Roberta Campo ripercorre i principali accadimenti degli ultimi anni e, con acume e competenza, ci aiuta a riflettere sulle gravi conseguenze psicosociali delle politiche di contenimento del virus.
Questo articolo rappresenta l’ulteriore sviluppo del documento presentato all’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia durante l’interlocuzione avvenuta lo scorso 21 giugno 2022.
In esso trovano spazio molti dei temi cari ai membri dell’Associazione #dallastessaparte, fra tutti evidenziamo il valore del gruppo come primo incubatore del pensiero critico sulla società.
È un commento molto profondo, cui vi invitiamo a dedicare il giusto tempo.
Buona lettura!
“Qualcosa è cambiato” in questi ultimi anni, e molti sono gli interrogativi che attraversano il mondo delle professioni, non ultimo quello della psicologia. O forse qualcosa era cambiato da tempo, e questi ultimi anni passati tra lockdown, chiusure e obblighi ci stanno solo consentendo di visualizzare con più chiarezza alcune questioni.
Non ho grandi conclusioni da mettere sul piatto, ma ho molte domande aperte sulle quali mi sono confrontata in questi anni e mi continuo a confrontare, insieme a colleghi disposti a farlo.
Ritengo che il nuovo coronavirus abbia semplicemente fatto emergere in figura tutta una serie di questioni, di assunti che ci hanno accompagnato anche durante i cosiddetti anni “prepandemici”.
L’ “emergenza pandemica” ci ha colti tutti più o meno alla sprovvista e molto si è agitato dentro di me e attorno a me: ciò che mi ha maggiormente sostenuto è stata la possibilità di pensare dentro i gruppi, anche se virtuali (spesso gli unici che in alcuni casi è stato concesso abitare per molto tempo); luoghi dove potersi confrontare, dove poter riflettere su come continuare a essere d’aiuto e di sostegno in “stato di emergenza”, su come rispondere alle angosce dei pazienti, dove poter essere di aiuto a noi stessi; luoghi, inoltre, dove poter fare ancora critica sociale. Eravamo tutti accomunati dal desiderio di metterci pensiero insieme. Il sostegno e nutrimento avuto da questi attraversamenti è stato di un valore inestimabile e probabilmente, rispetto allo sconvolgimento personale e sociale, non sarei riuscita a farci un pensiero senza un confronto vivo e attivo con i colleghi.
All’inizio del primo lockdown il mondo sembrava essersi fermato bruscamente: i canti intonati dai balconi si alternavano solo con la voce dei giornalisti che aggiornavano sui numeri delle vittime. Apparentemente null’altro sembrava accadere. Al coro intonato delle famiglie resilienti, infatti, si contrapponeva il silenzio dei bambini, l’isolamento degli anziani privati degli affetti, le morti in solitudine, i lutti negati…
Il lockdown, che in un primo momenti è stato accolto con sollievo da tanti, mostrava subito una parte francamente problematica, di cui però in pochi sembravano volersi fare carico.
Nei mesi successi, la spaccatura tra le persone si è andata allargando, e la polarizzazione dei punti di vista è diventata una costante della maggior parte dei confronti pubblici e privati: ciò che inizialmente sembrava essere un coro unico, non lo era più, e le persone divergevano tra loro non solo sulle strategie da adottare, ma anche sulle letture necessarie per affrontare la situazione.
Tutti ricorderemo le domande che hanno caratterizzato la primavera del 2020: i runner sono persone con una spiccata tendenza all’antisocialità o sono persone normali che testimoniano un diritto altro alla salute? I droni sono fondamentali per la sicurezza pubblica e privata, o al contrario sono una forma di controllo sociale? Immuni è usata solo da persone capaci di adottare un comportamento altruistico e dotate di un alto codice morale, o il comportamento morale caratterizza anche coloro che scelgono di non scaricare l’app?
Ciò che mi colpiva, in quei primi mesi, era la presenza di un sentimento apparentemente inaspettato all’interno di quella comunità che solo pochi giorni prima aveva dipinto arcobaleni sulle lenzuola: il risentimento.
Il risentimento sembrava avere preso in ostaggio il legame sociale e gli affetti: il corpo unico, solidale, capace di intonare inni rassicuranti, lasciava il posto a un corpo diviso, disarticolato, all’interno del quale ci si andava scoprendo profondamente diversi.
Scoprirci diversi ha spaventato molti, probabilmente perché la diversità è stata vista come l’ostacolo che non permetteva di aderire a comportamenti virtuosi, altruistici e compatti: sì, bisognava essere compatti! Ognuno di noi potenzialmente, con il proprio sentire e agire autonomo (non necessariamente irresponsabile) poteva mettere a repentaglio gli sforzi comuni profusi per uscire dalla “emergenza”.
Probabilmente per questo i comportamenti e i pensieri difformi provocavano risentimento: si ritenevano alcuni più responsabili di altri nel mantenimento di una condizione, in questo caso lo stato di emergenza sanitaria; nessuno si sentiva più al sicuro davanti alle strategie adottate e rappresentate dall’Altro.
Abbiamo, quindi, iniziato a scoprirci diversi: ognuno di noi, con il proprio agire, stava raccontando le proprie soluzioni per navigare o restare sospesi, dichiarava i propri valori e, perché no, le proprie ideologie.
Per la prima volta ci sembrava di parlare linguaggi diversi. Nei mesi precedenti l’inizio dell’ ”emergenza pandemica” non avevamo mai sperimentato questo tipo di inquietudine: quando si affrontavano argomenti quali la salute, i valori, i principi di riferimento di una società, il concetto di libertà si aveva, bene o male, la sensazione di avere tutti la stessa cosa in mente; cambia poco ma, insomma! la definizione di salute è quella, così come quella di bene comune o di libertà; nulla ci ha mai fatto sospettare che potevamo anche avere in mente delle cose molto diverse tra loro, nonostante l’apparente omogeneità. Credo che in quei primi mesi abbiamo perso una delle occasioni per iniziare a disambiguare le parole, e comprendere come dentro parole solo foneticamente uguali si possano nascondere significati molto diversi.
Questa inquietudine attraversava molte delle relazioni amicali, ma anche le relazioni con i colleghi. Cambiava qualche accenno più teorico a sostegno di una tesi o dell’altra, ma la sostanza rimaneva quella: non ci capivamo e, forse, ci si sentiva anche un po’ traditi nella misura in cui ci si andava scoprendo (nella relazione con sé e con l’altro) diversi da come ognuno aveva pensato di essere.
E intanto non si parlava più, si litigava. Le questioni principalmente in ballo riguardavano il che cosa si intendesse per salute, libertà, bene comune, collettività, individualismo, quasi alla ricerca di definizioni uniche, astoriche e assolute: non potendole vedere come il frutto di una negoziazione culturale durata secoli, si è negato il profondo legame tra queste “definizioni” e il sistema di valori personali e di gruppo, e con aspetti identitari più profondi.
Quello che però mi turbava era la sensazione che alcuni discorsi fossero più legittimati di altri perché dichiarati da una posizione di autorità. In ballo, però, non vi era solo il rapporto che ognuno di noi intrattiene con l’autorità, ma la stessa relazione tra autorità e verità.
La situazione ha preso una strada decisamente grottesca quando sono stati immessi sul mercato i primi “vaccini”; qualcosa è ulteriormente cambiato, i toni sono divenuti più aspri, sempre più violenti; qualcosa è cambiato, purtroppo in peggio, e probabilmente anche i diversi gruppi professionali sono stati attraversati dalle stesse scissioni che hanno attraversato lo spazio sociale più ampio.
Perché qualcuno, inspiegabilmente, si sentiva più vicino al Vero rispetto ad altri?
Forse perché l’essere personalmente risolto, razionale si è imposto, in questi ultimi anni, come una categoria del Vero. Anche nel caso dei cosiddetti vaccini si è probabilmente riproposta la questione dell’essere risolti.
L’implicito è che chi è risolto è riuscito a neutralizzare il dato soggettivo, e può quindi assolvere sufficientemente bene il principio di autorità: chi è risolto è razionale e scientifico, non è vittima di pregiudizi e superstizioni, e quindi può essere espressione del Vero.
Nell’immaginario collettivo, però, è la scienza a essere vista come quella che meglio riesce a garantire la possibilità di neutralizzare il dato soggettivo distorcente, proiettivo, scissionale… L’essere risolto, quindi, sembra divenire sinonimo di scienza: il pensiero scientifico è l’unico che garantisce lucidità, scelte sagge e legate al bene collettivo.
Come se, l’essere risolti, non avere questioni in sospeso e non avere turbamenti garantisca a priori il mantenimento di quell’atteggiamento lucido e coraggioso necessario nell’attuale società.
Così la delegittimazione di alcuni discorsi avviene in nome della scienza che è l’unica di fatto a permettere, con il suo sviluppo, sempre maggiore gradi di civiltà e di civilizzazione (pensiamo a tutta la retorica sul bene comune). Tutti coloro che parlano a nome proprio sono egoisti, creduloni, superstiziosi, comunque problematici. Ma il rapporto che ognuno ha con la verità non può essere mediato dalla scienza.
I pensieri divergenti, le voci critiche sulla gestione della pandemia e sulla deroga al principio di precauzione scientifico in tema di sperimentazione, le riflessioni sul ruolo della scienza all’interno della nostra società sono state messe fuori dallo spazio democratico (“chi non è d’accordo si accomodi fuori”) perché in contrasto con una qualsiasi forma di deontologia scientifica.
La negazione del dato soggettivo e la questione deontologica si erano già incontrate in questi anni, ma con la vicenda vaccinale esse sembrano stringere un vero e proprio sodalizio.
La pandemia o qualsiasi altra situazione emergenziale, scientificamente e tecnicamente definita, può essere gestita solo da voci esperte, autorevoli, scientifiche e quindi vere. Gli esperti, così come gli scienziati, avendo neutralizzato quella distorsione soggettiva che falsifica il pensiero, sanno cosa fare, e lo fanno bene e per il bene. In altre parole, la scienza (esatta) risolve il problema della verità.
Ma che spazio ha ancora la visione politica e sociale all’interno di una società tecnocratica? che spazio di libertà hanno ancora i cittadini nel decidere quali modalità li aiutano a vivere e pensare una determinata situazione, anche sostenendo l’arbitrio della propria posizione. Davvero questo deve essere monopolio dello Stato?
Mi è stato più volte ripetuto che “non abbiamo le competenze per capire”. Ma è davvero così? E anche se fosse, cosa ci impedisce di iniziare a costruire tali competenze per capirne di più? quando abbiamo smesso di occuparci del nostro spazio politico e sociale delegando agli esperti qualsiasi decisione su di noi?
Il prezzo di questa gestione è stato per certi versi inevitabile: le soluzioni tecnico-scientifiche non hanno per nulla aiutato le persone a non soffrire, a non avere paura, a non impazzirci, a non nutrire risentimento per il proprio caro, anzi hanno aumentato il disagio e amplificato gli spazi del malessere.
Davvero avremmo dovuto solo adattarci alla nuova normalità? Ma poi, a cosa dovevamo adattarci: al distanziamento sociale? a una nuova visione dei rapporti sociali? a una nuova visione del mondo?
Si iniziava a parlare di una nuova normalità, come se adattarsi fosse questione di tempo, ma alla fine ci saremmo abituati tutti a questa nuova modalità di stare al mondo. E forse l’accettazione non troppo problematica del green pass ci dice quanto questo modello sia entrato dentro di noi. La gestione tecnico-scientifica ha mortificato i movimenti soggettivanti di gruppi e di persone, aumentando le richieste di aiuto nei confronti dei professionisti.
Agli psicologi è stato chiesto di sostenere la campagna vaccinale, cercando di lavorare affinché i pazienti potessero maturare da soli la scelta di vaccinarsi liberamente. Qualcuno davanti a questa proposta ha sussultato, qualcuno no.
Con la pandemia la realtà è entrata nel setting; non solo perché professionista e cliente sono stati accomunati dalle stesse angosce sociali, ma anche e soprattutto perché, in maniera eccedente, la politica è entrata nel setting, definendo gli obiettivi di lavoro di una relazione, ma anche la legittimità di alcune relazioni. Come mai non ci siamo chiesti cosa significasse questa intrusione dello Stato nei setting terapeutici? di cosa parla? Forse, se ci fossimo posti prima queste domande, alcune terapie non si sarebbero interrotte (sono tante le esperienze di pazienti che hanno interrotto il proprio percorso sentendo che il terapeuta voleva utilizzare il proprio potere per convincerle alla vaccinazione).
Da quando devo convincere il paziente a fare qualcosa perché io so cosa è giusto per lui? La risposta di tanti sarebbe sicuramente “lo dobbiamo fare per il bene della comunità”, ma anche in questo caso, credo che sarebbe utile disarticolare e disambiguare gli impliciti sottostanti a certe affermazioni. Cosa è il bene della comunità? qual è il bene dell’individuo? cosa significa bene? e salute? il bene collettivo è realmente un bene plurimo e plurale? in che modo individuo e pluralità si incontrano, e fino a che punto il bene individuale deve dissolversi nel bene collettivo? l’epistemologia del mentale è sovrapponibile tout court alle epistemologie scientifiche?
Ritengo sempre molto rischioso per i professionisti del mentale abbandonare l’impegno alla costruzione di mappe cognitive flessibili, capaci di ampliare lo sguardo; al contrario, i perimetri ristretti dei saperi monolitici, lo sappiamo bene, se da un lato sono rassicuranti, dall’altro ergono muri invalicabili tra le persone.
Davvero possiamo chiedere soltanto alla scienza, alla norma, alla standardizzazione la soluzione a problemi che hanno a che fare con la convivenza, la pluralità e l’umano? come tornare a rendere tali questioni centrali per la convivenza?
Sono domande che chiamano in causa una deontologia plurale per una psicologia del soggetto plurale.
Il progetto #dallastessaparte parte proprio da questa prospettiva che diventa bussola per l’incontro con l’Altro.
Così si legge nella nostra Carta Costituente:
Se restiamo immobili, se le regole e le norme diventano il fine per cui operiamo, e non uno degli strumenti che ci permettono di realizzare il nostro lavoro, rischiamo di diventare automi, meri esecutori di direttive senza più senso. Siamo professionisti della salute e operiamo in autonomia: accogliamo le richieste senza alcuna discriminazione, nel rispetto dei principi costituzionali e deontologici. Come professionisti della salute mentale, abbiamo gli strumenti per guardare alla complessità delle relazioni d’aiuto. Ma è soprattutto un vincolo morale e deontologico che ci spinge a mantenere sempre la possibilità sospendere l’azione per ragionare. Porsi domande è parte integrante del nostro lavoro: mai fermarsi all’idea che ciò che appare già normato, corrisponda invariabilmente al giusto.
È di questo che, come psicologi, dovremmo tornare ad occuparci: come ridare parole all’impensabile, accettare l’imprevedibile e imparare ad attraversarlo nel pieno rispetto delle singolarità plurime che attraversano lo spazio sociale.