterizzato da indifferenziazione, massificazione e adesività.
Tornando alla sostenibilità, essa è diventata l’organizzatore culturale per tutti gli altri valori dell’uomo contemporaneo (lo vedremo meglio nel prossimo paragrafo).
Sostenibilità ambientale, sostenibilità economica e sostenibilità sociale: tutte insieme fanno lo sviluppo sostenibile.
L’etica comune è la sostenibilità del sistema, in primis quello sociale: le regole sono “buone” in quanto sostengono, appunto, l’intero sistema sociale, ambientale, economico e politico, sia nazionale che globale.
L’Agenda 2030[20] impegna tutti gli stati europei a intraprendere azioni sostenibili e predetermina i valori di riferimento che devono essere comuni a tutti (pena multe per gli Stati inadempienti). I sofisticati sistemi di certificazione hanno un enorme valore in questo senso. Senza un certificato di sostenibilità (pensiamo alle aziende che devono corrispondere ad alcuni standard equosolidali) non è possibile accedere all’utilizzo delle risorse “comuni”. Ogni certificazione viene rilasciata solo a condizione che vengano rispettati standard, criteri e protocolli. Quanti di noi sanno che per accedere alla candidatura agli Oscar, i registi devono rispettare almeno due dei quattro criteri di inclusività[21] previsti dall’Academy?
Così, chi non rispetta gli indirizzi etico/legali previsti dalla normativa può essere multato, sanzionato o escluso dall’accesso ad alcune pratiche e contesti[22].
A nulla vale se una persona non ha i soldi per passare all’auto elettrica, se ha comprato il televisore l’anno precedente l’entrata in vigore del nuovo sistema di trasmissione del segnale, se un anziano fa fatica a usare il digitale, o se la legge tradisce ideali securitari: la persona che non si adegua è un “immorale” ed è giusto che sia punito, “educato”.
Cercare di mettere fuori legge il “Male” sembra essere l’obiettivo finale dello stato etico. In questo senso la scienza, la medicina e l’educazione svolgono un ruolo centrale, in quanto istituti che si ergono a tutela del processo formativo dell’Uomo nell’era della sostenibilità.
Tale paradigma non è nuovo, ne troviamo i primi vagiti nel carteggio tra Einstein e Freud del 1932: poco prima della seconda guerra mondiale i due si scambiarono opinioni e provarono a comprendere perché le persone e gli Stati si facessero la guerra. Entrambi convenivano sulla necessità di istituire un organismo mondiale sovranazionale capace di orientare l’uomo verso un sano sviluppo psichico, e tale da arginare definitivamente le derive catastrofiche dell’aggressività e dell’istinto di morte.
Il processo di civilizzazione (oggi sempre più in mano ai tecnici), che segnala mete socialmente utili e buone, è indispensabile per l’attuazione di questo progetto riformatore. Le grandi rivoluzioni culturali del ’68, infine, sulla scia di questo stesso progetto, aprirono la strada a una cultura affettiva caratterizzata dal dialogo, dall’amore, dall’educazione, dal confronto pacifico e dall’ascolto attivo. Questa cultura si è andata affermando all’interno di un sistema educativo volto a forgiare “una bella persona” (Pietropolli Charmet, 2000).
Si diffuse velocemente l’interesse istituzionale per la gestione dei percorsi di sviluppo di “belle persone”, si svilupparono i primi programmi di educazione affettiva, alla pace, alla diversità, civica. Questi avevano l’obiettivo di sviluppare un orientamento personale verso emozioni positive, propositi sociali benevoli e comportamenti virtuosi. Si è insegnato a stare dentro i conflitti sani non strumentali, prediligendo pratiche pacifiche.
Il tentativo di neutralizzare la parte litigiosa, quella impossibilitata a scendere a compromessi, di negare l’ostilità in quanto processo da attraversare ha portato allo sviluppo di persone che non sanno litigare, che anzi hanno paura della propria rabbia, della propria parte “violenta”, schiacciate da sentimenti di invidia.
Le persone, in altre parole, non sanno più identificare e mentalizzare quei sentimenti che sono stati culturalmente appellati come negativi[23]. E non basta renderli illegali o indicare l’adesione a standard certificabili, come vuole lo Stato Etico, per risolvere il problema.
I dispositivi di produzione dell’umano, oggi, formano soggettività orientate a un vuoto pacifismo, a banali ideologie fondate sull’amore, sul rispetto e sulla solidarietà, su un ecologismo globalizzato sprezzante delle tradizioni.
È così che si vuole perseguire un mondo sostenibile, senza guerre, senza discriminazioni, senza violenza? Né la violenza sociale è sparita, né la guerra è stata eliminata. Anzi, forse siamo la società che più di tutte sfiora realmente il rischio dell’utilizzo della bomba atomica dopo Hiroshima e Nagasaki. Persino la guerra, a ben vedere, potrebbe essere sostenibile!
Negare la presenza di una nostra parte “insana” significa non poterla più guardare, e non capire come essa agisca dentro di noi. Come ci ricorda Pigozzi (2018), gli infanticidi si sviluppano spesso attorno all’idea di un materno totalmente buono, sempre pronto e amorevole (che nega la presenza anche dell’odio all’interno del legame); un materno che schiaccia le madri dentro stati dissociativi. Queste madri, non potendo integrare la propria parte “insana”, possono solo agirla.
La rabbia stessa, per alcuni Autori (Costa, Tonini, Fersurella, 1995), è alla base della capacità di stare da solo, a sostegno dei processi di individuazione e differenziazione.
Eliminare il “male” dalla vita priva il funzionamento psichico di una parte importante della mente. L’illusione di purificare la natura umana rischia di disabilitarci nel rapporto con l’aspetto tragico dell’esistenza (Illich, 1977). “L’odierna società sembra essere divenuta incapace di accettare la propria parte maledetta, il Perturbante, e tenta drammaticamente di esorcizzarla tramite politiche che, implicitamente, si pongono l’obiettivo di isolare l’elemento che perturba e che mette in crisi” il sistema collettivo di tenuta (Campo, 2007).
Oggi la professione psicologica si è intestata una visione etica della “cura”, tanto che potremmo parlare di Psicologia Etica (in analogia allo Stato Etico). Pensiamo al proliferare di programmi di educazione alla pace, alla sessualità, alla corretta alimentazione, o di sensibilizzazione allo sport, sempre più interessati a “formare” fin dai suoi primi vagiti, un modello di umanità consapevole, responsabile, salutista, amante della diversità, non “egoista”, flessibile e adattabile, capace di derogare ai propri bisogni e interessi personali in favore dell’interesse sociale.
Così recita il documento programmatico dell’attuale consiliatura del CNOP (2020): “le scienze psicologiche mostrano come i nostri comportamenti, le nostre azioni, le relazioni che abbiamo con le persone con cui siamo legate e con gli altri dipendono in buona parte dai nostri valori” (pag. 9).
I valori, in altre parole, fondano lo sviluppo armonico di una persona e sono alla base di un buon funzionamento mentale: quest’ultimo, vedremo più avanti, permette di rivolgersi al bene, alla pace, alla cooperazione e alla solidarietà globale. Sembra essere tornato in auge il mito secondo cui è la mancanza di moralità[24] a generare la patologia.
Potremmo quasi affermare che la psicologia, sempre meno interessata a una analisi etica (questa sì!) dei rapporti di potere, rischia di sposare una visione etica della cura.
Tutto l’architrave delle leggi che regolamentano la professione possono essere viste all’interno di un percorso istituzionale più ampio che ha reso gli Ordini semplici interpreti di una funzione politico-sanitaria di carattere etico/morale. Gli Ordini sono esecutori di impianti normativi che poco hanno a che fare con il reale benessere dei cittadini.
La stessa legge 3/18 trasforma gli Organi di rappresentanza istituzionale (e di conseguenza i professionisti ivi iscritti) in enti subordinati allo Stato e alle politiche governative, sempre meno autonomi e indipendenti nella formulazione di una propria visione dell’umano e della “cura”.
Quanto spazio di autonomia può rimanere a un professionista quando il “bene del paziente” è stabilito fuori dalla relazione con il paziente? quando la presenza dello Stato all’interno dei percorsi di “cura” è così invadente?
Allo psicologo potrebbe rimanere un’autonomia da giocarsi all’interno dei perimetri tracciati di volta in volta dall’economia, dalla politica, dall’ecologia.
Curtotti (2022), in un recente articolo dal titolo “Lo Psicologo di stato”, avanza l’ipotesi di “una nuova figura di Psicologo da calare nel contesto sociale come valore non solo aggiunto ma, a quanto pare, fondante nella logica di un nuovo assetto globale della Sanità pubblica”.
La nuova figura dello psicologo rischia di essere al servizio di un sistema che definisce a priori la figura di uomo da “formare”.
Le professioni sanitarie, uniche ormai a gestire il Sistema Salute, pongono le proprie formulazioni sotto forma di norme in tutti gli ambiti della vita: dall’alimentazione, all’igiene, alla sessualità, alla procreazione, al fine vita. La salute, e non più la malattia, è diventata l’ambito di intervento del professionista.
La salute mentale, dentro un tale sistema normativo e legislativo, rischia di diventare un problema di ordine pubblico e l’etica, non più fondativa di una prassi, diventa Valore[25].
3. Dallo sviluppo sostenibile allo sviluppo psicologico sostenibile
Qualche anno fa partecipai a un gruppo di lavoro che aveva l’obiettivo di riflettere sul significato della contemporaneità e sugli echi nel mondo interno. Ciò che mi colpiva era il ritorno sistematico di una domanda che potrei riformulare in questo modo: “dobbiamo costruire nuove mappe interpretative per comprendere i fenomeni attuali, oppure dobbiamo soltanto aggiornare le vecchie mappe?”. Una domanda alla quale non è possibile dare una risposta, ma che è importante perché permette di mantenere uno sguardo aperto su ciò che guida la nostra pratica.
Sono passati pochi anni e già le Istituzioni che ci rappresentano come professionisti sembrerebbero aver trovato una risposta: la psicologia si deve dotare di mappe aggiornate, che tengano conto degli attuali cambiamenti politici, economici e sociali, e che siano capaci di rispondere adeguatamente alle sfide del tempo!
Ma quali sono le sfide del tempo? Siamo ancora interessati a capire come ognuno di noi si colloca in relazione a queste sfide prima di accettarle?
È proprio il Presidente del CNOP a evidenziare l’importante fase di transizione che la professione sta vivendo a fronte dei grandi cambiamenti sociali. A tal fine, segnala la necessità di dotarsi di validi protocolli di lavoro volti a sostenere le persone nei loro processi di adattamento e resilienza[26].
Lazzari (2022), durante un convegno dal titolo “Deontologia e valori per la Comunità professionale psicologica”, ha introdotto l’espressione “sviluppo psicologico sostenibile” quale obiettivo prioritario del professionista psicologo.
Secondo Lazzari, i grandi cambiamenti radicali che attraversano la nostra società non possono essere gestiti e compresi dai cittadini “nel loro valore intrinseco”, senza un valido sostegno psicologico, senza cioè “un sostegno che ci aiuti a cambiare e comprendere i cambiamenti”.
Per il Presidente del CNOP, gli psicologi devono dare un loro contributo allo sviluppo sostenibile, in linea con gli obiettivi e i valori espressi nell’agenda 2030 e nel PNRR. Devono altresì definire le linee guida “per la costruzione di una società post moderna e post pandemica”[27].
In questa chiave, il benessere psicologico e la salute individuale vengono descritti come “capacità dell’individuo di costruire equilibri adattivi in un contesto relazionale”, e divengono elementi chiave per la valutazione delle performance[28] di un Paese rispetto alle proprie politiche.
Dovremmo guardare più attentamente nelle pieghe di questo discorso, in quanto dichiarare che la salute psicologica diventa un elemento di valutazione delle politiche di un Paese significa fare entrare la psicologia in un ruolo inedito. Da quando ne ho memoria, nessuno psicologo ha posto la soddisfazione e l’adattamento alle politiche governative a fondamento del proprio lavoro (almeno in maniera esplicita), tanto meno ha rinunciato a mantenere uno sguardo terzo sulle cose.
Il nostro Ordine Nazionale si impegna a sviluppare una Salute sostenibile, intendendo per sostenibilità ciò che definisce il valore di un’azione, mentre la psicologia, interprete di questo mandato valoriale a livello sociale, se ne fa interprete e garante.
La sostenibilità così diventa al contempo valore e obiettivo del lavoro del professionista.
La psicologia si intesta gli obiettivi di una sostenibilità per legge [29] la cui eticità è tutta da “verificare”.
Nessun confronto su questo tema è mai avvenuto. Anzi sembra esservi stato un percorso, ben gestito dall’alto, che non ha lasciato spazio a dubbi e perplessità sulla validità epistemologica del concetto di sostenibilità applicata all’umano. Nè è stato lasciato spazio per riflettere sulle implicazioni professionali derivanti dall’accettazione della sostenibilità come valore e obiettivo del nostro lavoro.
Ancora, nel documento programmatico dell’attuale CNOP (2000) troviamo che il “nostro modello sociale ha bisogno di ripensare la centralità dei bisogni per la vita umana” (pag. 3). Una frase per certi versi condivisibile, ma che tradisce una possibile stortura di fondo: in questa prospettiva i cittadini – che vivono in un determinato spazio sociale – non possono negoziare, modificare o ripensare un modello di comunità più a misura dei propri bisogni relazionali, spirituali, trascendenti; al contrario, per potere essere sostenibile, è l’organizzazione sociale – eterna e immutabile – che deve rimettere al centro i bisogni delle persone (stabiliti da chi?).
In tal modo comprendiamo meglio cosa si intende quando si afferma che i cambiamenti sociali e le sfide per il futuro non possono essere comprese senza un adeguato sostegno psicologico.
La società sostenibile (in equilibrio per un tempo indefinito) ha bisogno che tutti si muovano verso l’adesione ad alcuni comportamenti e stili di vita; in tutti coloro che mettono in atto comportamenti difformi, il “nuovo” psicologo vede la presenza di resistenze che, grazie al suo tempestivo intervento, possono essere sciolte.
Così la psicologia rischia di avere un mandato “politico” su chinon comprende l’ineluttabilità di alcune scelte: chi rema in direzione contraria, chi sta male al lavoro, chi sta scomodo nel vivere dentro percorsi normativi stabilmente definiti da altri.
Per arrivare a chi, proprio a causa di alcune narrative, sviluppa forme di disagio immediatamente “diagnosticate” e “curate”. Pensiamo, ad esempio, alla recente comparsa del termine “eco-ansia” per definire le emozioni negative – preoccupazione, senso di colpa e disperazione – legate al cambiamento climatico. L’American Psychological Association (APA) riconosce l’eco-ansia come una “paura cronica del destino ambientale”. Secondo Papa (2022), in linea con le più recenti formulazioni sul tema, è necessario che le persone comprendano il senso del cambiamento climatico. Solo così possono acquisire gli strumenti utili “per far fronte alle emozioni che accompagnano questa conoscenza” (ibidem). Grazie al tempestivo intervento del “nuovo” psicologo è possibile contrastare quei sentimenti di disperazione e negazione (negazionismo?) che non permettono di assumere comportamenti responsabili.
E così il “nuovo” psicologo si impegna a sostenere le politiche globali, sviluppando programmi di intervento che possono aiutare le persone ad attraversare i cambiamenti, a comprenderli e ad assumersene la responsabilità, personalmente e collettivamente.
Ancora una volta l’interesse del singolo e della società, intesa come organizzazione sociale, devono coincidere.
La centratura sulle capacità adattive in relazione alla salute mentale è fondamentale in questa nuova mission: il benessere psicologico è associato a un buon funzionamento mentale individuale, e quest’ultimo, e solo quest’ultimo, permette di mettere in atto comportamenti virtuosi.
Un esempio recente è stato l’accento sulla sanità mentale del cittadino che andava a vaccinarsi: una persona con un buon funzionamento mentale è capace di mettere da parte i propri interessi personali se non coincidono con quelli collettivi[30].
Il funzionamento mentale è un Valore, di quelli con la maiuscola, ed è grazie allo sviluppo di una mentalità sana e integra che si può vivere dentro la società; un uomo “sano” può accettare, senza troppe remore, il ruolo civilizzatore della società e la Psicologia può aiutare le persone a sviluppare quel controllo cognitivo necessario ad accedere al contratto sociale.
In questo tipo di ragionamento vi è una grande insidia che dovremmo tutti tenere a mente: lavorare per l’adattamento alle politiche sostenibili, progressiste e globaliste di uno Stato implica che la psicologia e tutta la sanità diventino il perno sulle quali esse si sostengono. Tale cornice rischia di trascurare una pratica professionale capace di mettersi al fianco della persona in difficoltà e aiutarla a trovare le proprie strategie soggettivamente credibili.
Nel nostro “documento di Interlocuzione all’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia” ci siamo chiesti quanto “gli psicologi oggi sono al servizio di un adattamento umano all’ambiente culturale (anche se nessuno può mai essere definitivamente e perfettamente adattato) o al contrario incentivano specifici percorsi di soggettivizzazione, individuali e gruppali? In quanto psicologi professionisti, siamo consapevoli di essere figli di questo tempo, anche noi assoggettati a vincoli di potere (di cui dovremmo essere il più possibile consapevoli) che ci abitano e che agiamo?” (pag. 1).
Come ripensiamo il nostro essere iscritti nelle matrici socio-culturali del nostro tempo? Quanto ci stiamo attrezzando per imparare a muoverci tra il fare parte del sistema (essere figli del tempo) e lo stare fuori (capire quale parte stiamo giocando)? Quanto anche noi rischiamo di diventare sistema e parlare lo stesso linguaggio di ciò che fa ammalare?
Io questo rischio lo sento.
Credo che sarebbe utile avviare una riflessione su tutte queste tematiche: parlare tanto e parlarne tanto, non darle per scontate. Il sapere non può mai sottrarsi, a mio avviso, dall’interrogare se stesso. Il rischio è di diventare l’ennesimo replicante dei discorsi del potere. Un approccio etico/scientifico, al contrario, riporterebbe il dubbio e la domanda dentro il processo conoscitivo.
Le persone che incontro nel mio lavoro soffrono spesso di oppressione. Certo, posso provare la strada della resilienza per aiutarle. Oppure potrei andare alla radice di questa sensazione e aiutare la persona a ritrovarsi come Soggetto della propria vita. All’ascolto analitico, l’oppressione si presenta nella forma di un Sé adattato senza guizzo, in balìa degli eventi, schiacciato dalla sensazione di non avere presa sulla propria vita. Gli eventi accadono senza che la persona senta di potere avere effetto su di loro. Nel già citato documento di Interlocuzione all’Ordine abbiamo visto come le attuali forme di mal’essere siano specifiche della “società degli individui”[31].
Bollas (2018) ipotizza l’oppressione come nuova forma dell’essere: “il ritiro nelle terre mentalmente spoglie dell’universo normopatico isola il Sé dall’attribuzione di un significato al vissuto. (…) I momenti di intensità psichica non sono (…) registrati dal Sé che, essendo difeso rispetto alla possibilità di accoglierli, non è in grado di trasformarli in vertici di significato” (pp. 135-136). La persona assiste a uno scorrere degli eventi senza che questi possano entrare pienamente nel proprio campo della coscienza. La mancata “esperienza” del mondo impoverisce la funzione simbolopoietica della mente. Dal mio punto di vista, in accordo con Bollas, lo sforzo nella “cura” avrebbe anche a che fare con la possibilità di risvegliare un interesse nella persona a poter essere Soggetto.
Personalmente ritengo fondamentale un lavoro volto a sostenere il processo di individuazione (Jung, 1935) o di soggettivizzazione (Napolitani, 1986), ovvero un lavoro a sostegno di una riappropriazione personale di quanto “appreso” dal mondo, rielaborato e valutato a seconda della propria storia, dei propri valori e della propria propensione a “essere”.
Come non ricordare l’importante insegnamento di Napolitani (ibidem) sulle “parti non nate” e sull’importanza di un ascolto attivo per riconnettere l’individuo a una parte di sé negata.
Un approccio molto distante da quello della psicologia e della psicoterapia al servizio dell’adattamento e della resilienza[32].
Nell’imperativo Etico del Bene Comune l’individuo, con i suoi valori e i suoi bisogni, è scomparso. L’uomo contemporaneo fa fatica a formulare per sé un proprio sapere “situato” nel proprio corpo, nella propria storia, nella propria visione del mondo e del futuro.
Ecco cosa rischia di diventare la resilienza: adattarsi a città invivibili, a lockdown forzati, a burocrazie estenuanti, allo smart working, all’alimentazione con cibi chimici prodotti dentro laboratori, o con farina di insetti. Cosa accade quando la definizione di Salute è stabilita in uno spazio diverso da quello individuale e comunitario? Quale spazio rimane per il consenso informato?
Conclusioni
La radicale desimbolizzazione di ogni aspetto della vita porta alla presenza di oggetti che non rimandano a nulla se non a se stessi. La medicalizzazione del vivente, a pensarci bene, non è altro che questo: ridurre il senso della vita a qualcosa che rimanda solo a se stessa (la preoccupazione di stare bene al lavoro, in famiglia, mangiare bene, fare le visite di controllo, fare sport, occuparsi dei rifiuti).
Ma come ci ricorda Fachinelli (1979), abbiamo anche bisogno di andare alla ricerca di un senso altro della vita. Lo psicoanalista racconta di un episodio il cui protagonista è un bambino.
Pochi giorni fa, in un piccolo gruppo, una psicoanalista raccontò qualcosa che era successo tempo prima ad uno dei suoi figli. Il bambino, giunto all’età classica per queste domande, un giorno le chiese: ‘da dove vengono i bambini?’. La madre rispose ‘scientificamente’, spiegandogli che i bambini nascono dal rapporto con i genitori etc. Qualche tempo dopo, il bambino si trovò a parlare dello stesso argomento con altri bambini, i quali viceversa sostenevano la tesi della cicogna. (…) Il bambino rinnegò e criticò la tesi ‘scientifica’ dei genitori e passò (o forse meglio ritornò) decisamente alla tesi fiabesca dei compagni. (…). C’è pure una intrinseca debolezza o insufficienza della verità dei genitori sul sesso. Che cosa significa la domanda ‘da dove vengono i bambini?’ (…) la domanda va molto più in là: chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? Alle domande sulla vita sono immediatamente legate quelle sulla non esistenza e sulla morte. La domanda sulla nascita sembra dunque avere, sia pure in modo per lo più implicito, il senso di una domanda più complessa, direi metafisica. (…) Possiamo postulare una situazione in cui la risposta ‘scientifica’ dei genitori (o degli insegnanti…) risulta per il bambino del tutto insufficiente per i problemi che pone; non solo insufficiente: egli la può trovare angosciante, se gli si pone in modo diretto (pagg. 125-127).
Fachinelli ci segnala quindi un aspetto importante della mente umana: il bisogno di sfuggire alla “nuda vita” (Di Petta, 2020) delle spiegazioni scientifiche e dei protocolli.
Più recentemente Han (2016) ci ricorda come “non è possibile giocare con la nuda carne. Il gioco ha bisogno di un’apparenza, di una non-veridicità (…) L’imperativo neoliberista di prestazione, sexyness e fitness alla fine riduce il corpo a oggetto funzionale che occorre ottimizzare (…) L’espulsione dell’Altro produce un adiposo vuoto di pienezza” (pag. 15). Ogni cosa è resa mera funzione e, in questo collasso del piano simbolico, tutto può essere mercificato, persino un pezzo di corpo o di secrezione umana.
È qui che possiamo rintracciare il mito della neutralità, un mito che fa fuori sia le questioni simboliche che etiche, andando verso la costruzione di un uomo “normale”. L’essere umano “normale” riconosce la diversità, ma solo in quanto declinazione dell’Uno e del neutro come valore positivo. La diversità, al contrario del concetto di differenza[33], non minaccia quell’Uno a cui guarda il concetto di normalità; vi è una buona tolleranza dei diversi modi di interpretare e declinare un unico Modello. Più si accetta la neutralità di qualcosa, più se ne afferma l’intrinseca positività. Il neutro è un Valore al quale tutti dobbiamo tendere.
La deriva tecnico-procedurale, così come avvenuto in questi due anni, affonda le radici all’interno di quel paradigma che vuole l’utilizzo imperante di protocolli, procedure, tecnicismi stabiliti da un sapere “neutro”.
Se noi professionisti continuiamo a essere costretti a “pensare” solo dentro i vincoli di procedimenti validi per tutti – che ci dicono cosa fare, perché farlo e quando farlo – rischiamo di far fuori quel ragionamento clinico capace di sostenere la vita nei suoi risvolti creativi, simbolici e simbolo-poietici.
Siamo catturati e prigionieri dentro un mondo di procedure, di carte e di burocrazie che ci toglie tempo (anzi ci costringe a usarlo per cose inutili).
La vita è sempre più svuotata di qualsiasi riferimento trascendentale, spirituale e di senso.
Con l’illusione di poter controllare tutto, stiamo perdendo la capacità di pensare ciò che di ingovernabile e incomprensibile c’è nella vita.
La proliferazione di certe pratiche salutiste sta portando anche al progressivo smantellamento di quei dispositivi di supporto (familiare, sociale, culturale) ancora rimasti indenni.
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[1] Pensiamo alla lungimiranza dell’AGENDA 2030 quando “prevede” la sostenibilità dell’attuale sistema sociale ed economico anche per le generazioni future. Se la “preoccupazione” per le generazioni future è lodevole, non si capisce quali siano i criteri per stabilire cosa sarà sostenibile per le generazioni a venire.
[2] L’Industria della Salute, come la chiama sapientemente Sala (2019), porta ad alimentare l’idea che medici, psicologi e assistenti sociali possano riuscire a intervenire preventivamente per eliminare le patologie, la violenza o la cattiveria dal mondo. Ogni volta, davanti alle tragedie più grandi, che sia un’emergenza sanitaria o un infanticidio, si invoca una maggiore presenza dei servizi, un maggiore controllo da parte delle istituzioni quasi a volersi illudere che basti realmente questo per eliminare l’orrore, la tragedia o la morte. Purtroppo la storia ci restituisce non solo che gli orrori non si possono eliminare, ma che sono tragicamente parte della vita; i sistemi di controllo, per quanto sofisticati, non possono eliminarli. Le professioni mediche e sanitarie sono sempre più animate dalle logiche del biopotere (Foucault, 1976); quest’ultimo richiede un controllo dei corpi tramite l’impiego di pratiche di igiene, alimentari, sessuali. Gli esseri umani, di fronte alla promessa di agi, comfort, assenza di malattia e violenza, sono disposti a sottomettersi alle tecnologie di controllo, arrivando perfino a disumanizzare e a medicalizzare il senso della vita.
[3] Per Manghi (2022) il continuo interrogarsi dei professionisti della Salute sui confini tra normale e patologico (si vedano, ad esempio, le ultime riedizioni del DSM) rimanda a un orizzonte in cui parte importante del nostro vivere è patologizzato e/o sottoposto a sorveglianza medica. Il ruolo dello Stato è fondamentale in questo processo perché, come vedremo, è esso che, in nome del diritto alla Salute, se ne fa carico e garante, normando le abitudini, gli stili di vita, quando non i pensieri stessi.
[4] Il controllo medico, ricorda Illich (1977), frammenta le fasi di passaggio in una serie di episodi a rischio che hanno bisogno di tutela e vigilanza speciale. Nelle culture tradizionali, al contrario, i passaggi “evolutivi” sono ancora questioni che riguardano la comunità intera.
[6] L’Agenda 2030 rappresenta il quadro di riferimento per l’impegno nazionale e internazionale e ha come obiettivo quello di trovare delle soluzioni globali a problemi come la povertà, i cambiamenti climatici, il degrado dell’ambiente e le crisi sanitarie.
[7] Articolo 9: l’Italia “riconosce e garantisce la tutela dell’ambiente come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Promuove le condizioni per uno sviluppo sostenibile”. Articolo 41: “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute, all’ambiente”.
[8] Si pensi, ad esempio, a parte della critica femminista sulla prostituzione del corpo femminile mercificato a uso del “maschio”. O ancora, si pensi alla pratica della Gestazione per Altri che vede mercificata una parte del corpo (l’utero) e una funzione (la gestazione) a uso di coppie spesso bianche, ricche e occidentali; una pratica, quest’ultima, che assimila la gestazione al pari di qualsiasi altro lavoro, così come precedentemente era successo per la prostituzione (Danna, 2017; Corradi, 2021).
[9] Si definisce Antropocene l’attuale epoca geologica in cui l’azione umana modifica, su scala locale e globale, l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche (Crutzen, 2002).
[10] Ogni qualvolta che il capitalismo si appropria della natura, questa viene sottratta all’uomo e trasformata in “prodotto”; da quel momento in poi l’uomo vede mediato il suo rapporto con il prodotto attraverso leggi, regole, funzioni. Un esempio: la legna, trasformata in “prodotto di consumo”, è rivenduta all’uomo tramite un sistema che ne regolamenta la vendita e l’uso.
[11] Un esempio di come il capitalismo riorganizzi la natura e favorisca pratiche di sfruttamento viene raccontato da Fukuyama (1994) quando rilegge la storia delle piantagioni di cotone negli Stati Uniti all’interno della storia dello sfruttamento della terra e dell’uomo. L’imposizione del cotone come grande protagonista della rivoluzione industriale è coinciso con lo sfruttamento monopolistico della terra, destinata e dedicata alle grandi coltivazioni di cotone e all’introduzione dello schiavismo per la cura delle stesse.
[12] Pensiamo ad esempio che tutte le grandi riforme sul sistema pensionistico (dettate dai mercati, dalle élite e da organismi sovranazionali) sono state introdotte da governi tecnici e a seguito di una crisi economica.
[13] L’ecologia della mente è, al giorno d’oggi, incapsulata dentro una visione di biosicurezza (interventismo terapeutico e libertà negate) appiattita all’interno di una sempre più penetrante medicalizzazione del vivente.
[14] Durante una discussione in merito alle politiche governative degli ultimi due anni e mezzo, un collega mi segnalò il mio personale bias che dovevo correggere se volevo tornare a pensare normalmente: “più dell’ottanta per cento delle persone la pensa così e io con loro: sei tu che pensi strano. E io sono felice di pensare come quell’ottanta per cento, significa che sono normale”.
[15] L’educazione è importante in questa prospettiva in quanto permette all’uomo di addomesticare i propri istinti: l’uomo educato (come vedremo dopo, anche curato) è un uomo che ha imparato a dominare il proprio egoismo, la propria malvagità e, grazie al processo di civilizzazione, a vivere in società.
[16] Lo Stato oggi ha perso la propria autonomia nazionale, è anch’esso globalizzato, attento alla cura responsabile di un bilancio economico, anche quando questo va a discapito dei cittadini.
[17] Per Hegel (1814) lo Stato è “etico” in quanto ha il compito di fondare la vita individuale su valori e principi etici “universali”; questi sono al tempo stesso rappresentazione del e orientamento versoil bene supremo.
[18] Oggi parlare a titolo personale è sinonimo di egoismo, di cecità interpersonale. Ma parlare in prima persona è, come ci ricorda Lacan (2002), un aspetto importante per la costruzione di una propria soggettività. E invece siamo ancora capaci di riconoscere il valore della prima persona plurale (il Noi) ma siamo sospettosi di qualsiasi aspetto che tradisca la presenza di un Soggetto.
[19] La compulsione a commentare qualsiasi cosa nei nostri profili facebook risponde all’esigenza, quasi “rituale”, di condannare pubblicamente un certo comportamento: chi condanna, dandone testimonianza pubblica, si fa riconoscere anche come persona dotata di un buon profilo morale. La paura di provare vergogna ed essere messo alla “gogna” pubblica diventa l’organizzatore sociale che facilita l’assunzione di buoni comportamenti, espressione di un Ideale dell’Io ipertrofico. Si veda a tal proposito anche “L’ambiguità come marker culturale” in https://www.dallastessaparte.it/interlocuzione-allordine-2/.
[20] Ecco alcuni obiettivi dell’Agenda 2030: raggiungere la sicurezza alimentare e promuovere l’agricoltura sostenibile, garantire una vita sana, raggiungere l’uguaglianza di genere, garantire l’accesso all’energia a prezzo accessibile, affidabile e sostenibile, promuovere una crescita economica duratura inclusiva e sostenibile, costruire un’infrastruttura resiliente, ridurre le disuguaglianze, rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, resilienti e sicuri, garantire modelli di consumo e produzione sostenibile, promuovere società pacifiche e inclusive orientate allo sviluppo sostenibile, adottare misure urgenti per combattere i cambiamenti climatici, conservare e utilizzare in modo sostenibile gli oceani e i mari.
[21] I criteri in questione sono: la presenza di donne, attori provenienti da etnie scarsamente rappresentate, espondenti LGBTQ+, persone con disabilità.
[22] Si veda la ferocia delle leggi etico/morali degli ultimi due anni, passate come leggi contro i cosiddetti no-vax. O ancora pensiamo alle multe che minacciano chi non mette a norma il proprio camino, o non regoli il termostato alla temperatura stabilita per legge.
[23] Parlando della rabbia come sentimento negativo, si fa in modo che venga percepita come Male.
[24] Questo mito era molto diffuso durante gli anni ’70 come euristica per spiegare la tossicodipendenza: i ragazzi che cadevano “nel tunnel della droga” mancavano di valori solidi e la “cura” coincideva con la “cura dei valori”. Alcune delle prime comunità terapeutiche (pensiamo a San Patrignano) avevano una chiara impostazione educativa e di rigenerazione del giovane attraverso l’acquisizione di valori positivi.
[25] Proprio a partire da questa considerazione, all’interno dell’associazione #dallastessaparte siamo impegnati a costruire un metodo che renda l’etica qualcosa di vivo e concreto. Rivitalizzata nella dimensione interpersonale, l’etica rimane vincolata al senso delle relazioni e dei processi che si sviluppano all’interno dei gruppi di lavoro. Una dimensione etica, la nostra, che vuole reincludere una riflessione sulle relazioni di potere e su come queste influiscano e determinino i “contenitori” che abitiamo. Una pratica corale in cui centro e margine si parlano e provano a evolvere insieme nel rispetto di ciò che si è, contenendo le spinte a volere cambiare l’Altro.
[27] I temi di interesse – oltre a quelli dell’infanzia e dell’adolescenza, della parità di genere e la riduzione delle diseguaglianze e delle discriminazioni – sono le nuove forme di lavoro work life balance e il rapporto tra sostenibilità ambientale, spazi urbani e benessere psicologico. Un esempio può aiutarci a focalizzare ciò di cui sto parlando: la Psicologia si vuole porre come interlocutore indispensabile nella progettazione degli spazi urbani. Bene, chi stabilisce che l’urbanizzazione sia l’insediamento umano da garantire in termini di benessere e qualità della vita? E anche una volta definito ciò, chi definisce l’abitabilità stessa degli spazi urbani? lo Stato? l’economia? la politica? e in base a quali standard? O, al contrario, non sarebbe più importante e prioritario ridare potere alle persone per ridefinire quale insediamento possa essere utile per una qualità della vita “buona”? O, ancora, pensiamo alla “banale” cartella dei nostri bambini. Gli esperti hanno valutato che la schiena dei bambini può sopportare il 10-15% rispetto al loro peso totale. Ma è davvero necessaria una buona educazione alla salute che insegni ai nostri bambini a portare un tal carico sulla propria schiena senza comprometterne in futuro la funzionalità? Pensare una gestione diversa dei compiti e dei libri da portare a scuola è fuori discussione.
[28] La sostenibilità diventa sinonimo di stabilità globale e di benessere sociale.
[29] Diventare Enti Sussidiari dello Stato significa sostenere le politiche governative, e farle rispettare e comprendere.
[30] Nel “Position Statement sui comportamenti antiscientifici e/o contrari all’obbligo vaccinale dei Professionisti Sanitari e sociosanitari rispetto alla pandemia da SARS-CoV-2 atto a chiarire il tema delle violazioni deontologiche da parte degli iscritti e configurate da comportamenti manifestamente antiscientifici, rispetto alla pandemia da SARS-CoV-2 ed al ruolo dei vaccini antivirali, quale patrimonio culturale e valoriale condiviso”, la vaccinazione è definita valore e bene comune. A partire da questa unica premessa discende un impianto tecnico-procedurale che ha portato alla condanna deontologica dei professionisti non vaccinati. Nel documento, il consenso informato assume una veste inedita. Gli Ordini, in particolare quello degli Psicologi, hanno invitato i professionisti a sensibilizzare i soggetti non vaccinati: l’obiettivo era vincere le resistenze alla vaccinazione. Tutto questo, lo ricordiamo, è avvenuto senza mai avviare o permettere una riflessione collettiva volta a comprendere il senso e le conseguenze di certe politiche securitarie. La vaccinazione, assunta a valore, è diventata espressione di un comportamento virtuoso per la salvaguardia della propria salute e del Bene Collettivo (poco importa se in molti avessero un’idea diversa). Così il legittimo rifiuto alla vaccinazione, ovvero il rifiuto ad apporre la propria firma sul consenso informato, è diventato “esitazione vaccinale” che doveva essere trattata dagli psicologi. Chi non dava il proprio consenso doveva essere aiutato a superare i blocchi del tutto irrazionali, chi non accettava la somministrazione del vaccino testimoniava la propria noncuranza nei confronti della salute pubblica e un cattivo esempio morale (come nel caso degli insegnanti reintegrati lasciati fuori dalle proprie classi). Gli psicologi, esperti di funzionamento umano, avrebbero dovuto supportare la persona a vincere le proprie resistenze personali, facilitando così il processo di accettazione delle cure – così come definite dal bene Comune. Una trama perfetta per un film distopico. Una logica molto pericolosa, che porta a domandarci a quale idea di Psicologia stiamo ammiccando.
[31] Per Elias (1990) questa può essere intesa come una società che disegna forme anonime, omologate di stare nel mondo. Questa forma di società amplifica la sensazione di sentirsi schiacciato da forze di cui non si conosce né il senso né la natura. Siamo di fronte a un’organizzazione sociale che non permette la formazione di Soggetti, ovvero di persone capaci di prendere posizioni, di parlare a titolo personale, seppur riconoscendone l’arbitrarietà.
[32] La parola resilienza, per altro, è stata centrale soprattutto durante la gestione delle politiche di contenimento della diffusione della COVID-19: i bambini, dotati naturalmente di resilienza, sarebbero riusciti ad adattarsi facilmente alla nuova normalità; gli adulti avrebbero meglio usufruito del sostegno psicologico volto a promuovere la resilienza. Come categoria professionale avremmo potuto dire di più “dalla parte dei bambini”, avremmo dovuto chiedere politiche più a misura dello sviluppo e volta alla tutela dei legami significativi: familiari, amicali. Invece l’obiettivo sanitario ha messo in secondo piano i bisogni dei nostri bambini, anzi gli abbiamo chiesto di non essere egoisti. Oggi stiamo iniziando a contare i morti e i feriti dei lockdown e dell’uso protratto delle mascherine sullo sviluppo dei bambini e degli adolescenti. E continuiamo a vederlo come l’inevitabile effetto collaterale.
[33] La differenza, al contrario della diversità, secondo Cigoli e Scabini (2013) permette di accedere all’ordine simbolico che consente di pensare l’Altro come non riducibile a se stesso.
Roberta Campo ripercorre i principali accadimenti degli ultimi anni e, con acume e competenza, ci aiuta a riflettere sulle gravi conseguenze psicosociali delle politiche di contenimento del virus.
Questo articolo rappresenta l’ulteriore sviluppo del documento presentato all’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia durante l’interlocuzione avvenuta lo scorso 21 giugno 2022.
In esso trovano spazio molti dei temi cari ai membri dell’Associazione #dallastessaparte, fra tutti evidenziamo il valore del gruppo come primo incubatore del pensiero critico sulla società.
È un commento molto profondo, cui vi invitiamo a dedicare il giusto tempo.
Buona lettura!
“Qualcosa è cambiato” in questi ultimi anni, e molti sono gli interrogativi che attraversano il mondo delle professioni, non ultimo quello della psicologia. O forse qualcosa era cambiato da tempo, e questi ultimi anni passati tra lockdown, chiusure e obblighi ci stanno solo consentendo di visualizzare con più chiarezza alcune questioni.
Non ho grandi conclusioni da mettere sul piatto, ma ho molte domande aperte sulle quali mi sono confrontata in questi anni e mi continuo a confrontare, insieme a colleghi disposti a farlo.
Ritengo che il nuovo coronavirus abbia semplicemente fatto emergere in figura tutta una serie di questioni, di assunti che ci hanno accompagnato anche durante i cosiddetti anni “prepandemici”.
L’ “emergenza pandemica” ci ha colti tutti più o meno alla sprovvista e molto si è agitato dentro di me e attorno a me: ciò che mi ha maggiormente sostenuto è stata la possibilità di pensare dentro i gruppi, anche se virtuali (spesso gli unici che in alcuni casi è stato concesso abitare per molto tempo); luoghi dove potersi confrontare, dove poter riflettere su come continuare a essere d’aiuto e di sostegno in “stato di emergenza”, su come rispondere alle angosce dei pazienti, dove poter essere di aiuto a noi stessi; luoghi, inoltre, dove poter fare ancora critica sociale. Eravamo tutti accomunati dal desiderio di metterci pensiero insieme. Il sostegno e nutrimento avuto da questi attraversamenti è stato di un valore inestimabile e probabilmente, rispetto allo sconvolgimento personale e sociale, non sarei riuscita a farci un pensiero senza un confronto vivo e attivo con i colleghi.
All’inizio del primo lockdown il mondo sembrava essersi fermato bruscamente: i canti intonati dai balconi si alternavano solo con la voce dei giornalisti che aggiornavano sui numeri delle vittime. Apparentemente null’altro sembrava accadere. Al coro intonato delle famiglie resilienti, infatti, si contrapponeva il silenzio dei bambini, l’isolamento degli anziani privati degli affetti, le morti in solitudine, i lutti negati…
Il lockdown, che in un primo momenti è stato accolto con sollievo da tanti, mostrava subito una parte francamente problematica, di cui però in pochi sembravano volersi fare carico.
Nei mesi successi, la spaccatura tra le persone si è andata allargando, e la polarizzazione dei punti di vista è diventata una costante della maggior parte dei confronti pubblici e privati: ciò che inizialmente sembrava essere un coro unico, non lo era più, e le persone divergevano tra loro non solo sulle strategie da adottare, ma anche sulle letture necessarie per affrontare la situazione.
Tutti ricorderemo le domande che hanno caratterizzato la primavera del 2020: i runner sono persone con una spiccata tendenza all’antisocialità o sono persone normali che testimoniano un diritto altro alla salute? I droni sono fondamentali per la sicurezza pubblica e privata, o al contrario sono una forma di controllo sociale? Immuni è usata solo da persone capaci di adottare un comportamento altruistico e dotate di un alto codice morale, o il comportamento morale caratterizza anche coloro che scelgono di non scaricare l’app?
Ciò che mi colpiva, in quei primi mesi, era la presenza di un sentimento apparentemente inaspettato all’interno di quella comunità che solo pochi giorni prima aveva dipinto arcobaleni sulle lenzuola: il risentimento.
Il risentimento sembrava avere preso in ostaggio il legame sociale e gli affetti: il corpo unico, solidale, capace di intonare inni rassicuranti, lasciava il posto a un corpo diviso, disarticolato, all’interno del quale ci si andava scoprendo profondamente diversi.
Scoprirci diversi ha spaventato molti, probabilmente perché la diversità è stata vista come l’ostacolo che non permetteva di aderire a comportamenti virtuosi, altruistici e compatti: sì, bisognava essere compatti! Ognuno di noi potenzialmente, con il proprio sentire e agire autonomo (non necessariamente irresponsabile) poteva mettere a repentaglio gli sforzi comuni profusi per uscire dalla “emergenza”.
Probabilmente per questo i comportamenti e i pensieri difformi provocavano risentimento: si ritenevano alcuni più responsabili di altri nel mantenimento di una condizione, in questo caso lo stato di emergenza sanitaria; nessuno si sentiva più al sicuro davanti alle strategie adottate e rappresentate dall’Altro.
Abbiamo, quindi, iniziato a scoprirci diversi: ognuno di noi, con il proprio agire, stava raccontando le proprie soluzioni per navigare o restare sospesi, dichiarava i propri valori e, perché no, le proprie ideologie.
Per la prima volta ci sembrava di parlare linguaggi diversi. Nei mesi precedenti l’inizio dell’ ”emergenza pandemica” non avevamo mai sperimentato questo tipo di inquietudine: quando si affrontavano argomenti quali la salute, i valori, i principi di riferimento di una società, il concetto di libertà si aveva, bene o male, la sensazione di avere tutti la stessa cosa in mente; cambia poco ma, insomma! la definizione di salute è quella, così come quella di bene comune o di libertà; nulla ci ha mai fatto sospettare che potevamo anche avere in mente delle cose molto diverse tra loro, nonostante l’apparente omogeneità. Credo che in quei primi mesi abbiamo perso una delle occasioni per iniziare a disambiguare le parole, e comprendere come dentro parole solo foneticamente uguali si possano nascondere significati molto diversi.
Questa inquietudine attraversava molte delle relazioni amicali, ma anche le relazioni con i colleghi. Cambiava qualche accenno più teorico a sostegno di una tesi o dell’altra, ma la sostanza rimaneva quella: non ci capivamo e, forse, ci si sentiva anche un po’ traditi nella misura in cui ci si andava scoprendo (nella relazione con sé e con l’altro) diversi da come ognuno aveva pensato di essere.
E intanto non si parlava più, si litigava. Le questioni principalmente in ballo riguardavano il che cosa si intendesse per salute, libertà, bene comune, collettività, individualismo, quasi alla ricerca di definizioni uniche, astoriche e assolute: non potendole vedere come il frutto di una negoziazione culturale durata secoli, si è negato il profondo legame tra queste “definizioni” e il sistema di valori personali e di gruppo, e con aspetti identitari più profondi.
Quello che però mi turbava era la sensazione che alcuni discorsi fossero più legittimati di altri perché dichiarati da una posizione di autorità. In ballo, però, non vi era solo il rapporto che ognuno di noi intrattiene con l’autorità, ma la stessa relazione tra autorità e verità.
La situazione ha preso una strada decisamente grottesca quando sono stati immessi sul mercato i primi “vaccini”; qualcosa è ulteriormente cambiato, i toni sono divenuti più aspri, sempre più violenti; qualcosa è cambiato, purtroppo in peggio, e probabilmente anche i diversi gruppi professionali sono stati attraversati dalle stesse scissioni che hanno attraversato lo spazio sociale più ampio.
Perché qualcuno, inspiegabilmente, si sentiva più vicino al Vero rispetto ad altri?
Forse perché l’essere personalmente risolto, razionale si è imposto, in questi ultimi anni, come una categoria del Vero. Anche nel caso dei cosiddetti vaccini si è probabilmente riproposta la questione dell’essere risolti.
L’implicito è che chi è risolto è riuscito a neutralizzare il dato soggettivo, e può quindi assolvere sufficientemente bene il principio di autorità: chi è risolto è razionale e scientifico, non è vittima di pregiudizi e superstizioni, e quindi può essere espressione del Vero.
Nell’immaginario collettivo, però, è la scienza a essere vista come quella che meglio riesce a garantire la possibilità di neutralizzare il dato soggettivo distorcente, proiettivo, scissionale… L’essere risolto, quindi, sembra divenire sinonimo di scienza: il pensiero scientifico è l’unico che garantisce lucidità, scelte sagge e legate al bene collettivo.
Come se, l’essere risolti, non avere questioni in sospeso e non avere turbamenti garantisca a priori il mantenimento di quell’atteggiamento lucido e coraggioso necessario nell’attuale società.
Così la delegittimazione di alcuni discorsi avviene in nome della scienza che è l’unica di fatto a permettere, con il suo sviluppo, sempre maggiore gradi di civiltà e di civilizzazione (pensiamo a tutta la retorica sul bene comune). Tutti coloro che parlano a nome proprio sono egoisti, creduloni, superstiziosi, comunque problematici. Ma il rapporto che ognuno ha con la verità non può essere mediato dalla scienza.
I pensieri divergenti, le voci critiche sulla gestione della pandemia e sulla deroga al principio di precauzione scientifico in tema di sperimentazione, le riflessioni sul ruolo della scienza all’interno della nostra società sono state messe fuori dallo spazio democratico (“chi non è d’accordo si accomodi fuori”) perché in contrasto con una qualsiasi forma di deontologia scientifica.
La negazione del dato soggettivo e la questione deontologica si erano già incontrate in questi anni, ma con la vicenda vaccinale esse sembrano stringere un vero e proprio sodalizio.
La pandemia o qualsiasi altra situazione emergenziale, scientificamente e tecnicamente definita, può essere gestita solo da voci esperte, autorevoli, scientifiche e quindi vere. Gli esperti, così come gli scienziati, avendo neutralizzato quella distorsione soggettiva che falsifica il pensiero, sanno cosa fare, e lo fanno bene e per il bene. In altre parole, la scienza (esatta) risolve il problema della verità.
Ma che spazio ha ancora la visione politica e sociale all’interno di una società tecnocratica? che spazio di libertà hanno ancora i cittadini nel decidere quali modalità li aiutano a vivere e pensare una determinata situazione, anche sostenendo l’arbitrio della propria posizione. Davvero questo deve essere monopolio dello Stato?
Mi è stato più volte ripetuto che “non abbiamo le competenze per capire”. Ma è davvero così? E anche se fosse, cosa ci impedisce di iniziare a costruire tali competenze per capirne di più? quando abbiamo smesso di occuparci del nostro spazio politico e sociale delegando agli esperti qualsiasi decisione su di noi?
Il prezzo di questa gestione è stato per certi versi inevitabile: le soluzioni tecnico-scientifiche non hanno per nulla aiutato le persone a non soffrire, a non avere paura, a non impazzirci, a non nutrire risentimento per il proprio caro, anzi hanno aumentato il disagio e amplificato gli spazi del malessere.
Davvero avremmo dovuto solo adattarci alla nuova normalità? Ma poi, a cosa dovevamo adattarci: al distanziamento sociale? a una nuova visione dei rapporti sociali? a una nuova visione del mondo?
Si iniziava a parlare di una nuova normalità, come se adattarsi fosse questione di tempo, ma alla fine ci saremmo abituati tutti a questa nuova modalità di stare al mondo. E forse l’accettazione non troppo problematica del green pass ci dice quanto questo modello sia entrato dentro di noi. La gestione tecnico-scientifica ha mortificato i movimenti soggettivanti di gruppi e di persone, aumentando le richieste di aiuto nei confronti dei professionisti.
Agli psicologi è stato chiesto di sostenere la campagna vaccinale, cercando di lavorare affinché i pazienti potessero maturare da solila scelta di vaccinarsi liberamente. Qualcuno davanti a questa proposta ha sussultato, qualcuno no.
Con la pandemia la realtà è entrata nel setting; non solo perché professionista e cliente sono stati accomunati dalle stesse angosce sociali, ma anche e soprattutto perché, in maniera eccedente, la politica è entrata nel setting, definendo gli obiettivi di lavoro di una relazione, ma anche la legittimità di alcune relazioni. Come mai non ci siamo chiesti cosa significasse questa intrusione dello Stato nei setting terapeutici? di cosa parla? Forse, se ci fossimo posti prima queste domande, alcune terapie non si sarebbero interrotte (sono tante le esperienze di pazienti che hanno interrotto il proprio percorso sentendo che il terapeuta voleva utilizzare il proprio potere per convincerle alla vaccinazione).
Da quando devo convincere il paziente a fare qualcosa perché io so cosa è giusto per lui? La risposta di tanti sarebbe sicuramente “lo dobbiamo fare per il bene della comunità”, ma anche in questo caso, credo che sarebbe utile disarticolare e disambiguare gli impliciti sottostanti a certe affermazioni. Cosa è il bene della comunità? qual è il bene dell’individuo? cosa significa bene? e salute? il bene collettivo è realmente un bene plurimo e plurale? in che modo individuo e pluralità si incontrano, e fino a che punto il bene individuale deve dissolversi nel bene collettivo? l’epistemologia del mentale è sovrapponibile tout court alle epistemologie scientifiche?
Ritengo sempre molto rischioso per i professionisti del mentale abbandonare l’impegno alla costruzione di mappe cognitive flessibili, capaci di ampliarelo sguardo; al contrario, i perimetri ristretti dei saperi monolitici, lo sappiamo bene, se da un lato sono rassicuranti, dall’altro ergono muri invalicabili tra le persone.
Davvero possiamo chiedere soltanto alla scienza, alla norma, alla standardizzazione la soluzione a problemi che hanno a che fare con la convivenza, la pluralità e l’umano? come tornare a rendere tali questioni centrali per la convivenza?
Sono domande che chiamano in causa una deontologia plurale per una psicologia del soggetto plurale.
Il progetto #dallastessaparte parte proprio da questa prospettiva che diventa bussola per l’incontro con l’Altro.
Se restiamo immobili, se le regole e le norme diventano il fine per cui operiamo, e non uno degli strumenti che ci permettono di realizzare il nostro lavoro, rischiamo di diventare automi, meri esecutori di direttive senza più senso. Siamo professionisti della salute e operiamo in autonomia: accogliamo le richieste senza alcuna discriminazione, nel rispetto dei principi costituzionali e deontologici. Come professionisti della salute mentale, abbiamo gli strumenti per guardare alla complessità delle relazioni d’aiuto. Ma è soprattutto un vincolo morale e deontologico che ci spinge a mantenere sempre la possibilità sospendere l’azione per ragionare. Porsi domande è parte integrante del nostro lavoro: mai fermarsi all’idea che ciò che appare già normato, corrisponda invariabilmente al giusto.
È di questo che, come psicologi, dovremmo tornare ad occuparci: come ridare parole all’impensabile, accettare l’imprevedibile e imparare ad attraversarlo nel pieno rispetto delle singolarità plurime che attraversano lo spazio sociale.